Rosmini: necessità di un profondo "rinnovamento" della Chiesa.

Gli anni in cui Rosmini scrive Le cinque piaghe sono percorsi da un vivace dibattito sulla necessità di un profondo "rinnovamento" della Chiesa. In Francia, dove il confronto assume toni più marcati, ne sono protagonisti Montalambert, Lacordaire e Lamennais, le cui idee trovano ampio risalto sulle pagine del giornale L’Avenir. Il "manifesto" dei cattolici liberali transalpini «appoggiava soprattutto idee ispiranti la libertà di coscienza e di culto, la libertà di stampa, di insegnamento e di associazione e la separazione tra Chiesa e Stato, indispensabile per ridare alla Chiesa la libertà».

In Italia, l’eco di queste riflessioni la ritroviamo negli scritti di Alessandro Manzoni, Cesare Tapparelli d’Azeglio e Pietro di Santarosa, che propugnano una riforma della Chiesa che parta "dal basso", mentre il Capponi e il Lambruschini guardano soprattutto al modello "protestante" (…).

Dopo l’elezione di Pio IX, Rosmini pensa sia giunto il momento di uscire allo scoperto. «Quest’opera», scrive in quella che potremmo definire la "postfazione", «incominciata nell’anno 1832 e compita nel seguente, dormiva dimenticata nello studiolo dell’autore, non parendo i tempi propizi a pubblicar quello ch’egli aveva scritto più per allevamento dell’animo suo, afflitto dal grave stato in cui vedeva la Chiesa di Dio, che non per altra ragione. Ma ora che il Capo invisibile della Chiesa collocò sulla Sedia di Pietro un pontefice che par destinato a rinnovare l’età nostra e a dare alla Chiesa quel novello impulso che deve spingere per nuove vie ad un nuovo corso quanto impreveduto altrettanto meraviglioso e glorioso; si ricorda l’autore di queste carte abbandonate, né dubita più di affidarle alle mani di quegli amici che con lui dividevano in passato il dolore e al presente le più liete speranze».

Dai piedi della croce, gli occhi fissi sull’«uomo dei dolori», Rosmini inizia il percorso della sua opera, partendo dalla piaga della mano sinistra: "La divisione del popolo dal clero nel pubblico culto". Nei sacramenti, luogo visibile del mistero della salvezza, si realizza l’unità del popolo di Dio: «Nella Chiesa tutti i fedeli, clero e popolo, rappresentano e formano quell’unità bellissima, di cui ha parlato Cristo quando disse: "Dove due o tre saranno riuniti in nome mio consenzienti in tutte le cose, ivi io sarò in mezzo a loro"».

Ma occorre che i riti sacri non siano vissuti dai fedeli come spettatori: la liturgia non è uno spettacolo cui assistere, ma un mistero di cui essere protagonisti. Un obiettivo reso difficile da due ostacoli: l’insufficiente preparazione del popolo e l’uso di una lingua, il latino, che ormai è incomprensibile ai più. Enunciato il problema, suggerisce anche la soluzione: «Sostenere il più che si possa lo studio della lingua latina, diffondendolo nel maggior numero possibile di fedeli; dare al popolo cristiano una diligente spiegazione delle funzioni sacre introducendo altresì la consuetudine che i fedeli che sanno leggere (e tutti dovrebbero sapere) assistano agli uffici ecclesiastici con libri appositi, nei quali v’abbia in volgare l’equivalente di quello che nella Chiesa si recita in latino idioma».

Per istruire al meglio i fedeli occorre, però, un clero all’altezza della situazione. E qui Rosmini passa a descrivere la seconda piaga, quella della mano destra: "L’insufficiente educazione del clero". Dopo aver ricordato che «la predicazione e la liturgia erano nei più bei tempi della Chiesa le due grandi scuole del popolo cristiano: la prima ammaestrava i fedeli colle parole; la seconda colle parole insieme con i riti», indica nella sommaria formazione teologica del clero il nodo cruciale da affrontare. Il clero – denuncia – è insieme vittima e causa della povertà culturale delle comunità cristiane. Punta quindi il dito contro l’arretratezza e superficialità dei libri di testo usati nelle scuole di teologia, «ciò che di più meschino e di più svenevole fu scritto nei diciotto secoli che conta la Chiesa: libri, per riassumere tutto in una parola, senza spirito, senza princìpi, senza eloquenza e senza metodo…».

Non risparmia nemmeno una frecciata alla scarsa qualità degli insegnanti, confrontandola con quella dei "maestri" di ieri: «Certo, solo dei grandi uomini possono formare degli altri grandi uomini: e questo è appunto un altro pregio dell’educazione antica dei sacerdoti, che veniva condotta dalle mani dei maggiori uomini che la Chiesa avesse». Chiama quindi in causa i vescovi: troppo presi da mille altre incombenze, trascurano di curare adeguatamente i seminari. E ricorda: «Nei primi secoli, la casa del Vescovo, era il seminario dei preti e dei diaconi; la presenza e la santa conversazione del loro Prelato riusciva un’infuocata lezione, continua, sublime, ove la teoria nelle dotte parole di lui, la pratica alle assidue sue pastorali occupazioni congiuntamente apprendevansi».

Riferendosi ai pastori delle diocesi, passa a descrivere la terza piaga, quella del costato: "La disunione dei vescovi". La radice di questo male la rintraccia nelle pieghe della storia, in particolare nel periodo del feudalesimo: «La storia della Chiesa dimostra ancora che i vescovi, venuti in possesso di signorie, furono inimicati fra loro e implicati in fazioni, in guerre, in tutte le orribili discordie che hanno agitato i popoli dei secoli passati, discordie atroci contro l’umanità, fatali a quella Chiesa che è fondata nell’amore».

Le divisioni nell’episcopato sono state alimentate dal potere e dalla ricchezza, «che sono per loro natura infauste fonti di contese, o per chi le vuole difendere per conservarle, o per chi le adopera quali mezzi di offendere, per ingrandirle». Per difendere il loro potere temporale, i vescovi si sono alleati con i signorotti feudali, lasciandosi coinvolgere nelle diatribe politiche, finendo per diventare succubi del potere.

I potenti, in cambio di questa alleanza, hanno preteso di farla da padroni nella vita della Chiesa. È questa la quarta piaga, quella del piede destro: "La nomina dei Vescovi abbandonata al potere laicale", che mina alla base la libertà della Chiesa. «Ogni società libera», scrive Rosmini, «ha essenzialmente il diritto di eleggersi i propri ufficiali. Questo diritto le è tanto essenziale e inalienabile, quanto quello di esistere. Una società che ha ceduto in altrui mani l’elezione dei propri ministri, ha con questo alienato se stessa». Una condizione di sudditanza inaccettabile, perché: «Se c’è sulla terra una società che ha il diritto di esistere, il che equivale a dire che ha il diritto di essere libera, è certamente la Chiesa, che questo diritto l’ha ereditato dalla parola immortale del suo fondatore. La Chiesa di Gesù Cristo non può dunque cedere in altrui mano il proprio governo, non può vendere né alienare in alcun modo a chicchessia l’elezione dei propri governatori, perché così facendo distruggerebbe se stessa».

Rosmini si sofferma quindi sui requisiti dei candidati all’episcopato: dovrebbero essere «santità e prudenza». Ma se l’ultima parola spetta all’autorità politica, difficilmente la scelta cadrà su un uomo dotato di queste virtù: più facilmente, se ne preferirà uno gradito al potere. Anche nel caso della nomina dei vescovi, la soluzione sta nel recuperare la lezione delle prime comunità cristiane, nelle quali il pastore era eletto perché «il migliore di quanti se ne possono avere», «un uomo grave, maestro in teologia o in diritto», «un sacerdote conosciuto, amato e voluto da tutti quelli a cui egli deve comandare, il che vuol dire da tutto il clero e il popolo della diocesi a cui è destinato».

Ancora una volta, la risposta ai mali di oggi sta scritta nel passato: «Le elezioni dei primi Pastori destinati a pascere il gregge di Cristo siano fatte liberamente dalla Chiesa, cioè dalla ecclesiastica podestà… Qualunque diminuzione della libertà della Chiesa nella scelta dei suoi Pastori vulnera dunque il suo diritto divino; perché Gesù Cristo l’ha fatta libera e indipendente. Occorre dunque che la pienezza della libertà della Chiesa, anche in questo, sia senza indugio rivendicata e reintegrata». Ma non è tutto: tornando al modello della Chiesa primitiva, è necessario che «nelle elezioni sia ascoltata la plebe cristiana, ne sia veramente raccolta la testimonianza, in modo che la comunità non sia forzata nemmeno moralmente a ricevere un pastore in cui non ha confidenza e che forse neppure conosce né di nome, né di volto, né d’opera, né di fama, mentre le pecore conoscono il loro pastore, come ha detto Gesù».

Il "baratto" tra Chiesa e potere, col quale il secondo ha ottenuto di poter determinare la nomina dei vescovi, assicurando loro in cambio ricche prebende e privilegi, è all’origine della quinta piaga, quella del piede sinistro: "La servitù dei beni ecclesiastici". Rosmini conferma di considerare il feudalesimo la «madre di tutte le piaghe», anche di quest’ultima, che denuncia con accenti accorati, ricordando come «la Chiesa primitiva era povera, ma libera: la persecuzione non le toglieva la libertà del suo reggimento; neppure lo spoglio violento dei suoi beni pregiudicava punto alla sua vera libertà. Ella non aveva vassallaggio, non protezione, meno ancora tutela o avvocazia». Voltate le spalle alla povertà evangelica, gli uomini di Chiesa hanno iniziato a sporcarsi le mani con il danaro, a servirlo anziché servirsene, ad amministrarlo senza renderne conto alla comunità.

Appena le prime copie delle Cinque piaghe iniziano a circolare, incomincia il fuoco di fila di quanti individuano in Rosmini un pericoloso "rivoluzionario", in grado di minare alle radici l’ordine costituito. Due, in particolare, le accuse che gli vengono rivolte: aver caldeggiato l’uso della lingua volgare nella liturgia; aver proposto l’elezione dei vescovi da parte del popolo. Peccato che siano fondate sul nulla. Rosmini non propone di cancellare il latino dalla liturgia: vorrebbe che i fedeli siano messi in grado di capire la grandiosità e il fascino dei riti cui partecipano. Quanto alla nomina dei vescovi, non pensa assolutamente a una loro "elezione democratica": chiede solo che si tenga conto dei desideri e delle attese delle comunità locali.

Ma la vera ragione della condanna è politica. Le Cinque piaghe non vengono lette solo nelle stanze della Curia vaticana: finiscono sotto la lente di ingrandimento delle Cancellerie di mezza Europa e provocano una serie di interventi, che si concretizzano in un fitto carteggio tra la segreteria di Stato e i nunzi a Parigi, Monaco e Vienna. Invocando una separazione tra Chiesa e Stato, Rosmini ha toccato un nodo scoperto, in un momento in cui l’alleanza tra trono e altare sembra a molti l’unico argine possibile per impedire che il "vento del ’48" travolga l’uno e l’altra. In Vaticano si staglia la figura del cardinale Antonelli, deciso a sfruttare anche questa occasione per liberarsi di un pericoloso avversario.

La critica del "temporalismo" non potrebbe cadere nel momento più opportuno per la Chiesa, ma più inopportuno per il roveretano. «Per Rosmini», ricorda Danilo Zolo, «la riforma della Chiesa potrà essere realizzata soltanto se la società religiosa riconoscerà la sua differenza radicale rispetto alla società politica e rinuncerà a usare ai suoi fini gli strumenti della politica e dello Stato, e cioè il potere, il diritto e la ricchezza». I tempi non sono ancora maturi. Rosmini parla da profeta in un mondo di politicanti, immagina il futuro in un’epoca in cui ancora troppi incespicano nel presente. La sua lezione verrà recepita solo nei decenni successivi, e sarà fatta propria dal Concilio Vaticano II (1962-1965), del quale anticipa l’agenda in molti punti qualificanti.

Il 28 novembre del 1997, nel corso di un convegno promosso dall’Università Cattolica di Milano, sarà un gesuita, il cardinale Carlo Maria Martini a tessere l’elogio delle Cinque piaghe: «A livello generale stupisce e desta ammirazione in questo libro la straordinaria vivacità dello stile, la vis polemica, la forza del linguaggio. È un libro ancora vivo, fresco, pungente, appassionato. È un libro sostenuto da un grande amore alla Chiesa e insieme da una grande audacia e da un forte spirito profetico. Rosmini intravede vie di uscita e soluzioni possibili da mali antichi, riesce a leggere come abusi inaccettabili situazioni a cui ci si era da lungo tempo abituati e che sembravano ormai radicate. Oggi, soprattutto dopo il Vaticano II, questo giudizio positivo è facile, perché siamo stati testimoni di mutamenti rilevanti nella liturgia, nelle usanze e nel linguaggio; ma si può comprendere quale fatica facessero non pochi suoi contemporanei a lasciarsi mettere in questione in maniera così radicale».

Il cardinale Martini non si limita a un generico riconoscimento delle intuizioni anticipatrici, contenute nelle Cinque piaghe: indica la strada ancora da percorrere, per dar loro un effettivo compimento.

A proposito della liturgia, l’ex arcivescovo di Milano afferma: «Pur valutando positivamente tutte le riforme introdotte dal Vaticano II e precorse dal Rosmini con spirito profetico noi sentiamo, in questa fase del rinnovamento liturgico, che occorre andare oltre le riforme e alcune speranze troppo corte per entrare nella profondità del mondo dei simboli che congiunge le grandi dinamiche antropologiche con le costanti del piano divino di salvezza. La liturgia non è solo una serie di cerimonie, di parole, di gesti, di riti, di atti sacri: è anche un grembo, una matrice, un universo sacro da cui lasciarsi avvolgere e compenetrare senza pretendere di sminuzzarne analiticamente tutti i contenuti». Queste parole colgono il significato più profondo dell’amore di Rosmini per la liturgia, da lui così descritta come un insieme di gesti e parole «che rivelano al cuore ravvivato dell’uomo l’immortale bellezza della verità i reali premi della virtù, e che svelano Dio al sentimento… Parole e segni di Dio: parole che creano un’anima nuova dentro l’antica, una nuova vita, dei nuovi cieli e una nuova terra».

Anche sui temi della formazione del clero, della nomina dei vescovi e della povertà della Chiesa, le frontiere indicate nelle Cinque piaghe restano in parte da esplorare. Del Concilio Vaticano II, Rosmini può essere considerato, a pieno titolo, un precursore e un ispiratore. Nella Costituzione conciliare sulla Liturgia, la Sacrosantum Concilium (n. 14) leggiamo ad esempio: «A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e dell’incremento della Liturgia: essa infatti è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano, e perciò i pastori d’anime, in tutta la loro attività pastorale, devono sforzarsi di ottenerla attraverso un’adeguata formazione». Sono parole che sembrano l’eco di quelle scritte da Rosmini tanti decenni prima. Quanto alla "disunità dei vescovi", denunciata da Rosmini, il decreto conciliare Christus Dominus afferma al n. 6: «I Vescovi, sia come legittimi successori degli Apostoli, sia come membri del Collegio episcopale, sappiano essere tra loro uniti».

Rosmini denunciava l’ingerenza dei politici nelle nomine dei vescovi come un attentato alla libertà della Chiesa? Ecco quanto si legge ancora nel documento conciliare dedicato ai vescovi: «Per difendere, com’è giusto, la libertà della Chiesa e per promuovere sempre più adeguatamente e speditamente il bene dei fedeli, questo Sacrosanto Concilio fa voti che, per l’avvenire, alle Autorità civili non siano più concessi diritti o privilegi di elezione, nomina, presentazione o designazione all’ufficio episcopale».

Potremmo continuare a lungo nella suggestiva ricerca di profonde analogie tra i documenti del Vaticano II e le Cinque piaghe della Santa Chiesa, ma lasciamo ancora la parola al cardinale Martini: «Noi abbiamo visto con i nostri occhi che alcuni dei buoni semi gettati in terra arida dal Rosmini hanno dato buoni frutti e possiamo sperare che anche altri ne daranno».

Per aver seminato in "terra arida", Rosmini è stato messo dapprima all’Indice e quindi dimenticato per decenni nei sotterranei della Chiesa. È il destino che tocca ai profeti: parlare al futuro, un tempo che molti non conoscono…

fonte: Jesus Novembre 2007

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