Cosa ci si può aspettare dalle proposte di rinnovamento di papa Francesco se è questo il quadro della Curia romana?

di Marcelo Barros

Da quando Francesco è stato scelto come vescovo di Roma, è tornato a riaffacciarsi il tema della Teologia della Liberazione, in relazione al Vaticano e alle posizioni del papa. Nel settembre del 2013, il papa ha ricevuto Gustavo Gutiérrez e in Italia è uscito il libro scritto da quest’ultimo insieme al card. Müller, attuale presidente della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Di fatto, quanti si richiamano alla Teologia della Liberazione hanno affermato che la cosa più importante non è la teologia in sé, ma il processo sociale e politico della liberazione, sempre più necessario e urgente in tutti i continenti. Pertanto, non si tratta di sapere se il papa abbia aderito o meno alla Teologia della Liberazione. L’importante è che sia sensibile e attento ai problemi segnalati e denunciati da questa teologia in tutto il mondo. Ed è proprio questo che il papa ha dimostrato, tanto nei suoi discorsi e nelle interviste da lui rilasciate quanto nel suo viaggio a Lampedusa in solidarietà con i migranti perseguitati o nella sua Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (n. 53- 60).

Senza contare che il 5 dicembre scorso, su richiesta di papa Francesco, l’Accademia delle Scienze del Vaticano ha invitato rappresentanti dei movimenti sociali di tutto il mondo per analizzare la sfida di un’economia di esclusione e del modo in cui si può contrastarla.
L’ATTUALITÀ DEL VANGELO

La semplicità e la gradevolezza che caratterizzano la presenza di papa Francesco e le posizioni da lui adottate mi fanno tornare alla mente un episodio che ho vissuto poco meno di 50 anni fa in qualità di segretario e consigliere di mons. Hélder Câmara, allora arcivescovo di Olinda e Recife. Negli archivi dell’arcivescovo c’è una lettera personale da lui inviata nel 1966 al suo amico di lunga data, papa Paolo VI, nella quale il vescovo profeta gli chiedeva di compiere un gesto profetico: rinunciare ad essere un capo di Stato per tornare ad essere soltanto vescovo di Roma e, come tale, pastore dell’unità delle Chiese. Ed è in tal senso che, secondo la lettera, il papa avrebbe dovuto cedere il Vaticano alle Nazioni Unite e trasferirsi a San Giovanni in Laterano, prima residenza dei vescovi di Roma.

Poche settimane più tardi, l’arcivescovo di Recife ricevette una lettera dal Vaticano. In essa il cardinal Villot, segretario di Stato, affermava: «Il Santo Padre ringrazia per la sua lettera, ma le ricorda che questi non sono più i tempi del Vangelo». Mons. Hélder rimase addolorato da questa risposta.

Se fosse ancora vivo, oggi sarebbe certamente felice: finalmente, direbbe, abbiamo in Vaticano, dopo Giovanni XXIII, un cristiano che crede nell’attualità del Vangelo di Gesù e la esprime pubblicamente. Viviamo in tempi di Vangelo. Anche se, per il momento, il papa non può trasferirsi a San Giovanni in Laterano o ritiene di non dover rinunciare ad essere un capo di Stato, i segnali che egli invia indicano che lui coglie le contraddizioni esistenti nella realtà attuale, rivelando una libertà interiore in direzione di ciò che chiede il Vangelo.
IL VESCOVO DI ROMA

Durante l’ultimo Conclave, un giornalista brasiliano mi chiese cosa pensavo della possibilità di un papa brasiliano. Gli risposi che non lo volevo. Preferivo un papa italiano che facesse il vescovo di Roma e rispettasse l’autonomia e l’ecclesialità delle Chiese locali. Quando si seppe che la scelta era caduta su Bergoglio, mi resi conto che, nell’attuale realtà ecclesiale, l’elezione di Francesco era stata una benedizione divina. Io non speravo in un papa della Teologia della Liberazione, ma in uno che accettasse di convivere con il pluralismo del mondo e delle Chiese. Un buon segnale che, fin dall’inizio, l’attuale papa ha mandato al mondo.

In generale, i giornalisti hanno richiamato l’attenzione sulla semplicità con cui egli si presenta e sulla sincerità con cui affronta le complesse questioni morali e istituzionali. Penso che la decisione più coraggiosa che abbia preso sia quella di presentarsi, fin dal primo momento della sua elezione, come “vescovo di Roma”. Teologicamente, questo mi sembra più importante e innovativo delle sue posizioni etiche e teologiche, perché consente alla Chiesa di tornare a rispettare la diversità di discipline, di liturgie e anche di teologie nei diversi continenti e nelle diverse realtà locali.

Come vescovo di Roma e primate dell’unità delle Chiese, il papa riprende l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II nel suo proposito di valorizzare le Chiese locali (particulares). E, insistendo sulla necessità che i sacerdoti e i vescovi tornino alla base e cerchino di servire le periferie, Francesco recupera la dottrina della II Assemblea dei vescovi latinoamericani a Medellín (1968), la quale proponeva «una Chiesa di servizio e pasquale, impegnata a favore della liberazione di ogni essere umano e di ogni persona nella sua integrità» (Med. 5, 15). È qui che si incontra quel fondamento della Teologia della Liberazione che si estende anche al di fuori della stessa teologia. Per me, l’importante è che Francesco abbia avviato un dialogo con tutta la teologia, qualunque essa sia, dal momento che i due papi precedenti accettavano solo teologi di corte e nella Chiesa non c’era più spazio per una teologia che non fosse una mera ripetizione di encicliche e documenti ufficiali.

Nel protagonismo di papa Francesco c’è però un problema. Se la simpatia di un papa carismatico fa sembrare positiva una struttura che in sé è sbagliata e che deve cambiare (la struttura attuale del papato con la sua visione di Cristianità), egli non rende un buon servizio all’insieme della Chiesa.

Anche in questo pontificato, la selezione dei vescovi in alcune diocesi del mondo è stata assai poco democratica e pastorale. In Vaticano, papa Ratzinger aveva rafforzato due settori tra i cardinali di Curia: i membri e i sostenitori dell’Opus Dei e i membri e i sostenitori dell’ordine semi-segreto dei Cavalieri di Colombo, fondato negli Stati Uniti, nel 1882, come “braccio destro della Chiesa”, alle cui opere sociali destina ogni anno milioni di dollari. Un ordine che sembra una massoneria e che gode di molto potere in Vaticano, contendendo posti all’Opus Dei nella Curia romana. Recentemente, papa Francesco ha nominato 12 membri per la potente Congregazione dei vescovi, a cui spetta proporre al papa il nome dei candidati all’episcopato in tutto il mondo. Il responsabile di questo organismo della Curia, nonché uomo di fiducia di papa Francesco, è il cardinale canadese Marc Ouellet, molto legato ai Cavalieri. L’arcivescovo di Washington, Donald Williams Wuerl, è membro dei Cavalieri. E così anche il cardinal William Levada. Il cardinale svizzero Kurt Koch, attuale presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, è dell’Opus Dei. E lo stesso si potrebbe dire di molti altri membri della Curia e consiglieri del papa da lui nominati o confermati. Cosa ci si può aspettare dalle proposte di rinnovamento di papa Francesco se è questo il quadro della Curia romana?

In ogni caso, la figura di questo papa semplice e comunicativo serve ora a creare un altro clima e a rendere possibili i cambiamenti nelle Chiese locali, ma è fondamentale che egli non resti centrato sul Vaticano.

adista documenti n. 11 del 2014

 

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