Una lezione di utopia…

I PROGETTI PEDAGOGICI DI DON LORENZO MILANI

Il 26 giugno di quarant’anni fa moriva don Lorenzo Milani, un prete etichettato “scomodo” dai più e considerato un emarginato dalla Chiesa, confinato in un paesino di montagna dove nelle intenzioni avrebbe potuto nuocere solo a poche anime. Si sta avvertendo uno strano montare di consensi nei suoi confronti: intellettuali di destra e sinistra che partecipano ai dibattiti organizzati per commemorarlo, eccelsi astici che insistentemente vanno ripetendo il vecchio ritornello della sua obbedienza “senza se e senza ma” alla Chiesa.
Gli stessi ecclesiastici che dimenticano quanto ebbe a scrivere lo stesso don Dilani: “Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti”. Fu certamente un anticonformista il nostro prete di Barbiana, magari persino anarchicheggiante specie quando prendeva di mira la propria eredità socioculturale, per esempio e a proposito del “santo ateismo” da lui professato e attuato, in cui la fede non era un punto di partenza da ribadire continuamente, ma un traguardo da meritare, frutto di quella educazione attivistica. La sua poliedrica personalità e il carattere delle sue azioni si sono concretizzate in scelte pedagogiche di fondo, ispiratrici poi delle sue felici tecniche didattiche. Il priore di Barbiana aveva tracciato, insomma, un disegno formativo che mirava a trovare volta per volta le soluzioni da applicarsi non tanto alla realtà sociale esistente, quanto pensate per una realtà di cui a priori dobbiamo riconoscere la giustezza etica per i suoi obbiettivi (istruzione come emancipazione) e anche ammirarne l’originale inventiva, non altrettanto però la possibilità di realizzazione. Ecco spiegato, secondo il mio modesto parere, il disegno utopico. Questo non pregiudica e né tanto meno banalizza il suo disegno complessivo che era niente di meno che quello di raddrizzare il mondo ponendo sul trono i poveri al posto dei ricchi e così finalmente attuando la vera giustizia sociale, ma era chiaro anche allo stesso don Milani che questo suo disegno di “raddrizzare il mondo ingiusto” per mezzo della parola data ai poveri poteva apparire un’utopia. Don Milani rimane una personalità complessa, le sue contraddizioni non si possano cancellare, altrimenti se ne va quel tratto di chiaroscuro che era la sua peculiarità ineliminabile. Spesso dalle biografie postume e dagli stessi suoi interventi e carteggi di cui si sta parlando dal nord al sud Italia, si ha l’impressione, quasi la certezza, che don Milani voglia asserire una cosa e poi il suo contrario. Ma spendere centinaia e migliaia di pagine per fasulle disquisizioni su quella o quell’altra posizione in apparenza contraddittoria, nel caso don Milani non serve a nulla perché a volte quel contrasto fa riemergere collegamenti sottotraccia che lo sanano. Che don Milani, anche e a distanza di anni, divida non possiamo darlo per un gioco virtuoso. Memorabile fu l’intervento dello scrittore Vassali che nel 1992 ebbe a definire il priore non un grande educatore ed emancipatore del povero ma piuttosto un pedagogo autoritario, manesco e irridente ogni altro tentativo di reale rinnovamento pedagogico, salvo il proprio, non ammettendo obbiezioni di qualsiasi sorta al proprio assunto per cui tutti i mali derivavano dall’odio dei ricchi contro i poveri. Il suo snobbare i problemi pedagogici – didattici era, ed in parte lo è ancora, comune alla cultura ufficiale, ma rimane comunque un modello di straordinaria umanità, di grandezza d’animo. Si sa che il bersaglio della polemica donmilaniana era in primo luogo la selezione scolastica, culminata con la stesura di “Lettera a una professoressa”. La vera riforma per don Milani sarebbe stata la trasformazione di una scuola selettiva in una scuola egualitaria di massa che ponesse in atto meccanismi a favore dei poveri e a sfavore dei ricchi ma a distanza di quarant’anni di quelle aspettative rimangono solo le parziali e inevitabili concessioni per un accesso facilitato a tutti, anche ai poveri. Per eliminare le selezioni non bastava e non basta aprire gli accessi e diplomare alla fine tutti o quasi, innescando anche oggi quel meccanismo che ha visto raggiungere il titolo finale anche da parte di chi si è presentato all’esame gravato dai famigerati “debiti formativi” non assolti. La risultanza utopica è sotto gli occhi di tutti: il sovrabbondante, incongruo, gettito di diplomati è finito strozzato nel collo della bottiglia degli accessi al lavoro. Oggi con molta probabilità anche i bocciati di Barbiana di oltre quarant’anni fa, sarebbero stati promossi senza neppure bisogno di frequentare un istituto pubblico, ma quando poi si fossero trovati a spasso con la patente di maestro in tasca e per mancanza di posti si fossero dovuti accontentare di tornare a zappare la terra, non si sarebbero pentiti di quella scelta azzardata o avveniristica.
Ermanno Caccia (fonte: avanti.it)

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