Reggio Emilia-elezioni: la disputa e la domanda

di: Lorenzo Prezzi

morandi

A Reggio Emilia e in alcune diocesi i vescovi si sono espressi, con diverse sensibilità, sulla possibile candidatura dei cattolici nelle elezioni amministrative.

Esse manifestano una differente percezione della situazione delle comunità che si può esprimere nella domanda: rispetto alla politica, l’emergenza è quella di impedire le contrapposizioni o piuttosto quella di investire in una cultura politica più matura? Il confronto interno è equiparabile ai dialoghi della strada, dei negozi o dei bar, o, invece, è e deve essere più maturo e capace di dialogo?

Sul primo versante si è collocato il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, mons. Giacomo Morandi (presidente della Conferenza episcopale emiliano-romagnola), supportato dal card. Matteo Zuppi, presidente della CEI e arcivescovo di Bologna, preceduto da mons. Gianpiero Palmieri di Ascoli Piceno, vicepresidente della CEI.

Sul secondo versante si sono espressi i vescovi mons. Daniele Gianotti (Crema) e mons. Mario Toso (Faenza-Modigliana). Per gran parte le argomentazioni si sovrappongono, tenendo conto delle situazioni locali. Comune, ad esempio, è l’indicazione di non usare gli edifici ecclesiali per la campagna elettorale dei partiti.

Nessuno demonizza la politica o vorrebbe impedire le candidature. E, tuttavia, le diversità rimangono. Nel primo caso, si scoraggia la partecipazione; nel secondo, la si favorisce.

Morandi, Zuppi e Palmieri

In una breve lettera dello scorso 2 febbraio, mons. Morandi impone le dimissioni dai ruoli ecclesiali per quanti si candidano: consiglio pastorale diocesano, consigli parrocchiali, accoliti, ministri dell’eucaristia, lettori. Il vescovo − come si legge nella «comunicazione» indirizzata al vicario generale e ai parroci della Diocesi − ritiene

«opportuno disporre che quanti intendano candidarsi in qualsiasi lista alle prossime elezioni [europee e amministrative dell’8-9 giugno 2024 − ndr] debbano dimettersi da ruoli di responsabilità ricoperti in diocesi o nelle parrocchie; pertanto, saranno senz’altro declinati gli incarichi pastorali diocesani o quelli nei consigli parrocchiali. Con l’occasione rinnovo tale divieto anche per coloro che rivestono mandati ministeriali».

Ma, in una successiva serie di domande-risposte (pubblicate sul sito della Diocesi), si aggiunge «come sia essenziale che le attività tipiche della comunità cristiana (culto, catechesi, carità e misericordia) non siano confuse con attività di promozione partitica». La sospensione vale per la campagna elettorale e, se eletti, durante la carica. In queste risposte si chiarisce che anche ai catechisti e ai ministri straordinari dell’eucaristia è richiesto di sospendere il proprio servizio ecclesiale perché, «in questo modo, si eviteranno contrapposizione e tensioni frutto dell’appartenenza all’uno o all’altro degli schieramenti».

Le ragioni vengono specificate in un successivo intervento sul settimanale diocesano (La Libertà, 15 febbraio 2024): data la frammentazione dei cattolici in tutte i partiti e la sistematica polarizzazione delle appartenenze, è bene evitare ogni strumentalizzazione dei ruoli ecclesiali ricoperti. Anche perché «il ministero di natura ecclesiale (e) l’impegno politico chiedono un coinvolgimento totalizzante di tempo e risorse. Dunque, è bene siano nettamente distinti».

Difficile, in tale quadro, capire il pur accennato ruolo del parroco, se non quello di trasmettere le indicazioni.

Dibattito acceso

Il dibattito si è subito acceso ben al di là delle canoniche. In maniera critica si è espressa la Confcooperative «Terre d’Emilia» (qui), mentre a favore si è dichiarata l’Unione dei giuristi cattolici di Reggio Emilia (qui).

L’ex vicario, don Alberto Nicelli, ha ricordato una lettera assai simile del vescovo predecessore, mons. Massimo Camisasca. Egli non aveva specificato lettori, accoliti e catechisti perché allora non erano ministri istituiti.

A sostegno di mons. Morandi si è schierato il card. Matteo Zuppi, stupito del rumore sorto attorno al testo che, «a mio parere, è quasi un atto dovuto per non coinvolgere le comunità nelle contrapposizioni elettorali».

«Non si sostituisce il vecchio collateralismo con un altro collateralismo e le parrocchie (devono) rimanere fuori della contesa delle elezioni ed essere prudenti». E questo, a suo parere, non contraddice l’invito a impegnarsi in politica e a farla bene.

Mons. Morandi cita, a sua conferma, il vescovo Palmieri di Ascoli Piceno che aveva detto: «Chi si candida in qualsiasi lista delle prossime elezioni comunali dovrà dimettersi dai ruoli di responsabilità svolti in diocesi, lasciando i rispettivi incarichi sia nel consiglio pastorale diocesano sia nei consigli parrocchiali».

Discernimento sinodale

Del tutto autonomamente rispetto alla polemica reggiana, il vescovo di Crema, mons. Daniele Gianotti, ha promosso un breve corso di formazione per giovani e persone intenzionate ad impegnarsi nelle amministrazioni locali. L’obiettivo è «contrastare le sempre più diffusa disaffezione verso la politica e la sfiducia verso i processi democratici».

Il pur breve corso «ambisce ad approfondire i valori di fondo di un impegno politico-amministrativo alla luce della dottrina sociale della Chiesa, recuperare il valore della partecipazione alla costruzione del bene comune, fornire un minimo di competenze tecniche alle persone che intendono impegnarsi in amministrazione comunale».

Mons. Mario Toso, parlando a Cesena (18 febbraio) a un gruppo di amministratori cattolici (qui), ha denunciato l’affievolimento dell’impegno dei cattolici in politica a causa dell’indebolimento della spiritualità cristiana incarnata. E concludeva: «Dobbiamo avere più coraggio di essere noi stessi». La Chiesa «non è chiamata a formare sacrestani, ma cristiani consapevoli della dimensione sociale della propria fede».

Il dibattito ricostruito mostra anzitutto un’assenza. Nessuno cita più i «principi non negoziabili» sbandierati per decenni a supporto delle posizioni conservatrici. Non che, ad esempio, un richiamo alla vita nascente sia ignorato, ma viene collocato in un contesto non strumentale. Anche se un accenno ai valori non negoziabili è contenuto ancora nella citata lettera di mons. Camisasca del 2019.

Del tutto retorica è l’accusa di un rinnovato non expedit (la proibizione di Pio IX ai cattolici italiani di impegnarsi in politica). Ma, sul versante «garantista», suona giustapposta la citazione di Francesco (in realtà di Pio XI) a sostegno della politica come vocazione altissima di carità. Curiosa è la libertà lasciata ad alcuni movimenti e associazioni, come se il «laicato sfuso» delle parrocchie fosse meno adatto all’impegno politico.

Ciò che stride maggiormente è l’estraneità di alcune posizioni «garantiste» rispetto al clima «sinodale» che la Chiesa sta cercando di vivere. Perché non interpellare le comunità e i preti in ordine ai loro compiti? Perché ignorare che, spesso, sono i più generosi quelli in grado di occupare contemporaneamente servizi ecclesiali e civili? Perché temere una pratica democratica coerente con il discernimento ecclesiale?

Quanti hanno fatto esperienza concreta di lavoro politico o amministrativo sarebbero i più adatti a portare nelle comunità la sapienza che l’amministrazione del territorio fa crescere. Spesso le loro testimonianze denunciano invece una solitudine difficile e l’assenza di un confronto che sarebbe di grande utilità per loro.

settimananews

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