Bertone e il jet privato. Ecco il libro che fa tremare il Vaticano

E' un'inchiesta senza peli sulla lingua. Scomoda, di certo. Che solleverà polemiche, sicuramente. Quello di Stefano Livadiotti, giornalista dell'Espresso, promette di essere un libro sul quale si scatenerà una vera e propria battaglia. Per i tipi di Bompiani, è in uscita "I senza Dio. L'inchiesta sul Vaticano". Affaritaliani.it ne può pubblicare ampi stralci dai contenuti davvero esplosivi – in affaritaliani.libero.it

Da  “I SENZA DIO. L’INCHIESTA SUL VATICANO”
di STEFANO LIVADIOTTI
Bompiani
Pag. 240, euro 17,50
In libreria il 23 novembre


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Dall’introduzione

[…] Vista da vicino, infatti, la Chiesa, e in primis il suo vertice, assomiglia sempre di più a una delle classi politiche maggiormente screditate dell’intero Occidente. Una vera e propria casta, come quella dei palazzi del potere romano, ma ancora più scopertamente ricca, spregiudicata e arrogante nel pretendere ogni sorta di impunità per i suoi dignitari, che di fatto, e senza neanche essere stati eletti da chi poi è chiamato a sovvenzionarli generosamente, sono diventati degli intoccabili.
A forza di trattare sottobanco con la partitocrazia, in un’eterna rincorsa a sempre nuovi privilegi spesso ai confini con la legalità, la pletorica gerarchia vaticana ne ha mutuato tutti gli aspetti più deleteri. Riuscendo in qualche caso a renderli, se possibile, ancora più odiosi e impopolari.
Finendo per disegnare un modello autoreferenziale, dorato almeno quanto ipocrita, bugiardo e corrotto, che rappresenta l’esatto opposto dei fini statutari della ditta. Al cui interno tutti o quasi, dai più alti papaveri agli ultimi travet, predicano bene e razzolano malissimo. Un mondo dove la carità è un optional, la verità un miracolo e il sesso si fa ma non si dice. E il cui ultimo, se non unico, scopo sembra quello di perpetuare se stesso e il proprio potere. A beneficio di una classe dirigente interamente formata per cooptazione, fieramente avversa a ogni criterio meritocratico e permeata invece da una millenaria cultura dell’intrigo e del familismo come strumenti per costruire carriere a base di dossier, veri o falsi poco importa, generosamente distribuiti da anonime manine.
Il risultato è un’assai poco caritatevole guerra per bande, dove nessuno si fida di nessuno, tutti spiano tutti, e vince chi riesce a tirare il colpo più basso, comunque sempre abbondantemente sotto la cintura. E dove la posta in palio sono le leve del potere di un’autentica macchina da soldi, che da tempo non si accontenta più di rappresentare un vero e proprio monumento all’assistenzialismo pubblico e perciò non esita a infilarsi nei business più inconfessabili, purché potenzialmente redditizi. Coltivando relazioni pericolose con piccoli delinquenti di strada e sanguinari dittatori, faccendieri d’ogni risma, mafiosi e barbe finte.
Intrecciando storie ai confini del romanzesco a base di fondi neri, riciclaggio, traffici di armi e di droga e morti misteriose. Collezionando in definitiva un vero e proprio catalogo degli orrori, dove non manca davvero nulla: dal reato comune confinato nelle pagine di cronaca di piccoli e grandi quotidiani all’intrigo internazionale. Con la protervia di un potere che niente e nessuno è riuscito a scalfire più di tanto in duemila anni di storia. E che ancora oggi è in grado – forse semplicemente bluffando (quante divisioni ha davvero il papa?) – di tenere in scacco, attraverso il ricatto elettorale, una politica sempre più fragile e perciò stesso impaurita.
Un potere alle prese con una fase di declino forse inevitabile.  Alla quale però oggi aggiunge qualcosa di suo. Rischiando di farsi del male da solo, così, per puro e semplice eccesso di sicurezza. Quello che ha giocato un brutto scherzo a Joseph Ratzinger quando, nella messa della Domenica delle Palme del 2010, ha sciaguratamente definito “chiacchiericcio” lo scandalo della pedofilia. Lo stesso che il 18 aprile, durante la visita a Malta culminata nell’incontro con le vittime delle violenze, indurrà il papa a definirsi profondamente turbato per le malefatte dei suoi preti (“è un orrore troppo grande, forse anche per Dio”) e subito dopo ad addormentarsi placido in mondovisione.
Il fatto è che oggi per gran parte degli italiani quello della Chiesa è solo un partito come un altro. E i suoi massimi dirigenti sono, né più né meno, dei professionisti della politica.
Magari non tutti. E forse molti non erano così in partenza, quando, dopo gli studi in seminario, hanno indossato per la prima volta l’abito talare. Poi però hanno capito che in quel modo non sarebbero andati da nessuna parte, che non avrebbero mai fatto carriera. E si sono adeguati. È un’accusa che brucia. E davanti alla quale la gerarchia ecclesiastica mostra tutta intera la sua lunga coda di paglia.
Com’è successo da ultimo alla fine della scorsa estate, mentre i giornali raccontavano di colloqui carbonari tra esponenti della curia e capi e capetti della partitocrazia, impegnati a ridisegnare, in una sorta di Risiko, la geografia politica del paese in quella che a molti sembrava la vigilia di un’inevitabile crisi di governo. È stato allora che il numero uno dei vescovi italiani, Angelo Bagnasco (quello, per intenderci, capace di sostenere che gli abusi sessuali sono “una cosa sbagliata”), ha detto, quasi senza riprendere fiato e alzando involontariamente la voce: “La Chiesa non è un’agenzia politica […] in nessuna maniera si confonde con la comunità politica […] e non è legata ad alcun sistema politico.” Quasi uno sfogo. (…)

 

Dal capitolo  “I lingotto del papa”

Trentunomila e 478 euro virgola qualcosa. È la somma che lo Stato, quindi l’intera platea dei contribuenti, ha versato nel 2010 per il mantenimento di ognuno dei 33 mila e 896 sacerdoti in servizio attivo nelle diocesi del paese. Il totale fa un miliardo e 67 milioni di euro, l’importo del cosiddetto 8 per mille (salito nel 2011 a un miliardo, 118 milioni, 677 mila, 543 euro e 49 centesimi). E l’assegno l’ha incassato la Chiesa, attraverso la Conferenza episcopale.
Che poi a ciascuno di quei preti ha girato direttamente solo 10.541 euro, un terzo di quanto ha stipato nei propri forzieri. L’espressione è un po’ forte, ma i numeri sono numeri: e dicono che i vescovi fanno la cresta sullo stipendio dei loro sottoposti. (…)
(…) Funziona così. Un po’ come in un gigantesco sondaggio d’opinione, ogni anno i contribuenti, mettendo una croce sull’apposita casella nella dichiarazione dei redditi, possono indicare come beneficiaria dell’8 per mille una delle confessioni firmatarie dell’intesa con lo Stato (o scegliere invece quest’ultimo). Sulla base delle indicazioni effettiva- mente raccolte, viene poi diviso in percentuale non il solo ammontare versato da quanti hanno espresso una preferenza (il 40 per cento circa del totale), ma l’intero montepremi. Al gruzzolo concorrono, cioè, anche i versamenti all’erario di coloro che, maggioranza assoluta, non hanno barrato un accidenti (quattrini che nella cattolicissima Spagna restano invece allo Stato). O che magari non hanno neanche mai sentito parlare del trappolone confezionato da “Treconti”, come l’hanno ribattezzato i tanti avversari politici da quando è improvvisamente diventato sparagnino. Il meccanismo, guarda caso, sembra ricalcato da quello scelto dai partiti per i rimborsi elettorali garantiti dal finanziamento pubblico.
Il risultato dell’arzigogolo è facilmente intuibile. Anche perché perdere una sfida con lo Stato italiano davanti a una giuria popolare è matematicamente impossibile. Tanto più se lo stesso sedicente avversario ha stabilito regole che lo penalizzano in partenza. E ancor più se durante la gara cammina invece che correre (la Chiesa si affida a un gigante mondiale come la Saatchi & Saatchi per una martellante campagna pubblicitaria costata nel 2005 qualcosa come 9 milioni di euro, il triplo di quanto donato dai preti alle vittime dello tsunami; lo Stato risulta non pervenuto).
Ma il vantaggio per la Chiesa va perfino al di là di quanto si possa intuire. Per quantificarlo bisogna necessariamente affidarsi a dati un po’ vecchiotti, per il semplice motivo che il ministero dell’Economia, con una decisione difficile da spiegare, fornisce le statistiche sulle scelte effettive dei contribuenti solo alle confessioni religiose ammesse al beneficio, non proprio ansiose di mettere il tutto a disposizione del pubblico. Non è però un problema, dal momento che le percentuali variano in maniera quasi impercettibile tra un anno e l’altro. Dunque: nel 2004 la Chiesa è stata scelta da una minoranza pari al 34,56 per cento dei contribuenti italiani. Ma lo stesso dato, calcolato invece sulla sola platea di quanti hanno ritenuto di dare un’indicazione sull’8 per mille, l’ha fatta schizzare di colpo, e miracolosamente, a una schiacciante maggioranza dell’87,25 (soglia intorno alla quale si colloca tutt’ora, decimale in più, decimale in meno). Ed è quest’ultima la percentuale utilizzata per ripartire l’intera torta. Che, Tremonti l’ha studiata bene, è destinata inevitabilmente a crescere. Il suo valore, infatti, si aggancia ora alla variazione del Pil, cioè alla crescita economica, ora all’aumento della pressione fiscale. Quando non ai due elementi insieme. Questo garantisce alla Chiesa di incassare sempre più quattrini, a prescindere dal consenso racimolato. E perfino quando questo scende in maniera vistosa. È successo, per esempio, nelle dichiarazioni dei redditi del 2007 (incassate nel 2010: c’è uno sfasamento temporale di tre anni). Quell’anno, forse sulla scia dello scandalo pedofilia, il numero dei contribuenti che ha indicato come beneficiari Ratzinger & C. si è ridotto, secondo i calcoli degli stessi vescovi, di 95.104 unità. Così, perfino la percentuale drogata di spettanza della Chiesa ha fatto registrare un passo indietro: dall’86,05 del 2006 (89,82 nel 2005) all’85,01 per cento. Ma, sorpresa, grazie al doppio traino di Pil e pressione fiscale, la Chiesa ha comunque incassato di più: 100 milioni di euro.
I conti sono presto fatti. Nel 1989, come ricorda la stessa Cei in un documento ufficiale intitolato Otto per mille: destinazione e impieghi 1990-2011, con la congrua la chiesa prendeva 399 miliardi di lire (che nel 1990, nel primo anno con il nuovo sistema, diventarono 210 milioni di euro, perché nel totale furono inseriti anche 7 miliardi di lire di quattrini pubblici destinati alla nuova edilizia di culto). Icoefficienti di rivalutazione dicono che oggi quella cifra equivarrebbe a 369,01 milioni. Per il 2011, secondo i calcoli più aggiornati, alla Chiesa spetta invece, come dicevamo, un miliardo, 118 milioni, 677 mila e 543 euro: più del triplo. Ma per la Santa Casta l’affare è ancora più ghiotto di quanto già non appaia a prima vista. Nello stesso ventennio, infatti, l’importo complessivo delle paghe dei preti (addirittura diminuito negli ultimi anni: di 20 milioni tondi tra il 2009 e il 2011) è cresciuto molto più lentamente: dai 145 milioni del 1990 ai 361 del 2011 (più 149 per cento). E così il margine che rappresenta in questo caso il guadagno, o la cresta, della Chiesa è via via aumentato, passando dai 65 milioni iniziali ai 757.677.543 euro di quest’anno, con un incremento del 1066 per cento. Chapeau. E dire che in un volantino distribuito dalla Cei nelle parrocchie, e intitolato Aiuta tutti i sacerdoti, si sostiene che l’8 per mille “non basta” a mantenere i preti.
I negoziatori della revisione concordataria del 1984, evidentemente consapevoli del papocchio che andavano allestendo, avevano previsto la possibilità di una revisione dell’aliquota: era stato insomma stabilito che l’8 per mille potesse diventare, per esempio, il sette o il nove, a seconda dell’andamento del suo gettito e delle spese reali della Chiesa. Il compito di monitorare la situazione, e introdurre ogni tre anni gli aggiustamenti eventualmente necessari, era stato affidato, come nella migliore tradizione, a una commissione, l’ennesima, e questa volta pure bilaterale. Fin da subito, se ne sono ovviamente perse le tracce. E chi, come quei rompiballe in servizio permanente effettivo dei radicali, ha chiesto notizie al riguardo si è sentito opporre il segreto di Stato. Addirittura. Un minimo di pudore da parte del governo nell’affrontare l’argomento è assolutamente comprensibile. Perché da sempre l’esecutivo di turno, non ritenendo ancora all’altezza il cadeau presentato annualmente alla gerarchia ecclesiastica, ci ha aggiunto dell’altro. Consegnando di fatto alla Chiesa anche una buona fetta della quota (striminzita, peraltro) di 8 per mille che gli veniva assegnata su indicazione dei contribuenti.
Una forzatura sottolineata anche dalla Corte dei conti, che nel 2008 ha messo a punto una relazione sulla gestione dei fondi da parte dello Stato nel quinquennio 2001-2006 in cui si rilevavano “non poche incongruenze”. Una bacchettata di cui Berlusconi, troppo preoccupato a farsi perdonare dai preti certi eccessi di vitalità notturna, non ha tenuto alcun conto. Almeno a leggere le diciassette pagine del decreto con cui sono stati ripartiti nel 2009 i 43.969.406 euro destinati dai contribuenti allo Stato in quota 8 per mille: 459 mila euro alla Pontificia università gregoriana di Roma, 500 mila al Fondo librario della Compagnia di Gesù, un milione e 146 mila alla diocesi di Cassano allo Ionio, 369 mila alla Confraternita di Santa Maria della purità di Gallipoli. Secondo il pallottoliere, alla fine 10 milioni e 586 mila euro sono andati, in gran parte e attraverso il Fondo beni culturali, a 26 immobili di enti-satellite del Vaticano. E altri 14 milioni e 692 mila euro sono stati destinati a soddisfare richieste (quasi tutte per opere ecclesiastiche) legate al terremoto abruzzese e curiosamente presentate ancor prima che il sisma si verificasse. In sostanza, lo Stato ha girato al Vaticano più della metà dei soldi che i contribuenti gli avevano espressamente conferito.
Resta da capire che strada prendano i soldi pubblici che ogni anno rimangono nelle casse della Cei dopo il pagamento degli stipendi ai sacerdoti. (…)
(…) Nel 2011 (come del resto in tutti gli ultimi cinque anni, nel corso dei quali sono rimasti perfettamente invariati) gli interventi caritativi nel terzo mondo hanno totalizzato 85 milioni, pari al 7,59 per cento dei soldi pubblici incassati dalla Cei. E che, anche sommando a questi gli aiuti smistati in Italia, non si va oltre i 235 milioni, che vuol dire il 21 per cento del contributo statale alla Cei. Proprio come raccontava Maltese. Il tutto, ammesso e non concesso che tra queste iniziative abbia qualche senso includere “l’installazione di una radio cattolica nell’arcidiocesi di Mount Hagen, a Pasqua Nuova Guinea e a Puerto Esperanza, in Perù e la formazione per tecnici e animatori giornalisti della radio diocesana di Matadi, nella Repubblica democratica del Congo”, citati a pagina 14 del dossier Otto per mille. Destinazione ed impieghi 1990-2008 alla voce “promozione umana”, ma molto più simili a spese per la propaganda e il reclutamento. Oppure operazioni al limite del folklore sciupone come “la formazione all’uso e alla gestione di un sistema fotovoltaico per la ricarica della batteria di cellulari, laptop e lampade per creare microimprenditorialità in diversi paesi dell’Africa”. Laptop nella savana? Mah. Di tutto questo ben di Dio, agli uomini di chiesa restano le briciole. Non alla nomenklatura, s’intende, ché quella si tratta bene. Bagnasco, ovviamente, lo nega: “Per la nostra sussistenza basta in realtà poco,” ha detto il 26 settembre. Ma non è esattamente così, se nel solo 2007 i 20 cardinali di stanza a Roma sono costati oltre 3.000.000 di euro, come ha rivelato senza essere smentito il settimanale cattolico inglese “The Tablet” (del resto il giornale citava la sintesi di un rendiconto riservato della Prefettura per gli affari economici del Vaticano), e se è vero che nel 2010, come ha scritto “El Pais”, la spesa per l’intera curia è stata di 102,5 milioni. Eppure non è certo ai papaveri vaticani che si riferiva “Famiglia Cristiana” quando, nel settembre del 2011, ha scolpito: “Mentre la nave affonda, i timonieri continuano a sollazzarsi.” (…)


Dal capitolo “Una guerra poco santa”

(…) È il metodo-Bertone. Quello che ha consentito al cardinale piemontese di diventare “il più potente segretario di Stato nella storia recente della Chiesa”, come si legge al paragrafo 11 di un cablogramma del 10 gennaio 2008 (riportato da Stefania Maurizi in Dossier Wikileaks), classificato “Confidential 136839”, e spedito a Washington dall’ambasciata americana in Vaticano (dove si dice pure che Bertone viene da alcuni considerato come “decisamente ambizioso e forse egotista”). Per questo, Ratzinger, che l’ha avuto come braccio destro alla Congregazione per la dottrina della fede e poi l’ha scelto come primo ministro, ci ha ripensato. “Lo riteneva forse non eccelso, ma certamente fidato: poi ha capito che ha un debole per il potere,” spiega una fonte laica accreditatissima nelle segrete stanze.
Secondo i più maligni, al papa qualche dubbio sarebbe venuto fin dall’inizio, quando, nell’estate del 2006, una fuga di notizie lo costrinse ad anticipare l’annuncio della nomina di Bertone a capo del governo vaticano. Ratzinger non ha mai capito se ad alimentare le indiscrezioni fossero stati i nemici di Bertone, nel tentativo di bruciarlo, o invece lui stesso, per forzare la mano e ottenere l’incarico prima che la situazione rischiasse di complicarsi ulteriormente. (…)
(…) Che tra il papa e il suo numero due non tutto filasse liscio, del resto, si era capito da tempo. Il 18 aprile del 2009, grande assente proprio Bertone, Ratzinger aveva ricevuto a Castel Gandolfo, in un incontro conviviale, Ruini, Bagnasco, Scola e Schönborn. E, quando gli era stato posto il problema dell’adeguatezza del suo primo ministro, aveva replicato, più asciutto che amabile: “Non chiedetemi questo; parlatemi d’altro.” A qualcuno non era parso vero di poter spifferare il tutto in giro. E il pontefice, per mettere a tacere ogni voce, seguendo un copione tipico della politica, a luglio si era presentato in pompa magna a Romano Canavese, il paesello natio di Bertone, fermandosi a pranzare con la sua famiglia. Poi, però, era arrivato il caso Boffo, con la sua coda di veleni. Ratzinger, racconta oggi lo stesso Boffo a tutti quelli che incontra, ha capito benissimo com’è andata la vicenda, ma ha deciso di astenersi dall’intervenire, per non dover aprire il capitolo della successione a Bertone in un momento tanto delicato per la Chiesa, già sotto scacco per le accuse di pedofilia. (…)
(…) “Il segretario di Stato non arriverà a Natale,” si diceva nei corridoi vaticani. Per avvalorare lo scenario si raccontava anche di una festa organizzata in grande stile per il primo agosto, nel ventesimo anniversario dell’ordinazione a vescovo di Bertone, e poi cancellata in quattro e quattr’otto. Ma, con ogni probabilità, si trattava della proiezione di desideri, più che di possibilità reali. “Nei giorni immediatamente successivi al caso Boffo, Bertone era spaventatissimo,” spiega un laico con rapporti al massimo livello Oltretevere, “ma poi ha capito di essere inamovibile, almeno per ora, e così ha ripreso a tirare la corda: al punto che c’è il suo zampino in alcuni dei pubblici messaggi di apprezzamento indirizzatigli dal papa, al quale oltretutto non sempre sono state sottoposte le modifiche apportate ai testi dalla segreteria di Stato.” Il riferimento è a tre scritti, peraltro piuttosto irrituali, tutti apparsi sulle colonne dell’“Osservatore”.
Tarcy, come lo chiamano gli intimi (o Arci-Tarcy, da quando è diventato arcivescovo), è fatto così. Se le labbra sottili gli danno un volto duro, ogni tanto si sforza di aprirle in un sorriso. Ci tiene a far sapere che nasconde un pallone sotto la scrivania dell’ufficio, così, solo per ricordare di quando giocava da terzino destro. Racconta spesso che ogni tanto inforca la bicicletta per una pedalata nei giardini vaticani. E che la sera, con gli amici (Angelo Amato, Raffaele Farina, Mario Toso ed Enrico Dal Covolo: tutti salesiani come lui), suona perfino la pianola. In realtà, è un caterpillar e preferisce le vie brevi: quando il suo predecessore e nemico giurato, Sodano, tardava a lasciare libero l’appartamento che spetta al segretario di Stato, gli fece annunciare per telefono l’arrivo degli imbianchini dalla sera alla mattina. E alla bicicletta preferisce di gran lunga il jet privato. Come quello che gli mette a disposizione Gabriele Volpi, grande amico del furbetto del quartierino Giampiero Fiorani, patron della Pro-Recco di pallanuoto e proprietario di un impero, con quartier generale in Nigeria, fondato sul commercio di petrolio africano e controllato attraverso una galassia di società sparse tra Londra, l’isola di Man , Lugano e le Virgin British Island. Curiosa frequentazione, per uno come Bertone, che, da arcivescovo di Genova, si era scagliato perfino contro la festa di Halloween, definita diseducativa per i giovani. Si vede che è solo una questione di età. (…)

(…) Anche perché la guerra per bande sta diventando incontrollabile. Rischiando di travolgere perfino l’uomo finora più vicino al papa, il segretario Georg Gänswein. Per il quale, secondo voci ricorrenti, e solo tiepidamente smentite da fonti ufficiose, sarebbe in vista una promozione, che avrebbe l’effetto (e lo scopo ultimo) di riportarlo armi e bagagli nella natia Germania.
Gänswein, il cui potere è solo l’ombra di quello esercitato da Stanisław Dziwisz con Giovanni Paolo II, è a suo modo un miracolato. L’ex professore dell’Università romana dell’Opus Dei, infatti, deve il suo posto solo all’impazienza di Josef Clemens, per tanti anni assistente personale dell’allora cardinale Ratzinger alla Congregazione per la dottrina della fede. Clemens, oggi sessantaquattrenne, non aveva capito per tempo che viaggiava agganciato al treno vincente e, all’inizio del 2004, aveva chiesto e ottenuto la nomina a vescovo di Segerme, mettendosi fuori gioco da solo. Ma non si è trattato dell’unico colpo di fortuna per Gänswein, la cui nomina è il risultato di una seconda scelta. Per sostituire il suo segretario, Ratzinger aveva infatti puntato in prima battuta su un altro nome (Hermann P. Geissler, attuale capo-ufficio alla Congregazione per la dottrina della fede), al quale era stato poi costretto a rinunciare per motivi di equilibrio interni alla curia.
Appena insediato sul soglio di Pietro, Ratzinger aveva stretto nuovamente i rapporti con Clemens, peraltro mai perso di vista e nel frattempo sbarcato (come segretario) al pontificio consiglio per i laici. E, facendo un’eccezione al suo stile di vita quasi monacale (alle 16 di ogni giorno tutto il personale non ecclesiastico lascia l’appartamento, e la cena normalmente si risolve in poco più di un caffellatte),
si era presentato puntuale agli inviti nell’appartamento dell’ex segretario, che abita nel palazzo dell’ex Sant’Uffizio. Una dozzina almeno, ma forse anche una quindicina di raffinate cene, alle quali il bel Georg l’aveva scortato fino al pianerottolo con il muso sempre più lungo. Cominciando a un certo punto a fermarsi addirittura al portone del palazzo. Così, nel momento in cui Clemens aveva tentato il salto a prefetto della casa pontificia, Gänswein si era messo di traverso. E la tensione era cresciuta fino a sfociare in un pubblico battibecco quando, a margine di un’udienza generale del mercoledì, il segretario in carica si era rifiutato di dare al suo predecessore il numero del nuovo telefono cellulare del papa (che risponde di persona all’apparecchio). A quel punto, tra i due è cominciata la consueta guerra di dossier. Nella quale ad avere la peggio sarebbe stato Gänswein, finito sulle pagine dei giornali di gossip con tanto di foto che lo ritraggono in buona compagnia. Cosa che ha fatto appunto infuriare il papa. Fino alle estreme conseguenze. “Non ho mai visto nella curia una situazione così allo sbando,” assicura un testimone eccellente. (…)

Dal capitolo “Radiografia di un declino”

(…) Joseph Ratzinger è vecchio. Non gode di ottima salute. Si sente solo. E, come ha fatto capire in più di un’occasione, comincia a provare un certo disgusto per ciò che succede intorno a lui. E proprio la consapevolezza di aver contribuito a consolidare questo sistema è la cosa che gli pesa di più. Perciò, quando sono circolate voci di un suo imminente ritiro, ha provato quasi un senso di sollievo. Forse non c’è ancora nulla di deciso. Ma lui ci ha pensato. E continua a farlo.

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