Vaticaninsider presenta modelli per i preti celibi: ma il problema è che ammettono doppia vita… e allora?

Vaticaninsider presenta modelli per i preti celibi: ma il problema è che ammettono doppia vita… e allora? Anche don Pozza intervistato da Domenico Agasso jr afferma di aver tradito il sacerdozio… Non sono quindi modelli credibili… (ndr)

Prosegue il dibattito dopo la notizia della lettera scritta a papa Francesco da 26 compagne di sacerdoti. Interviene il Cappellano del Carcere Due Palazzi
Domenico Agasso jr
Torino – vaticaninsider

Il celibato è «un “fuorionda” simpatico dell’eccedenza del Cielo». Lo afferma don Marco Pozza, chiamato anche “Don Spritz” da quando era viceparroco alla Sacra Famiglia di Padova: in quel periodo è diventato famoso perché, colpito dall’assenza di fedeli alle messe, ha iniziato a trascorrere il suo tempo libero incontrando ragazzi e studenti direttamente nei locali della “movida” padovana, in particolare durante l’ora dell’aperitivo. Pozza, 34 anni, è docente di Teologia e parroco del Carcere Due Palazzi di Padova. Con la sua opera di evangelizzazione presso i giovani è stato protagonista di una puntata del “Testimone” di Pif, su Mtv, dal titolo “La vocazione”. Giornalista – editorialista di Avvenire – e scrittore, sportivo – in particolare maratoneta amatoriale – ha incentrato i suoi libri proprio sullo sport. Ha creato e gestisce un sito internet, www.sullastradadiemmaus.it, definito una “parrocchia virtuale”, nel quale commenta i brani del Vangelo e i fatti di cronaca e dove gli utenti registrati possono commentare.

Vatican Insider l’ha intervistato a proposito della lettera scritta a papa Francesco da ventisei compagne di sacerdoti.

Don Pozza, Lei è un sacerdote brillante e coinvolgente: cosa ne pensa della lettera?

«L’ho letta attentamente e non nascondo che la delicata sofferenza e l’intima sincerità della quale è intrisa mi ha toccato nel cuore. Non è sempre facile parlare a “viso scoperto” di questa dimensione della nostra vita di sacerdoti: tanto meno immagino lo sia per quelle ragazze/donne che ne sono coinvolte direttamente. Leggendola non si respira astio o rancore: “Vogliamo porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza”. Non c’è nemmeno un attacco tipico da uomini dell’osteria nei confronti di una Chiesa che abbiamo scelto, noi preti “in primis”. C’è solo l’amabile confidenza – tipicamente femminile – di narrare e dispiegare un amore che non s’accetta di vivere nella periferia del vissuto, che non si vuole abitare nell’ambiguità. Consapevoli da entrambe le parti d’essere dentro le trame di un’avventura con Dio e, quindi, intricata come poche altre storie: non è sempre facile comprendere il perché di certi affetti e dare un nome a certe emozioni quando si è già dentro una storia d’amore con Dio, che vive con le stesse dinamiche di tutte le altre storie d’amore. Eppure, qualora capitasse, Dio riesce sempre ad illuminare una possibile strada, magari al prezzo di cicatrici – per usare una loro bellissima immagine – che ci ricordano e ci riportano alla nostra profonda umanità. A non tradire la verità di noi stessi».

Come descrive la Sua esperienza di celibato? Quanto è difficile? Lei è felice?

«Se lei mi chiede se sono felice, le rispondo che sono un ragazzo di 34 anni che sta cercando la felicità, quella vera però: non sono un bambino al quale basta il solletico, cerco disperatamente la felicità del cuore, quella che appaga il desiderio di coloro che temono Dio. Se lei, poi, mi chiede della mia esperienza di celibato, non le nego la difficoltà di comprenderla appieno e, quindi, di viverci dentro. Abitando fuori dalla sacrestia – sotto le intemperie di una periferia difficile e intricata quali sono il carcere e le giovinezze deluse e deragliate – ho messo in conto da subito che la mia vita di sacerdote non sarebbe stata facile bensì esposta a mille perturbazioni: “Le chiamate divine non prevedono addestramento, esigono lo sbaraglio” – scrisse un giorno Erri De Luca. Dovessi descriverla non esiterei a narrarla come la parte più intricata della mia vita. Più che una gioia certi giorni è una fatica, più che un sollievo certe notti mi arreca delle solitudini, più che un dono l’avverto come una prova, seppur d’amore. È stato facile per me ragionare del celibato nei tempi del seminario: è come disquisire di una macchina dentro una concessionaria. Per provarla, però, devi accenderla e metterla in strada: così è anche della mia vita di sacerdote. Diventato prete i massimi sistemi hanno cozzato contro la massima quotidianità, la bellezza del celibato è divenuta la prova del celibato, la grandezza di un sogno è divenuta la manovalanza di una missione: non è mutato il fascino, bensì la strada per giungervi. Nei miei primi anni di sacerdozio, a proposito del celibato, ho provato a capirlo per poterlo poi amare: ho fallito il bersaglio. Oggi, con delle cicatrici addosso (delle quali mai proverò vergogna), ho invertito tutto: cerco di amarlo per poterlo un giorno capire. Consapevole che la castità non è castrazione, l’obbedienza non è servilismo, la povertà non è miseria. Certo che diventando prete non ho rinunciato alla mia umanità».
Qualche volta si sente solo? Come “combatte” la solitudine?

«Ci sono sere che sono tutt’altro che sere e serenate d’amore: sere nelle quali mi sento solo, sere nelle quali penso d’aver smarrito la rotta della mia vita, sere nelle quali tutto mi sembra inutile e persino dannoso. Sere nelle quali non finisce tutto: “Certi amori non finiscono mai. Fanno dei giri immensi e poi ritornano” (A. Venditti). Sono le medesime sere, infatti, che mostrano essere il preludio di nuovi mattini: nei quali ritento la sfida, nei quali mi rimetto in gioco, nei quali sogno di poter essere un po’ migliore di ciò che sono. La solitudine fa parte della mia vita. Non mi piace sublimarla, voglio sentirla scorrere sulla mia pelle, anche lasciarmi scottare da essa: coltivando la mia povera vita di preghiera, assaporando il gusto di praticare la maratona, creando delle relazioni e immergendomi nella quotidianità della mia vita. Eppure, anche facendo così, non posso nascondere che certe sere sogno per davvero di aver vicino qualcuno che mi possa dire “don Marco, ti voglio bene. Punto”. Detto così, con semplicità, per ricordarmi la mia umanità, per impedirmi di mettere una maschera, per aiutarmi a essere vero con il mio cuore. Per amarmi anche quando meno me lo meriterei: è forse allora che ne ho più bisogno. Per poi riuscire ad amare gli altri. Altrimenti, come potrei amare il prossimo disprezzando me stesso?».

Insomma, se dovesse spiegare a un seminarista la gioia del celibato, che cosa gli direbbe o sottolineerebbe?

«Sarò sincero: spero mi capiti poche volte l’onere di dover spiegare a un seminarista – nel pieno dei suoi sogni di Chiesa, di vita sacerdotale e di gloriosi pensieri mistici – la gioia del celibato. Dovessi ragionare per frasi fatte gli direi: “Certo che è una gioia, fratello mio”: e gli citerei a menadito passaggi sublimi del magistero ecclesiale. Però sentirei di mentirgli in qualche maniera. Preferirei allora dipingerglielo come la parte più imbarazzante e sudata della mia vita di sacerdote. Una vetta che mi capita d’ambire e contemporaneamente di fallire, di godere e di struggere, d’ammirare e di bestemmiare. Un “fuorionda” simpatico dell’eccedenza del Cielo. Che, ogni tanto spesso, sembra chiedere dei supplementari a gente dalla dura cervice come me. Poco tempo fa, al termine di un incontro con oltre 1500 studenti, uno alza la mano e mi spara a bruciapelo una domanda: “Don Marco, lei si è mai innamorato da prete?”. L’assemblea d’improvviso è ammutolita. Come dovevo rispondere: da prete o da uomo? Non so la sua risposta, conosco la mia. Ho risposto da uomo che cerca la Verità: “Si, mi è capitato d’innamorarmi. E se avete voglia ve la racconto senza mentirvi”. L’assemblea era agli sgoccioli: s’è allungata di un’altra ora, perdendo pure gli autobus per rincasare. Parlando delle mie cicatrici – e dell’onesta e intelligente fatica di chi con me s’è imbattuto nella mia storia con Dio – ho ricevuto come credito la loro attenzione e la loro simpatia. Qualcuno, uscendo, m’ha abbracciato dicendomi: “Ti voglio bene, don!”. Come saremmo belli noi preti se ci sforzassimo di essere al naturale e non ritoccati con photoshop. Quando poi mi hanno chiesto se questa fatica valesse davvero la pena, ho risposto rubando le parole a Teresa di Calcutta: “Non la farei per tutto l’oro del mondo questa vita. Ma per Cristo faccio questo e altro”. O, almeno, ci provo: nonostante tutto.

Convinto come sono ch’è sempre meglio essere un prete incidentato che un prete da laboratorio che si vergogna della propria umanità: della mia umanità sofferta e sofferente. Ogni mattina che mi alzo, ricordo a me stesso che la mia faccia è l’unica storia che un giorno potrò raccontare. E rammento pure l’incipit del mio sacerdozio: “All’origine di ogni vocazione alla vita consacrata c’è sempre un’esperienza forte di Dio, un’esperienza che non si dimentica, la si ricorda per tutta la vita” (papa Francesco). Ti segna per tutta la vita: facendo della tua avventura con Lui una storia d’amore mai scontata ma sempre passibile di nuovi riaccrediti e di nuove fatiche”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Traghettilines BOMPIANI 1+1 Abbonanti ad un 2024 di divertimento - Mirabilandia Pittarello - Saldi fino al -70% Frigo vuoto e voglia di vino? Te lo consegniamo in 30 minuti alla temperatura perfetta! Duowatt - Banner generici con logo Tekworld.it Bus Terravision Aeroporto Milano Malpensa Plus Hostels Transavia 2021 Radical Storage Bus notturno Fiumicino Aruba Fibra veloce Hosting Aruba - Scopri di più