Tra papi e preti sposati, ne va della vita

Incontro tra Papa Francesco e Papa Benedetto XVI  
in occasione dell’inaugurazione della statua di S. Michele Arcangelo nei Giardini Vaticani, 
opera dell’artista Giuseppe Antonio Lomuscio, 
5 luglio 2013  e
Beato Roman Lysko, prete martire sposato della Chiesa Cattolica Ucraina di rito bizantino, ucciso a Lviv il 14.10.1949
– foto tratte da commons.wikimedia.org

Nella settimana che si è chiusa eventi di attualità ecclesiale – propriamente vaticana, si potrebbe meglio specificare – hanno raggiunto tali livelli di intensità narrativa da lasciare poco spazio a meditazioni critiche più profonde ed argomentate.

Come se, di fronte a conclamata approssimazione – teologica, canonistica, ecclesiologica – sia possibile fare spallucce ed accontentarsi di frasi fatte che forse ora può essere opportuno scandagliare.

Iniziamo.

Il celibato non è il problema.

Le sei parole vengono orami ripetute come antifona da breviario forse non così sacro, bensì piegato a sussurrar preghiere coincidenti con monologhi.

Certamente il celibato non è il problema. Come nemmeno il matrimonio lo è.

Il problema è l’assenza di presbiteri nelle comunità che hanno il sacrosanto diritto di celebrare l’eucarestia domenicale. “Senza domenica non possiamo vivere”: se è il celibato a far togliere di mezzo la domenica, bisogna sacrificarlo. Non sono le cose di poco conto ad essere sacrificate in un sacrificio vero, appunto, ma le più preziose. Eppure bisogna farlo se necessario, bisogna sacrificarle.

Non è così necessario? Bene, dunque si dovrebbero avere preti celibi tanti quante sono le necessità eucaristiche comunitarie. Ce la si fa? La risposta sia onesta e realistica, piena di sincerità e di parresìa.

Ma le obiezioni sussiegose sono anche d’altro tipo: bisogna de-clericalizzarsi.

Ottimo. Possono dunque le comunità cristiane celebrare l’Eucarestia senza preti?

Non già porre sull’altare le specie eucaristiche già consacrate, ma consacrare il pane ed il vino.

Può farlo la comunità senza preti?

Se la risposta è sì, non c’è più bisogno di chierici di alcun tipo.

Se la risposta è no, della struttura e dell’articolazione dell’Ordine Sacro bisogna invece parlare e su di esse confrontarsi.

Ed il problema alla fine quale risulta essere? Il problema risulta corrispondere alla richiesta di alcuni requisiti imprescindibili per essere ammessi al presbiterato.

E qui possiamo proseguire sugli altri fronti: si tratta di requisiti “ontologici”? Niente affatto.

Ma che il Cardinale Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti parli di mai prima rinvenute “ontologie” a fronte del pronunciamento del Vaticano II al n. 16 del Decreto “Presbyterorum Ordinis” sembra qualcosa di talmente enorme ed inaudito che le permanenti spallucce si rivoltano in gestacci alquanto volgari.

Ancora.

“Io sto nel mezzo, né con gli uni né con gli altri. Né con il Cardinale né con i suoi critici”. Lo si sente ripetere abbastanza comunemente. E che significa?

Questo nesso ontologico tra sacerdozio e celibato c’è o non c’è?

Se non c’è, quanto scrive il Cardinale è completamente destituito di ogni fondamento teologico – ed è cosa assai grave per un Cardinale Prefetto di Curia Romana -.

Se c’è, allora il Vaticano II ha clamorosamente sbagliato e pure il recente Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia ha sbagliato tutto con richieste impossibili pur se votate a maggioranza.

Ma le spallucce continuano ed il bofonchiamento innervosito diventa: non sono questi i problemi.

Cioè: non è un problema che al centro decisionale della vita religiosa di più di un miliardo e duecento milioni di persone si dica sullo stesso tema bianco e nero, tutto e il contrario di tutto, verità ed errore, va tutto bene, non è un problema.

Ulteriore voce costantemente udibile: la vita ha ben altri problemi.

Questa è una delle obiezioni più insidiose: quel richiamo alla concretezza della “vita brutale”, così com’è, dei fatti che parlino e basta, nudi e crudi, abbassando ogni tensione ideale, ogni sogno ed utopia per metterti in mano i conti con il lapis, forza: uno più uno fa due, tutto qua, non c’è altro.

In ospedale non si parla di preti sposati; sicuramente. Tuttavia leggere un libro in ospedale a chi sta male è spesso di grande conforto, anche declamargli, sussurrando, una poesia, anche donargli una carezza facendo sentire il calore che chi è sposato spesso conosce (e spesso no, beninteso) e chi è celibe pure conosce quando ama.

Dovremmo metterci d’accordo almeno su una base comune: il problema è amare e nulla risolve dire che la vita ha altri problemi se l’amore difetta. Se si ama, ogni soluzione sarà poi semplice conseguenza, di qualunque configurazione giuridica o natura istituzionale si possa parlare.

Il libro del Card. Sarah trasmette amore? È una domanda, per niente retorica. Bisogna però dare una risposta e non evitarla.

Sul Papa Emerito mi sono permesso di avanzare qualche considerazione domenica scorsa. Sembra che le dimissioni di Benedetto XVI abbiano determinato un cortocircuito insuperabile e inaggiustabile.

È sembrato troppo – mentre era dogmaticamente corretto e necessario, anzi obbligatorio – affermare che Ratzinger, dopo la rinuncia, non fosse più papa in nessun senso possibile. Eccessivo.

Lo si è fatto così “papa emerito” e così tuttavia la figura papale – a prescindere da ogni rigore giuridico – si è inevitabilmente sdoppiata e nella comunità cattolica, qui il punto dolentissimo, la gestione del “doppio” invece che del “mono” è faccenda di incredibile complessità.

Anche il presbiterato vissuto nel matrimonio – anzi dapprima ricevuto nel matrimonio – si nutre della stessa paralisi gestionale del simbolico doppio che s’è avviluppata intorno alle due figure biancovestite.

Si dovevano ridare a Joseph Ratzinger i semplici abiti vescovili della sua attuale condizione, che non è condizione di Papa, e si dovrebbe considerare irrilevante, davanti alla necessità di una comunità concreta, lo stato di vita di chi possa assicurare la celebrazione eucaristica.

Due et et non così difficili da immaginare e concretamente attuare ed invece più difficili della convocazione di un Concilio, a quanto pare.

Una parola va detta anche con riguardo alla testimonianza dei presbiteri cattolici legittimamente coniugati delle Chiese d’Oriente.

Una certa ammirazione, diffusa in Oriente, verso la preservazione delle tradizioni di cui sarebbe fautore la corrente di pensiero in cui si inserisce il libro del Card. Sarah dovrebbe interrogarsi davanti a ciò che in quel libro si può leggere del presbiterato vissuto nel matrimonio.

Leggiamo pure alle pp. 72 e 73 di Dal profondo del nostro cuore: «Il clero orientale sposato è in crisi. Il divorzio dei sacerdoti è diventato un motivo di tensione ecumenica tra i patriarcati ortodossi. Nelle Chiese orientali separate, solo la presenza preponderante dei monaci rende sopportabile al popolo di Dio la frequentazione di un clero sposato. Sono molti i fedeli che non si confesserebbero mai da un sacerdote sposato. Il sensus fidei fa discernere ai credenti una forma di incompiutezza nel clero che non vive un celibato consacrato. Perché la Chiesa cattolica ammette la presenza di un clero sposato in alcune Chiese orientali unite? Alla luce delle affermazioni del magistero recente sul legame ontologico tra sacerdozio e celibato, penso che tale accettazione abbia lo scopo di favorire una progressiva evoluzione verso la pratica del celibato, che avrebbe luogo non per via disciplinare ma per ragioni propriamente spirituali e pastorali.»

Ci si attende che le Chiese d’Oriente prendano nettissime e ferme distanze da simili affermazioni, senza imbarazzi dovuti al fatto di dover scoprire che la preservazione e la cura della Tradizione nulla hanno a che vedere con il tradizionalismo.

Oggi è domenica e la liturgia romana propone le parole, messe in bocca al Battista, dal capitolo 1 del Vangelo di Giovanni: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.

Essere avanti perché si era indietro è una tipica contraddizione che disarticola le nostre compassate, e molto borghesi, ricerche di coerenza razionale.

Va avanti chi viene da una storia. Viene da una storia chi va avanti.

“Il quotidiano” non presenta astruserie teologiche ed eruditi interrogativi, ma conosce una liturgia che ogni giorno, da ognuna ed ognuno di noi, viene celebrata, anche in forme del tutto laiche.

“Io non lo conoscevo”, afferma pure il Battista del passo giovanneo.

La Chiesa dovrebbe con umiltà ripetere le stesse parole ed imparare sempre, di nuovo, dal battesimo, che accomuna tutte e tutti.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro

fonte: https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-540—19-gennaio-2020/rodafa

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