Renzi una promessa mancata

Renzi è il primo nemico di se

Qualche mese prima che Matteo Renzi diventasse una star della politica italiana, nel 2012, dopo che aveva già sbaragliato gli altri contendenti Pd nella corsa a sindaco di Firenze ma era ancora un personaggio “minore”, la figura che alcuni sondaggi tra i giovani e il popolo “di sinistra” indicavano come il prossimo leader era Nichi Vendola.

Durò poco, certo. Ma ricordo ancora i titoli dei quotidiani stranieri sulle “fabbriche di Nichi”, l’entusiasmo con cui l’ex ragazzo della Fgci, divenuto quasi una figura pop – con l’orecchino in vista, innamorato della poesia, omosessuale dichiarato – veniva accolto nel suo tour internazionale dagli studenti Erasmus o dai ricercatori italiani all’estero. Era così “nuovo”, diverso.

Ma rapidamente fu la volta di Renzi. Nuovo, diverso e anche giovane. Quando a fine 2013 prese la guida del Pd, aveva il vento in poppa. Lo aveva anche quando scalzò Enrico Letta dal governo, puntando esclusivamente sulla propria capacità personale di “fare la differenza”, visto che andava a guidare una maggioranza parlamentare identica (Pd più un pezzo di ex berlusconiani).

I voti presi poi alle Europee del 2014, il tanto sbandierato 40,8%, lo confermarono, almeno simbolicamente. Quel Renzi era piuttosto irrituale nei modi e faceva del cambiamento generazionale, in un Paese vecchio e maschilista come l’Italia, un fattore politico importante.

Anche Renzi, però, dovette poi fare i conti con l’effetto “grande aspettativa – grande delusione”. Che non è soltanto un problema di “sovraesposizione mediatica” (che ci fu e che continua), di “storytelling” (come piaceva dire pure a Vendola, prima di Renzi) o di percezione (perché è inutile che insisti a dire che “non c’è problema” a qualcuno che invece è esattamente convinto del contrario). 

Il problema è che due anni di governo di “Forz’Italia!” (semplifico) versione Matteo Renzi (“L’Italia è un grande Paese”, ripetuto in tutte le salse) non riuscirono a convincere gli elettori che il Pd aveva la ricetta giusta a garantire sicurezza sociale ed economica dopo anni di crisi. 

Doveva essere il governo della rottamazione e dei giovani, fu visto invece come il governo degli amici delle banche e dei vecchi poteri. Renzi doveva “cambiare verso” alla realtà, o comunque “rendere la speranza più forte della rabbia”: ingannato da se stesso e dagli iniziali successi, propose invece un referendum costituzionale che finì per polarizzare le opposizioni contro di lui. 

Convinto di vincere in forza della “rottamazione” e della modernità, l’allora leader Pd non capì però l’aria che tirava nel Paese, e finì “asfaltato” da un mix di “gentismo” (come lo definisce il bel libro di Leonardo Bianchi, “La Gente – Viaggio nell’Italia del risentimento”) e precariato arrabbiato. Il populismo che anche Renzi in qualche modo aveva accarezzato – come nel caso della campagna referendaria per ridurre il numero dei parlamentari, o quando contro la Commissione Europea tolse dal suo studio le bandiere Ue – prese un’altra strada.

L’obiettivo dichiarato di Renzi era quello di ottenere crescita attraverso la ripresa dei consumi e la produzione di nuova ricchezza. Per farlo, il piano era quella di ridurre le tasse in modo strutturale, soprattutto al ceto medio, e di rendere più fluido il mercato del lavoro. 

Ma ciò non servì apparentemente a rilanciare molto i consumi, mentre a favorire la modesta assunzione di lavoratori fu soprattutto la decontribuzione, più che l’allentamento di certe regole. Mancarono invece interventi più strutturali (come il taglio del famoso cuneo fiscale, ma anche come misure per aiutare le persone a trovare casa senza avere un posto fisso, etc.), mentre continuò in certi casi la politica dei tagli.

A forza di essere imprevedibile, Renzi divenne uno di cui non ci si poteva fidare (e quindi, in fondo, prevedibilissimo). Annunciò in pompa magna un ritiro a cui nessuno, lui per primo, credeva, e questo non lo rese più simpatico. Sprecò in poco tempo un capitale di fiducia e simpatia che era stato bravissimo a conquistarsi in pochissimo. 

Se ha contribuito a dare vita al governo giallorosso – che nel 2018 aveva invece affossato con stizza –  è stato perché probabilmente i “suoi” parlamentari non lo avrebbero seguito, abbandonando i seggi conquistato da poco più di un anno. 

Oggi, con i suoi parlamentari e con la percentuale modesta di Italia Viva – un classico partito del leader, senza identità propria – Renzi può essere anche capace di far fallire le feste degli altri, o di decidere su importanti nomine nelle aziende di Stato, ma resterà una promessa mancata.

huffingtonpost.it

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