Qualche contraddizione della gerarchia verso i preti sposati

Paolo VI nell’”ECCLESIAM SUAM” afferma: “Vogliamo semplicemente accennare che la Chiesa deve essere presente e sostenere il dialogo con tutti gli uomini di buona volontà, dentro e fuori l’ambito suo proprio. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo.”.

Lodevole desiderio, ma spesso disatteso nella prassi. Basta osservare l’atteggiamento ostile della gerarchia verso quei preti che non rinnegano la fede, né il ministero presbiterale, ma nel corso della vita, per essere testimoni più credibili della Buona Novella, hanno scelto di iniziare una nuova avventura insieme con una donna, come i primi apostoli, pellegrini, disposti a vivere più nell’incertezza della tenda di Abram che sicuri nel tempio di Salomone.

Come pellegrini, sulle strade, incontrano l’umanità sofferente che aspetta una vera proposta religiosa, più esperienziale che cultuale.

Non hanno pensato di “fuggire”, ma per la gerarchia diventano come lebbrosi, allontanati dal papa, dai vescovi (fatta eccezione di qualcuno), da parecchi confratelli e dai cosiddetti bigotti.

Per loro nessuna menzione nell’anno santo, niente preghiere nella liturgia eucaristica domenicale, nessuna pastorale per le loro famiglie, nessun invito ad incontri presbiterali formativi o di convivialità.

Ammesso e non concesso che siano pecorelle smarrite, dov’è il pastore che non si dà pace finché non ha ritrovato la sua pecorella e, chiamandola per nome. con dolcezza e con amorosa discrezione, gli chiede il motivo del suo pseudo-smarrimento?

L’esortazione dell’”ECCLESIAM SUAM” circa il dialogo non vale – evidentemente – per i preti uxorati.

Come fa l’attuale papa Benedetto XVI a contraddire la sua positiva posizione teologico-pastorale degli anni  ’70 sulla  opzionalità del celibato dei preti con il suo atteggiamento odierno di netta chiusura? Saremmo ben lieti che ci spiegasse come mai ha cambiato completamente idea rispetto a ciò che nel 1967 scriveva in proposito: “Di fronte alla penuria  dei sacerdoti che in molte parti della Chiesa si fa sentire sempre più, non si potrà fare a meno di esaminare un giorno con tutta tranquillità questa questione; l’evitarla sarebbe inconciliabile con la responsabilità dell’annuncio della Parola di Salvezza al nostro tempo”.

Mi domando: che differenza c’è tra il 1967 ed i nostri tempi?

Ancora nel 1970 il giovane Ratzinger di anni 42 con altri 8 teologi scrisse una lettera alla Conferenza Episcopale tedesca ponendo la questione della situazione di emergenza in merito alla necessità urgente di una riflessione e di un nuovo approccio sulla legge del celibato nella Chiesa cattolica di rito latino.

Chi ritiene superfluo – scrivevano – un simile chiarimento ci sembra abbia poca fede all’invito del Vangelo e della grazia di Dio.

Non credo di mancare di rispetto se dico che il primo ad avere poca fede nell’invito del Vangelo e della grazia di Dio è proprio lui: Benedetto XVI.

Quando negli anni ’70 invitava la Chiesa a rivedere la legge ecclesiastica del celibato obbligatorio si rivolgeva al papa Paolo VI, adesso che è lui il papa, perché non agisce di conseguenza?

Perché ha accolto in questi ultimi tempi, nella Chiesa cattolica, vescovi e pastori della chiesa anglicana, sposati con figli, dando loro il diritto di esercitare il servizio sacerdotale e pastorale senza obbligarli a lasciare mogli e figli e non permette altrettanto ai presbiteri sposati di rito latino?

Come risponde ai tanti preti della Chiesa cattolica nel mondo (circa 100.000) molti dei quali, sarebbe disposti ad esercitare il ministero con più slancio per annunciare la Parola di salvezza?

Si vede che a Benedetto XVI piacciono “due pesi e due misure”.

tratto da vocatio.it

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