Preti sposati per porre rimedi a drastico calo vocazioni

Repole: «Sovraccaricato di responsabilità e funzioni». Castegnaro: «Confratelli e vescovi sono lontani»

Le dichiarazioni del docente della Facoltà teologica di Torino e del sociologo dell’Osservatorio pubblicate da “La Nuova di Venezia e Mestre” commentato dal Movimento Internazionale dei sacerdoti lavoratori sposati, fondato nel 2003 da don Serrone.

“Il sacerdozio non è solo un mestiere… Recenti casi di cronaca hanno riportato l’attualità del tema della riforma del celibato per i preti e la riammissione dei preti sposati che potrebbero essere una soluzione al drastico calo delle vocazioni” (ndr)

In basso il testo delle dichiarazioni:

“Dall’alba a notte fonda, gravato di impegni, fondamentalmente solo. E’ un mestiere duro, se tale si può chiamare, quello del parroco: anche per questo esposto alle derive che possono condurre alla condizione di burn-out.

Ne tratteggia le dinamiche don Roberto Repole, docente della facoltà teologica di Torino, che si è occupato in modo specifico dell’argomento: «Si tratta, anzitutto, della mancanza di senso di appartenenza comunitario, ovvero una solitudine da non attribuirsi tanto al fatto di non vivere con altre persone, quanto piuttosto al fatto di non avvertire l’appartenenza a un corpo ecclesiale o presbiterale con cui condividere gli stessi valori, ideali e obiettivi.

«Si tratta, poi, di un sovraccarico di lavoro, dovuto non tanto all’eccessivo impegno profuso quanto alla percezione di dover essere responsabili di tutto; e si tratta, infine, di una gratificazione insufficiente, nel senso di una fatica a vedere la realizzazione dei progetti pastorali fatti o dei valori per cui si è spesa l’esistenza».

Sovraccarico è la parola giusta: il prete, in parrocchia, deve farsi carico dei ragazzi, delle coppie, degli anziani, degli ammalati, della catechesi degli adulti, dei poveri e via elencando. Per non parlare di un rilevante peso di adempimenti burocratici, della gestione economica, del rapporto con le associazioni…

Come porre rimedio a tutto questo, a fronte del drastico calo delle vocazioni? Le risposte possibili sono molte e complesse, ma don Roberto chiama in causa anche le chiese diocesane: «E’ urgente ripensare, in un modo paziente ma realmente condiviso da tutti (vescovo, preti e laici), la figura ecclesiale nell’orizzonte della fine della cristianità; e l’importanza che i preti si percepiscano responsabili, per quel che è loro possibile, dei conseguenti cambiamenti ecclesiali oggi richiesti dal nuovo modello culturale».

Rimane, oggettivamente, una condizione di pesante difficoltà, su cui gravano sia il sovraccarico pastorale che una vera e propria solitudine istituzionale, come messo in luce da una ricerca dell’Osservatorio socio religioso delle Venezie.

Alessandro Castegnaro, sociologo dell’Osservatorio, parla di una vera e propria “solitudine ecclesiale” che il prete percepisce nei confronti degli altri preti, dei superiori e del centro diocesano: «Il prete si sente da solo e in prima linea ad affrontare tante questioni, senza l’aiuto di norme che sono troppo rigide per una realtà sempre più complessa; vive relazioni ricche con i laici, ma la responsabilità alla fine rimane sua; egli non sente la vicinanza del vescovo e, invece di trovare un aiuto negli uffici centrali, si ritrova con ulteriori richieste da parte loro. La stessa Cei gli appare lontana, troppo ottimista nel valutare la situazione, poco flessibile e accogliente solitudine ecclesiale».

 

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