Le primarie americane e il ritorno dei neoconservatori

La stagione delle primarie non è ancora iniziata, il primo appuntamento sarà a gennaio con i caucus dello Iowa, ma sono già successe molte cose in campo repubblicano.
All’inizio dell’anno sembrava che queste elezioni presidenziali, come quelle parlamentari di due anni fa, sarebbero state segnate dall’attivismo dei Tea Party, il movimento integralista di base anti-stato guidato, tra gli altri, dalla deputata Michelle Bachman, ma con l’appoggio esterno di un’altra reginetta del movimento, l’ex governatrice dell’Alaska Sarah Palin.
E invece, con il passare dei mesi e il dispiegarsi dei dibattiti pubblici tra i nove-dieci candidati repubblicani, non solo il campo di battaglia si è venuto semplificando, ma sorprendentemente anche la principale esponente dei Tea Party è stata relegata dai sondaggi in un ruolo marginale. Oggi Michelle Bachman viene data dagli elettori repubblicani con un misero 6 per cento, contro i due principali contendenti Newt Gingrich, con circa il 30 per cento, e il favorito (fino a poco tempo fa) Mitt Romney con appena il 23 per cento.
Di sorprendente c’è anche la rientrata in campo e rapida ascesa di Gingrich. Dopo una corsa iniziale all’inizio dell’anno Gingrich aveva annunciato di non volere più candidarsi a seguito di una serie di polemiche sulla sua vita sessuale piuttosto disordinata — tre mogli e diverse amanti — e di accuse di avere percepito lucrative consulenze da alcune importanti lobby. Per molti mesi è sembrato che l’unico candidato possibile sarebbe stato Romney.
Repubblicano di centro, compassato nello stile e moderato nelle sue posizioni politiche, Romney non piaceva alla base del partito sia per la sua affiliazione religiosa (è mormone), sia per la riforma sanitaria che aveva realizzato quando era governatore del Massachusetts (una riforma molto simile a quella, a livello nazionale, di Obama). Per questo nelle ultime settimane aveva cercato di conquistarsi un pedigree di repubblicano intransigente citando sempre più spesso la figura di Ronald Reagan (a 25 anni dalla sua presidenza tuttora un’icona imprescindibile per i repubblicani – e non solo), e correggendo le passate posizioni che lo facevano sembrare troppo poco di destra. L’unica cosa che non poteva danneggiarlo tra l’elettorato di riferimento è di essere ricchissimo e di esserlo diventato attraverso spericolate operazioni finanziarie.
Tra i suoi avversari intanto, era uscito di scena, anche lui per motivi di carattere sessuale, la stella nascente repubblicana, l’afroamericano Herman Cain. (Curioso: i repubblicani, che raccolgono un misero 2 per cento dei voti afroamericani, ci avevano già provato nominando un segretario del partito nero e ora mettendo in campo un candidato alla presidenza nero – dopo che avevano usato toni neppure troppo velatamente razzisti per combattere il candidato nero democratico.) La Bachman, come prima di lei Sarah Palin, aveva gradualmente perso consensi, fino a sprofondare, di fronte all’evidenza della sua incompetenza e superficialità. L’ultimo a cadere era stato il governatore del Texas Rick Perry dopo alcune prove penose nel corso dei dibattiti dei mesi scorsi. Tra gli altri candidati, solo il longevo Ron Paul è rimasto sulla scena (gli si accredita un 10 per cento di voti a favore), ma si tratta di un libertario di destra anomalo che non può in alcun modo sperare di ottenere il consenso degli elettori del suo partito, che saranno anti-stato, ma libertari certo non sono.
Quando quindi sembrava che Romney fosse divenuto ormai il “candidato inevitabile ” (come fu definita Hillary Clinton ai tempi della sua corsa per la Casa bianca prima che entrasse in scena Barack Obama), non tanto perché fosse amato da tutti, ma perché era il meno peggio sulla piazza, ecco che rientra prepotentemente in scena Newt Gingrich. Una personalità, quella di Gingrich, che più diversa da Romney non si potrebbe immaginare: compassato l’uno, vociferante l’altro, moderato l’uno, estremista l’altro, morigerato l’uno, amante della bella vita l’altro. Dalla sua inoltre Gingrich ha ancora il residuo di popolarità che si era conquistato negli anni ’90 quando, da speaker della Camera, aveva lanciato il partito alla riconquista della maggioranza con il suo famoso “patto con l’America” (copiato da Berlusconi qualche anno dopo), e negli anni successivi aveva martellato Bill Clinton per le sue prodezze amatorie.
Ma c’è un’altra ragione di fondo per il ritorno e la rapida ascesa di Gingrich. La ragione si chiama neoconservatori. Non direttamente gli esponenti del neoconservatorismo, che avevano vissuto il loro momento d’oro durante la presidenza Bush ed erano entrati in un cono d’ombra dopo la vittoria di Obama, ma gli interessi economici e le visioni geopolitiche (militari, strategiche ed economiche) che avevano sostenuto il movimento e che certo non sono scomparse con la fine dell’amministrazione Bush. Sono questi ambienti economici e di politica estera ad avere decretato l’uscita, di fatto, dei Tea Party dalla corsa per la presidenza: troppo isolazionisti, e anche troppo isolati dagli ambienti di Washington che contano, il loro radicalismo finanziario poteva finire col mettere in discussione anche le lucrose commesse militari. Per fare da battistrada, per agitare le acque e suscitare un movimento di antipolitica e di anti-stato andavano bene, ma adesso che è iniziata la corsa vera e propria è bene che si facciano da parte e lascino spazio ad un politico sperimentato ed affidabile.
Ecco quindi rispuntare Gingrich, un uomo evidentemente ben più affidabile per i think tank e le lobby di politica estera nelle quali i neoconservatori continuano a studiare e a progettare un rinnovato ruolo imperiale per il loro paese. Gingrich ha rapidamente interpretato le loro posizioni rigidamente filo-israeliane e la loro voglia di rivincita in Medioriente, dopo le cocenti sconfitte in Iraq e, prossimamente, in Afghanistan. In un recentissimo discorso ha fatto fare un passo indietro di 30 anni alla politica americana sulla Palestina, definendo il popolo palestinese un “mito storico”, perché “non è mai esistito”; schierandosi così contro la soluzione due popoli-due stati che era ormai diventata patrimonio comune di repubblicani e democratici. Anche sull’Iran Gingrich ha alzato i toni, attaccando la linea di azione di Obama (che tutto sommato è stata anche del suo predecessore), che è consistita nella dura condanna dell’Iran per i suoi progetti nucleari e nell’uso di sanzioni economiche sempre più punitive, ma pur sempre in un quadro multilaterale ricercando l’accordo con le potenze della regione, in prima fila la Russia. Al contrario Gingrich ha esplicitamente annunciato l’intenzione di schierarsi con Israele se lo stato ebraico decidesse di muovere guerra all’Iran.
Quello che Gingrich ha delineato in una serie di dichiarazioni e discorsi estemporanei (manca ancora una sua piattoforma di politica estera) è un programma di neo-interventismo americano, di flettere i muscoli della potenza militare, e di rivendicazione del diritto ad agire unilateralmente – anche con la forza – per difendere gli interessi degli Stati Uniti, ovunque nel mondo lo ritengano. I neoconservatori sono tornati!
paneacqua.eu

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