La Chiesa non deve pagare l’Ici

L’Imposta comunale sugli immobili (Ici), non pagata dagli enti ecclesiastici dal 2008 al 2012, non potrà essere recuperata. Nonostante si sia trattato di aiuti di stato, illegittimi secondo il diritto Ue in quanto distorsivi della concorrenza e del mercato, un recupero di imposta da parte del governo italiano è impossibile.
E poi dal 2012, la situazione è stata sanata dalla nuova normativa in materia di Imu che invece non ha commesso gli errori del passato e ha passato indenne il vaglio dell’Ue.

Con due sentenze fotocopia (nelle cause T-219/13 e T-220/13), l’ottava sezione del Tribunale dell’Unione europea ha respinto i ricorsi presentati dalla scuola elementare Maria Montessori di Roma e dal titolare di un bed&breakfast contro la decisione con cui il 19 dicembre 2012 la Commissione Ue, pur giudicando aiuto di stato incompatibile col mercato interno l’esenzione Ici concessa agli enti non commerciali, concludeva che «sarebbe stato impossibile per la Repubblica italiana recuperare gli aiuti illegittimi», rinunciando quindi a procedervi.

La rinuncia della Commissione era stata motivata dal fatto che né le banche dati catastali né quelle fiscali avrebbero consentito di identificare «il tipo di attività (economica o non economica) svolta negli immobili di proprietà degli enti non commerciali, e nemmeno di calcolare oggettivamente l’importo dell’imposta da recuperare».

La Commissione, all’epoca guidata da José Manuel Barroso, aveva accolto le giustificazioni del governo italiano che riteneva impossibile estrapolare dalle banche dati, e per di più con effetto retroattivo, le informazioni necessarie ad avviare un’azione di recupero.

I ricorrenti, tuttavia, hanno contestato questa tesi, affermando che esisterebbero «metodi alternativi» per individuare la natura commerciale o meno delle attività svolte dagli enti beneficiari delle esenzioni Ici. Quali sarebbero queste vie alternative?

La prima si basa su una presunzione. Considerando che la nuova normativa Imu (che ha preso il posto dell’Ici) esige che gli enti non commerciali dichiarino gli immobili assoggettati a imposta e esentati, e, dall’altro, che la maggior parte degli immobili in questione manterrebbe stabilmente la propria destinazione d’uso, le autorità italiane, sostengono i ricorrenti, «potrebbero utilizzare le dichiarazioni presentate in base alla normativa Imu per accertare l’uso o meno degli immobili per fini commerciali in passato».

Tuttavia, osservano i giudici di Lussemburgo, i ricorrenti non forniscono «alcun dato che permetta di presumere che gli immobili degli enti non commerciali mantengano solitamente e stabilmente la propria destinazione». E la Commissione, «non può supporre che un’impresa abbia beneficiato di un vantaggio che costituisce aiuto di stato basandosi semplicemente su una presunzione negativa, fondata sull’assenza di informazioni che le consentano di giungere alla conclusione contraria».

In secondo luogo, i ricorrenti sostengono che prevedere un obbligo di autocertificazione costituirebbe un valido modo di rivelare l’informazione richiesta. Ma, ribatte il Tribunale Ue, «tale metodo non può essere considerato efficace a causa dell’inesistenza di informazioni sulla precedente situazione degli immobili».

I ricorrenti, inoltre, propongono che le autorità italiane effettuino controlli in loco tramite organi ispettivi, sull’esempio di quanto già fatto da taluni comuni italiani. Per i giudici, tuttavia, «siffatto metodo, pur potendo fornire informazioni sulle attività attualmente svolte dagli enti beneficiari dell’Imu, non è tuttavia valido per identificare la natura dell’utilizzo dei loro immobili in passato».

La conclusione del tribunale è conseguenziale: non è stato dimostrato che «la natura delle attività svolte dagli enti beneficiari dell’esenzione Ici avrebbe potuto essere individuata ricorrendo a metodi alternativi». Pertanto, conclude il collegio, «non è possibile contestare alla Commissione di essere incorsa in un errore di valutazione per aver dichiarato che le autorità italiane non disponevano di alcun mezzo che consentisse loro di procedere al recupero, anche solo parziale, dell’aiuto considerato illegittimo».

Nulla da fare, dunque, almeno per il momento sul recupero dell’Ici non versata tra il 2008 e il 2012 che, secondo le stime dell’Anci, avrebbe creato un buco nelle casse comunali di 4-5 miliardi di euro. La vicenda è in ogni caso ancora aperta perché la sentenza potrà essere impugnata in appello dai ricorrenti.

italiaoggi.it

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