Integrierte Gemeinde: il sogno e la chiusura

di: Lorenzo Prezzi

Il 20 novembre l’arcivescovo di Monaco di Baviera, card. Reinhard Marx, ha giuridicamente sciolto l’associazione ecclesiale Katholische Integrierte Gemeinde (KIG), una nuova fondazione nata nel dopoguerra in Germania caratterizzata dalla vita comune dei vari stati di vita cristiani (laici, preti, famiglie ecc.). A seguito di una visita apostolica (febbraio 2019), il cui rapporto è stato pubblicato il 20 giugno scorso, sono stati riscontrati abusi spirituali e un censurabile sistema di dipendenza psicologica e finanziaria nella forma strutturale del gruppo. L’accusa non riguarda la teologia o la fede, né abusi di natura sessuale.

«Mi dispiace osservare – annota il vescovo – che alcuni ex-membri abbiano dovuto subire sofferenze nel conflitto con la comunità e che i responsabili non si siano dimostrati disponibili a collaborare con i visitatori».

La fondazione KIG non esibisce grandi numeri. I partecipanti sono circa 1.000, presenti nelle diocesi tedesche di Münster, Paderborn, Augsburg e Rotterdam-Stuttgart. Fuori della Germania sono presenti a Vienna, a Roma (Frascati), in Ungheria (Budapest e Pécs), in Israele (Gerusalmme) e in Tanzania (diocesi di Morogoro e Dar es Salaam).

I numeri ridotti non hanno impedito alla comunità la costruzione di una immagine ben più rilevante, soprattutto in ambiente tedesco, e l’essere diventata un riferimento quasi obbligato nella discussione ecclesiale dagli anni ’60 agli anni’90. Qualche elemento della loro storia lo può far capire.

Domande di radicalità evangelica

Tutto nasce nel dopoguerra dall’intuizione di Traudl Weiss e da una associazione cattolica femminile in cui operava il prete teologo Aloys Georgen. Testimone diretta, come infermiera di un ospedale di Monaco, delle situazioni disperate di malati provenienti dal campi di concentrazione e di sterminio (Dachau) la giovane Traudl si chiedeva come fosse stato possibile che tale disumanità fosse stata praticata nell’Occidente cristiano.

Infastidita dall’orientamento governativo e del contesto sociale rispetto alla rimozione del problema della responsabilità storica con un facile rimando a-storico al romanticismo e alla borghesia del primo ‘900, assieme a una cinquantina di altre ragazze e col sostegno di p. Georgen esce dall’associazione e avvia una forma di vita cristiana più intensa. Si sposa nel 1949 con Herbert Wallbrecher (uno dei testimoni è Johannes J. Dagenhardt, futuro vescovo di Paderborn)  che dà efficacia organizzativa e istituzionale al gruppo.

Il vento del concilio e le vivaci tensioni sociali degli anni ’60 guardano con simpatia ai tentativi di dare radicalità e veracità alla fede. In particolare per l’acuta riflessione che la comunità è in grado di elaborare grazie all’apporto di teologi e biblisti di rilievo come Norbert Lohfink, il fratello Gerhard Lohfink, Rudolf Pesch e Ludwig Weimer. Originali nel’approccio biblico e coraggiosi nelle scelte: abbandonano le cattedre accademiche per una teologia più vissuta e testimoniata. Il riconoscimento ecclesiale di associazione pubblica di fedeli arriva nel 1978 nella diocesi di Monaco (allora diretta dal Joseph Ratzinger) e di Paderborn.

La comunità raccoglie famiglie, preti, laici e laiche che formano una comunità di eucaristia e di vita comune. L’organo di riferimento è l’assemblea dei membri che elegge i consiglio direttivo e il suo presidente, confermati dal vescovo locale.

Teologia vissuta

Fra i riferimenti teologici e valoriali elaborati (alcuni prima del concilio) vi è la convinzione della centralità del popolo di Dio, la scoperta delle radici ebraiche della fede cristiana, la dimensione essenzialmente comunitaria della testimonianza cristiana, la pervasività della fede per tutti gli ambienti vitali, la connessione fra principio monastico e principio domestico.

Totalmente indipendenti dal sistema della «tassa della Chiesa» vigente in Germania e quindi finanziariamente autonomi, avvertono la comunità come popolo di Dio in cammino, in continuità con la coscienza ebraica di Gesù. Ancora negli anni ’50 si poteva sentire da loro affermazioni come questa: «Gesù era un ebreo e non un cristiano». Una identità di fede forte che non fa riferimento alla parrocchia, anche per la celebrazione pasquale. Si avvertono nel cuore della Chiesa, riferimento per la sua riforma. Lontani da ogni atteggiamento intimistico e a-storico sono critici anche dell’adattamento alle esigenze del tempo, poco interessati a un generico umanesimo non connotato in senso cristiano.

Insomma, una comunità che vive l’essenza del cristianesimo, poco interessata alla teologia puramente accademica. Vita comune significa centralità dell’assemblea e coerente sviluppo delle attività artigianali, artistiche, economiche, mediche e pedagogiche. Arrivano a gestire alcune scuole, studi medici, farmacie, aziende artigianali e industriali e una casa editrice (Urfeld).

Ciascuno conferisce i proventi del lavoro, ma le responsabilità, anche finanziarie, sono individuali, fino a costruire una banca interna. Una sorta di nuovo monastero che incrocia l’esperienza dei kibbuz d’Israele, con cui avviano una esperienza annuale comune di una settimana.

Critica senza autocritica

Risulta evidente la dimensione critica nei confronti della parrocchia e della struttura ecclesiale e l’intento di proporre una «nuova società di Dio». I punti di fragilità che un acuto osservatore come David Seeber (allora direttore di Herder Korrespondcenz) sollevava negli anni ’60-’70 era la scarsa attenzione alla «Chiesa di popolo» e al sistema di convergenza-dissonanza fra Chiese e stato in Germania.

Oltre a Gerusalemme la comunità si espande in Tanzania e raccoglie i consensi di quanti denunciano la deriva «liberale» della Chiesa post-conciliare. Fra questi il cardinale e poi papa J. Ratzinger, che apre loro la presenza a Roma (Frascati) con l’ambiziosa idea di una Accademia teologica in grado di superare, connettendole insieme, le specializzazioni della teologia e di offrire un «prodotto» capace di arrivare al popolo. Fino al riconoscimento da parte della Pontificia università lateranense. Solo nelle ultime settimana il papa emerito ha preso distanza da loro.

Il rapporto finale della visita canonica racconta gli aspetti discutibili, mai davvero affrontati dalla comunità: svalutazione delle altre forme di vita cristiana, pretesa che la comunità eserciti il perdono sacramentale, discriminazione e allontanamento di quanti sollevano critiche (a partire dal trattamento ostile verso padre Aloys Georgen), «l’accettazione di decisioni di qualsiasi genere da parte della comunità, dalla scelta del persone a quella della professione, dal luogo di residenza al tipo di alloggio» fino alla scelta del medico, delle attività economiche, di avere o no dei figli.

La comunità e i responsabili si sono sottratti alla visita canonica, cambiando ragioni sociali delle varie iniziative economiche o di convivenza, riducendo a numeri sempre più esigui coloro che sono in grado di decidere. Alcuni di questi aspetti erano già stati sollevati nel 2005, senza esito. Ora la decisione drastica della Chiesa locale e la probabile ricerca di una nuova collocazione per quanti rimarranno nella comunità.

settimananews

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