Dio può soffrire?

Vorrei aiutare la contemplazione del volto del Dio sofferente – il Padre/Madre dell’amore della tradizione biblica -, ponendomi in ascolto della Sua rivelazione in tre tappe, tese a scrutare rispettivamente il volto del Dio d’Israele, il volto del Dio di Gesù e quello del Dio della Chiesa.

a) Il Dio d’Israele. In ebraico c’è una metafora pregnante per dire l’amore di Dio: “rachamim”, termine che letteralmente significa “viscere materne”. Il Dio dei “rachamim” è il Dio visceralmente innamorato dell’uomo («per viscera misericordia Dei nostri», dice la trasposizione latina): Colui che è il Padre della “hesed”, l’amore forte e fedele, è anche il Padre/Madre della tenerezza, il Dio dell’infinita misericordia. Dice Isaia 49,14-16: “Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io non mi dimenticherò mai di te. Ecco ti ho disegnato sul palmo delle mie mani”. Questo è il Dio d’Israele: un Dio materno, che conosce tenerezza e usa misericordia, che ci tiene sempre sotto gli occhi, perché ci ha disegnato sul palmo delle sue mani.

Questo Dio non ha esitato a farsi piccolo perché noi possiamo esistere davanti a Lui: è quanto esprime la dottrina, cara alla mistica ebraica, dello “zim-zum”, del divino “contrarsi”, chiave del mistero della creazione. Un frammento anonimo medioevale afferma: “Come fece uscire e creò il mondo? Come un uomo che raccolga il respiro e si concentri in sé, affinché il piccolo contenga il grande, così Egli concentrò la sua luce… e il mondo fu nella tenebra. In questa tenebra Egli incise le rocce e intagliò le pietre, in modo da trarne le meraviglie della sapienza”. Dio si limita in se stesso per creare spazio alle sue creature, come fa una madre quando concepisce un figlio; Dio si fa piccolo perché vuole davanti a sé donne e uomini liberi. Il Suo amore giunge al punto da accettare il rischio della nostra libertà, anche della libertà di rifiutarlo. Perciò il Dio della tradizione biblica è il Dio umile: nessuno può esserlo come Lui, perché Lui solo può farsi piccolo, Lui solo può veramente “contrarsi”! Voce di una profonda esperienza mistica, Meister Eckhart dirà: “La virtù che ha nome umiltà è radicata nel fondo della deità”. E prima di lui Francesco – nelle Lodi del Dio Altissimo -si rivolge al Dio amato, verità e bellezza infinite, dicendoGli: “Tu sei umiltà!”.

Questo Dio umile si è destinato a tal punto alla Sua creatura per amore, da seguire il cammino dei suoi figli con trepidante partecipazione: è quanto esprime la dottrina della “shekinah”, la “dimora” di Dio nella storia del suo popolo. Si tratta di una presenza così profonda e vicina da divenire condivisione del dolore e della gioia. Dice un commovente “midrash” della fine del IV secolo: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekinah andò con loro. Andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekinah… andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… furono in Edom ed essa era con loro… ma quando torneranno, la Shekinah farà ritorno insieme a loro”. Il Padre d’Israele è, dunque, tutt’altro che il Dio lontano che schiaccia l’uomo: è anzi il Dio che ha tratti di compassione e di tenerezza anche quando giudica. Il suo è il giudizio di verità e di amore di chi ti conosce e ti ama fino al punto da soffrire per te: perciò il giudizio divino è il solo che può rivelarti veramente a te stesso.

Questo Dio di luce e di misericordia chiede all’uomo una sola risposta, la “teshuvà”. SHV è la parola che noi traduciamo con convertirsi e che in ebraico significa “ritornare a casa”. Dio desidera che noi torniamo nella sua casa. Colui che ci ha creati liberi per amore, nell’amore aspetta il nostro ritorno: la Sua non è un’attesa indifferente, ma vive dell’ansia e della sofferenza dell’amore, come rivela la gioia espressa nella festa del ritorno. Qui si intravedono i tratti del Padre presentato nella parabola di Gesù in Luca 15, sintesi della rivelazione del Dio biblico come Dio della tenerezza e della misericordia. Osea 11,7-8 afferma in questa stessa direzione: “Il mio popolo è duro a convertirsi; chiamato a guardare in alto nessuno solleva lo sguardo. Come potrei abbandonarti Efraim, come consegnarti ad altri Israele? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione”. Padre/Madre della tenerezza e dell’amore, della misericordia e dell’umiltà, questo Dio ci rende liberi di esistere a testa alta davanti a Lui e di aderire o meno al Suo patto, anche se incessantemente ci chiama a tornare al suo cuore divino e aspetta il nostro ritorno, per vivere con Lui la festa dell’amore ritrovato.

b) Il Dio di Gesù. Il Dio d’Israele è anche il Dio di Gesù. Ebreo fedele, il Nazareno ha però introdotto una novità assoluta rispetto alla tradizione d’Israele: egli ha chiamato Dio col nome di “abbà”, parola della tenerezza con cui i bambini amavano rivolgersi al padre e che anche gli adulti usavano per esprimere la confidenza filiale. Gesù è stato il primo Ebreo che si è rivolto a Dio così: “abbà”, segno di confidenza infinita e di tenerezza filiale, è l’invocazione che sgorga dal cuore del Figlio incarnato nell’ora suprema del dolore, quando tutto sembra crollare e la solitudine è totale, perché anche i discepoli non sono stati capaci di vegliare un’ora sola con Lui. “Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice: però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 15,36). Siamo qui di fronte alla più alta rivelazione del Padre, nelle cui mani Gesù affida il suo spirito. Il Padre di Gesù è il Dio che accetta di soffrire per amore della sua creatura: non soltanto il Dio umile, il Dio della compassione e della tenerezza, ma il Dio che paga il prezzo supremo dell’amore.

in http://www.aleteia.org/it/stile-di-vita/contenuti-aggregati/dio-puo-soffrire-5850812643278848

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