Cosa suggerire? Dare ai preti la possibilità di scegliere tra il celibato e il matrimonio?

Come ogni uomo o donna, anche il prete ha un cuore, diciamo “di carne” per esprimere meglio quel mondo affettivo e passionale che caratterizza anche nella sua fisicità ogni essere umano, e non solo umano. Anche gli animali hanno dei sentimenti, e forse anche la natura in genere.

La solitudine è vista quasi come un effetto collaterale della vita di un prete che ha fatto la scelta – prima di essere ordinato sacerdote! – di non sposarsi. Scelta per modo dire, dal momento che, per essere sacerdote, il celibato è d’obbligo.

Dunque, il prete cattolico non può contrarre matrimonio. Di conseguenza, non dovrebbe neppure potersi innamorare. Ovvero: dovrebbe sostituire il cuore di carne con una specie di cuore di pietra. Ma in realtà non è così, ci assicurano teologi e moralisti della Chiesa ufficiale. L’amore del ministro di Cristo valica l’individualismo per aprirsi al cosmico. L’amore dal singolare deve aprirsi all’universale. Di conseguenza: più persone amo, meno sarei tentato di innamorarmi di una singola persona. Se mi innamoro di una ragazza, vuol dire che tradisco la mia vocazione all’universale. Come a dire: chi ha una famiglia, non ama il mondo ovvero non lo ama come chi decide di non legarsi ad una singola persona.

C’è di più. L’amore rischia di essere sublimato a tal punto da diventare disincarnato. Dire amore universale può dire tutto e può dire niente. Si abbraccia l’universo, senza nemmeno sfiorare con un dito la realtà in tutta la sua concretezza.

Un ragionamento banale il mio? Forse. Ma non penso di essere molto lontano dalla verità, anche se la Chiesa gerarchica preferisce fare discorsi altisonanti o altolocati per poi nascondere ciò che io forse banalmente cerco di dire senza sotterfugi.

Sì, il prete sente molto la solitudine, ma per evitarla trova o gli vengono suggeriti (per non dire imposti) metodi efficaci: essere in perenne agitazione, e perciò impegnarsi in tante attività, creare comunità tra confratelli, evadere (verbo sbagliato), diciamo fare esperienze di cammino (ovvero andare a spasso), oppure ritagliarsi ogni tanto dei momenti forti di meditazione e di preghiera, quasi una droga mistica per togliersi brutti pensieri. E se vengono, basta poco: andare a confessarsi.

Metodi collaudati da secoli, ma che non sempre hanno dato frutti desiderati, anche se, nel passato, ciò che debordava (e non era tanto raro!), ovvero usciva dai canoni stabiliti, era coperto da una coltre di protezione con la complicità di una struttura di potere che si faceva rispettare anche dallo Stato.

Sul celibato dei preti vorrei dire la mia, in tutta sincerità. Che possa essere una libera scelta, nessuno lo mette in dubbio, anche se, come ho già detto, per essere sacerdoti non c’è altra via che il celibato. Del resto, anche tra i laici, non tutti si sposano, o fanno famiglia, o convivono. C’è gente che preferisce non legarsi affettivamente. O per vocazione, o per altri motivi, non entro qui nel merito. Così per i preti, e lo stesso dovrei dire per le suore. Ma ritenere il celibato una scelta privilegiata, diciamo la migliore, avrei qualche dubbio. L’amore è qualcosa di meraviglioso. Come negarlo? Penso che sia uno tra gli aspetti più belli di Dio, un riflesso che dà calore e vita all’Universo e alle sue creature. Come non rimanere affascinati da due giovani che si amano o dalla tenerezza di due anziani che si vogliono bene come se fossero perenni innamorati? Dunque, anche per un prete dovrebbe essere la stessa cosa. Se amasse e fosse amato da una persona, sarebbe una cosa stupenda. L’ideale. Togliere questo sarebbe come mutilare il proprio essere. Dico subito che dicendo persona non faccio una questione di sessi. Qui potrei toccare il problema dei preti omosessuali. Dico solo una cosa: non dovrebbe creare un problema il fatto che un prete sia gay. Che lo confessi pubblicamente, avrei qualche riserva: le nostre comunità cristiane non sono così aperte come si vorrebbe far credere. 

Ma… c’è un ma, ed è qui che entra in scena l’ordinamento ecclesiastico. Sì, perché di ordinamento puramente ecclesiastico si tratta. Guai, comunque, a dire esplicitamente “ordinamento ecclesiastico”. Si preferisce parlare di virtù, o di scelta superiore, o appellarsi al Vangelo, arrampicandosi magari sui vetri. Siamo sinceri. È tutta una questione di concretezza. La Chiesa, in questo, non la batte nessuno. Fa bei discorsi, ma è molto pratica. In poche parole: un prete che ha famiglia non può essere del tutto libero di svolgere il proprio ministero. Certo, se la famiglia fosse ideale – moglie ideale e figli ideali! – allora le cose cambierebbero. Ma siccome la famiglia ideale è rarissima – per non dire impossibile -, allora siamo concreti, ragazzi! Meglio non essere legati con nessuno, meglio restare soli, sganciati da qualsiasi legame, soprattutto se questi legami facessero parte di una struttura. Effettivamente ci sono elementi positivi: se avessi moglie e figli, non potrei fare scelte radicali, come ad esempio sacrificarmi senza guardare alla salute, prendere dure posizioni contro sistemi corrotti. Eventuali conseguenze ricadrebbero solo su di me, ma non sulla famiglia. Non vorrei poi soffermarmi su eventuali scelte affettive sbagliate, sui figli (quanti? anche qui…) che potrebbero complicarmi la vita come prete ecc. ecc.

Razza strana noi preti! Ma non solo noi preti! È la stranezza di chi vuole fare scelte radicali, e non può impegnare la famiglia a seguirlo. È il destino dei profeti rimanere “soli”, così soli da radicalizzare sempre più la sua profezia, vedendo in lei la sorgente che può dare un senso all’incomprensione, alla solitudine, all’emarginazione. Un amore concreto non potrebbe essere di supporto, nei momenti di crisi? Non lo so. Può darsi. Ma non mi pare che sia del tutto corretto dire questo: aver bisogno di un supporto affettivo solo in certi momenti difficili! Posso invece dire che la crisi fa parte della missione del profeta che, proprio perché è un profeta, rimane solo ed entra in crisi. Il profeta non vuol essere consolato, ma soffre da morire nel constatare che la sua parola profetica rimane sospesa nel vuoto. L’amore umano non basterebbe, se non a dargli una spinta. Ma perché ridurre l’amore a dare spinte?

Sono stato chiaro? Forse no. D’altronde, parlare di amore direi carnale (nel senso più positivo del termine) e parlare di profezia, non è facile. Il profeta ha un passo in più della normalità. L’amore dovrebbe seguire la profezia, accompagnarla, sostenerla. Fin dove?

Cosa suggerire? Dare ai preti la possibilità di scegliere tra il celibato e il matrimonio? Dopo i ragionamenti di prima, non genererei forse l’idea di volere quasi una duplice categoria: preti che scelgono, sposandosi, una vita più adagiata alla famiglia, perciò meno rischiosa, meno profetica ecc. ecc. e preti che, rinunciando alla famiglia, vorrebbero spingersi oltre, contestando ogni sistema sbagliato, in altre parole poter fare il profeta? Dunque, preti in linea con la struttura, e preti d’avanguardia? 

Qui sorgono altri problemi e altre obiezioni. La Chiesa, come vedremo, sarà costretta, fin dai tempi più antichi, a preoccuparsi di salvare la faccia o l’esteriorità di una struttura, quella appunto del celibato, e chiudere un occhio sulle relazioni senza legami strutturali dei suoi ministri. Meglio – per dirla brutalmente – un’amante segreta che un amore pubblico. Meglio masturbarsi senza giustificarlo, ricorrendo poi al solito tappabuchi di una confessione, che affermare che non è affatto un peccato.

È chiaro che quando parlo di amore “carnale” intendo anche la passionalità che coinvolge il corpo. La parola sesso non vorrei mai sentirla, nel contesto dell’amore. L’amore è amore in tutto: come spirito, come cuore, come sentimenti, come “corpo”. Tutto, anche il corpo, esprime l’amore. E se lo esprime al meglio, come amore, non c’è limite. Tutto diventa lecito. Ogni espressione fisica. Perché porre paletti? 

Qui dovrei aprire una lunga parentesi sull’atteggiamento della Chiesa nei riguardi del… diciamo sesso per farmi meglio capire. Anche perché, proprio sul sesso in senso fisico, si pone tutta la questione. Dico subito che non sono ancora riuscito a capire il motivo per cui la Chiesa – forse sarebbe più corretto risalire alle origini della religione in sé, presso tutti i popoli – prenda ancora oggi così di mira il sesso. Ovvero, non capisco perché alla Chiesa interessi così tanto il sesso tanto da esserne ossessionata, e ne abbia fatto per secoli e secoli una questione di vita o di morte. Vorrei anche qui dirla in modo brutale: Chiesa, che te ne frega se si fa sesso, se ci si masturba, se si usa il preservativo ecc. ecc.? Che te ne frega! Sei arrivata al punto di stabilire, attraverso i tuoi dottori in morale, quali sono le posizioni più etiche, meno peccaminose, prima del coito tra sposi regolarmente uniti davanti a Santa Madre Chiesa, nel sacramento del matrimonio. Anche rimanendo fedeli a queste norme, il coito in ogni caso lasciava qualche traccia sporca sull’anima, tanto è vero che una donna, dopo aver avuto un figlio, doveva presentarsi, entro quaranta giorni, davanti al prete per il rito della “purificazione”. Si doveva togliere l’”onta”! E pensare che, nello stesso tempo – ecco l’assurdo più grottesco – si imponeva di avere il maggior numero di figli. E si diceva, pensate, che ogni figlio era una benedizione di Dio! Ma i figli da dove spuntavano? Dopo una recita di un’Ave Maria? Non è una battuta: in realtà, mentre l’uomo e la donna con tutte le dovute riserve, si univano, per evitare di “godere” (il godimento era ritenuto peccaminoso) dovevano dire preghiere, quasi per distrarsi dal godimento “fisico”. Qualcuno sorride, pensando che io esageri. Non è così. Dico la verità.

Il sesto comandamento era, ed è ancora, il più tirato in ballo. Sempre presente nella lista dei peccati da confessare. Con una lunga serie di domande e domandine pruriginose. Anche il semplice toccamento di parti intime sul proprio corpo era passibile di condanna! Si insegnava ai bambini a rispettare il corpo, “tempio dello Spirito Santo”: così aveva scritto san Paolo. Una citazione, forse la più usata, o forse la più conosciuta tra tutti gli scritti dell’apostolo. Si dice che anche lui avesse avuto una “spina” che lo angustiava. Di che genere? Gli studiosi fanno tante ipotesi, anche quella di una debolezza sessuale.

Tutto questo per dire quanto la Chiesa abbia temuto, e lo tema ancora, la sfera cosiddetta sessuale. Inventando una casistica nel campo morale da superare quella degli scribi e farisei, di altro genere comunque, bollati in modo verbalmente violento da Cristo, il quale aveva ridotto la legge ad un unico comandamento: amare Dio, e amare il prossimo.

E poi è successo ciò di cui tutti ormai sono a conoscenza. Non tanto della grande quantità di seme disperso in ogni angolo della terra cristiana, ma della violenza sui minori, abusandone sessualmente, proprio da parte dei preti. E la bestemmia è questa: proibito masturbare il proprio pene, ma su quello dei bambini violentati era calato un grande silenzio. Come lo chiamate tutto questo? Come si può, ancora oggi, maledire la masturbazione personale, e tacere sul fenomeno veramente allarmante della pedofilia dei preti? Qualcuno mi ha chiesto: c’è un collegamento tra la repressione sessuale imposta ai preti e gli abusi sui piccoli? Sono stati fatti molti studi in proposito: chi dice di sì, e chi dice di no. Forse le ragioni sono tante, e diverse. Ma non c’è una sola ragione che possa giustificare il grave fenomeno che ha pesantemente oscurato l’immagine della Chiesa. E la Chiesa non sembra abbia capito la lezione, se non altro facendo un serio esame di coscienza. No! Parla di debolezze gravi di alcuni sacerdoti, ha chiesto perdono alle vittime, e tutto finisce lì. Aspetta che i mass media passino a parlare d’altro. Non era, questa, un’opportuna e doverosa occasione per rimettere in crisi l’apparato di una morale che privilegia la fobia del sesso, senza cogliere ciò che è un dono di Dio: l’amore, che è fatto di anima e di corpo, nella loro armonia?

Certo, non si risolverà il fenomeno della pedofilia dei preti permettendo loro di sposarsi, ma che almeno si affronti il problema senza paura di rimettere in discussione un ordinamento – il celibato – che è solo di carattere ecclesiastico. Preferisco a questo punto una classe sacerdotale, divisa tra un quieto vivere nella struttura familiare e un’avanguardia profetica senza legami di sangue, piuttosto che un clero monocorde, tutti in riga a far parte di una struttura omogenea, costretta nel silenzio a vivere di traumi o drammi di una solitudine quasi disperata, tra sotterfugi vari, e che per coprire i propri complessi fa pesare una pastorale di pura obbedienza alla religione. Quasi un modo per redimersi dei propri peccati.

E la Chiesa continua a illudersi che questa sia la strada maestra, l’unica percorribile. In nome di una tradizione antichissima che affonderebbe nel Vangelo. La gerarchia impone, e la base tace. In fondo ai preti, e non solo ai preti, ultimo anello della gerarchia, ma anche ai vescovi, fa comodo così. Neppure gli scandali servono a scuotere la coscienza della Chiesa-struttura. Sono ritenuti incidenti di percorso. Non riescono a squarciare le nubi.

Forse è facile anche scaricare tutta la responsabilità sulla gerarchia della Chiesa. I profeti sono stati fatti fuori o direttamente dal popolo o dal potere, sorretto però dal consenso popolare. Se la Chiesa, ad esempio, dovesse lasciare ai preti libertà di scelta: sposarsi o no, le nostre comunità cosiddette cristiane come reagirebbero? Poniamo una domanda più di fondo: la nostra gente come vede il prete: solo nella sua funzione pastorale? cerca di capirlo nella sua parte umana?

don Giorgio – dongiorgio.it

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