Primo, non chiamarlo stipendio. È il sostentamento, una remunerazione, un «aiuto per un’esistenza dignitosa». Comunque lo si voglia chiamare, quello che arriva ai sacerdoti dall’Istituto centrale per il sostentamento del clero è il frutto di un preciso sistema di calcolo che, gestito su scala nazionale, garantisce una distribuzione equa delle risorse a prescindere dalla parrocchia di assegnazione, eliminando le disparità che c’erano ai temi del sistema beneficiale, quando le comunità più ricche rendevano più agiata la vita dei loro parroci. Il mensile dei sacerdoti (e anche quello dei vescovi) si calcola attraverso un punteggio che parte da quota 80. Quanto vale un punto lo stabilisce la Cei: ora siamo a 12,36 euro, quindi la “paga” base è di 988,80 lordi. Vanno poi sommati altri punti in base all’anzianità (due ogni cinque anni) e dell’ufficio (un vescovo può aggiungere fino a 40 punti). La somma totale è coperta dalle parrocchie (in base al numero degli abitanti e secondo una tabella che tiene conto del costo della vita in ogni regione) e da eventuali altri redditi del sacerdote (come un’attività di insegnamento). Quel che resta è versato dall’Istituto centrale, che a sua volta prende i soldi dai vari Istituti diocesani per il sostentamento del clero. I sacerdoti ogni anno compilano un modulo nel quale indicano il servizio svolto. L’Istituto centrale calcola il punteggio e stabilisce il sostentamento dovuto, composto dalla somma tra il contributo della parrocchia, eventuali altre attività e l’integrazione dell’Icsc. Il minimo, come detto, è di 988,80 mensili, il massimo di1866,36, sempre lordi. Un esempio: un sacerdote con 15 anni di messa, parroco di una parrocchia di 2 mila abitanti percepisce circa 140 euro dalla parrocchia e 800 euro dall’Icsc. Se prende 200 euro dalla scuola in cui insegna religione, l’Istituto gli verserà solo 600 euro.(cric)
Mattino Padova