Preti sposati / Necessità di ripensare l’obbligo celibatario dei sacerdoti

Necessità e possibilità di rivedere i percorsi con cui la Chiesa si occupa della formazione dei suoi sacerdoti

Il movimento dei sacerdoti lavoratori sposati diffonde un intervento di Gilberto Borghi (ora collaboratore del portale vinonuovo.it, che ha esperienza sulla questione per essere stato in passato prete in servizio).

È evidente che la base su cui appoggiare una solida formazione dei preti è una vera e sana spiritualità, che dà corpo ad una fede sincera. Questo lo do per scontato, anche se non sempre lo è, perché ritengo che ci siano altre quattro parole chiave su cui la loro formazione vada ricostruita.

Solida armonia umana. È l’esigenza più evidente, che molti ormai di loro non possono più negare. Ma anche da fuori, sempre più, la percezione media che si ha dei nostri preti è quella di persone che umanamente faticano a trovare una armonia interna sciolta, fluida, che lasci il profumo della pienezza e maturità umana. Spesso lasciano invece traccia di forzature umane, di fatica a mantenere l’equilibrio, di una necessità alta di compensazioni non sempre sane, né soprattutto molto consapevoli. Non si pretende che siano persone pienamente risolte, nessuno lo è mai. Ma il ruolo che ancora viene chiesto loro richiederebbe una solidità umana che pochi invece mostrano di aver raggiunto. Non è pensabile che oggi un prete non sia consapevole delle sue doti e dei suoi limiti, dei suoi meccanismi difensivi e delle possibili ed inevitabili compensazioni sane che possono essere vissute. E questo soprattutto perché possano mostrare una spiritualità dentro all’umano e non nonostante l’umano.

Riconnessione con la comunità. I seminari così come sono strutturati ora, prevedono una frattura tra le comunità da cui la vocazione sorge e quella in cui matura e si sviluppa. Oggi questo è più un problema che una risorsa. Per due motivi. Da un lato perché in questo modo il prete è spinto a concepire sé stesso come “un uomo solo al comando”. Possiamo girarci attorno quanto vogliamo, ma le nostre comunità sono ancora molto “clero centriche” anche perché spesso i preti sono stati educati a pensare sé stessi solo come centro e motore delle stesse. Le conseguenze nefaste per la Chiesa sono evidenti. Dall’altro lato, sul piano umano il prete rischia di percepirsi come un uomo “sradicato” che dovrebbe appagare i propri bisogni umani in un contesto di relazioni “non scelto” e ” a tempo”. Quindi che deve cercare in Dio un radicamento relazionale stabile, come i monaci, anche quando però le condizioni di vita non sono quelle monastiche.

Teologia della gratuità. Al di là dell’appartenenza “politica” a determinate aree teologiche del prete, è innegabile che la formazione teologica media sia ancora centrata su una categoria di relazione con Dio fondamentalmente giuridica. La fatica di moltissimi preti, nel momento in cui si immergono nella pastorale vera, è molte volte quella di trovarsi a pensare Dio con categorie che non sanno rispondere abbastanza alle domande e alle ferite, ai dubbi e alle contestazioni esistenziali che le persone portano. Manca una vera e profonda teologia della gratuità, della misericordia per dirla con Francesco. Manca loro una teologia che sorga dalla e nella vita reale delle persone, non sui banchi di scuola e che metta in grado i futuri sacerdoti di sapere integrare meglio teologia e vita.

Competenza relazionale. Come tutti coloro che ricoprono ruoli fatti essenzialmente di rapporti umani, è impensabile che un prete abbia percorso tratti di formazione specificamente dedicata alla gestione della relazione. Dalla competenza di ascolto, profondo, libero, e pulito, cosa veramente rara nei sacerdoti, alla capacità di consegnare regole in modo né autoritario, né lassista; dalla capacità di empatia umana capace di condividere sinceramente, a quella di sapersi circondare di persone sane, sincere, non ricattatorie, né parassite. Tutto questo è mediamente patrimonio ordinario di chi ricopre ruoli di aiuto alla persona, educativi, organizzativi delle relazioni umani. E perché il prete non deve avere modo di formarsi anche da questo punto di vista? E perché un prete non deve avere, oltre una guida spirituale anche una guida relazionale, che lo aiuti a leggere per lui le dinamiche “sporche” delle sue relazioni e a guardarsi da esse?

Concretamente, però queste quattro “emergenze” formative richiedono alcune condizioni concrete. Dalle strutture formative non più così monolitiche e “a parte”, agli operatori vocazionali con un tasso di competenze educative e di solidità umana molto maggiori di quello che mediamente si trova oggi. Da percorsi formativi in cui l’esperienza sul campo, sia molto più presente della riflessione sui libri, a forme e soggetti di discernimento vocazionale che sappiano “vedere” molto di più la maturazione complessiva della persona che non solamente quella specifica del ruolo sacerdotale. Da maestri di spiritualità che sanno tenere i piedi per terra, in questo frangente storico, alla necessità di ripensare l’obbligo celibatario dei sacerdoti.

vinonuovo.it

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