Preti sposati e teologia

Egregio Direttore,

avete ospitato in questi giorni nella rubrica «la voce dei lettori» alcuni interventi di Alberto Giannino e Ernesto Miragoli su vari temi: chiesa, teologia, teologi, preti sposati ecc.

Le invio alcune idee suggeritemi da un testo del teologo Severino Dianich. Il teologo ha un ruolo pubblico nel dibattito civile e politico italiano.
Lo studio della teologia non può prescindere dall'attenzione alle responsabilità pastorali, ma non può con questo esimere gli allievi dalla fatica del pensare e del ricercare.

 

«Se si parte dalla grande vivacità e capacità creativa della teologia del tempo del Concilio e di quello immediatamente successivo, oggi indubbiamente siamo in un periodo di stanca. Se però consideriamo lo sviluppo della teologia in un arco temporale più lungo, allora la valutazione cambia. Cent'anni fa il termine stesso di teologo era desueto nel linguaggio comune e in quello ecclesiale. Per la cultura diffusa era una figura inesistente. Oggi no.

 

Nonostante tutto, la voce dei teologi è molto più presente nel dibattito pubblico. Sul quadrante nazionale va inoltre notato che una teologia italiana nasce solo dopo il Vaticano II, emergendo dalla precedente modestia delle scuole dei seminari, con la nascita di nuove facoltà teologiche e delle associazioni. Ma dopo tutto la creatività e la ricchezza riscontrata a cavallo del Vaticano II, e immediatamente dopo, non c'è più perché semplicemente non ci sono grandi personalità.

È anche vero che dopo il Concilio è subentrata una più forte preoccupazione per l'ortodossia, del tutto comprensibile davanti a tante novità e al convulso movimento di idee che lo ha seguito, ma che, pur del tutto legittima, ha anche prodotto forme di autocensura, di mortificazione della creatività, di timori che pesano nel lavoro del teologo. A questo va aggiunto il ruolo dei media che, in ragione delle loro logiche, tendono a enfatizzare gli aspetti più contraddittori e personalistici di quello che dovrebbe essere considerato un normale dibattito, per cui un articolo critico de L'Osservatore romano diventa "la condanna di Roma" e una modesta diversità di valutazioni viene immediatamente presentata come una contestazione del magistero.


Anche per questo motivo alcuni vorrebbero che ogni discussione restasse privata e non apparisse sui media. È un desiderio comprensibile, ma di fatto irrealizzabile. In un tempo in cui nulla rimane segreto, l'opinione pubblica nella Chiesa non può restringere i suoi spazi per ragioni d'opportunità. Abbiamo invece bisogno di spazi di discussione, improntati all'assoluto rispetto, allo spirito di tolleranza e alla fiducia che dalla dialettica dei pareri possa nascere un cammino condiviso». La fede vive del primato della coscienza e della libertà personale. Né una società né una cultura aderiscono alla fede, ma è la persona che incontra la comunità ecclesiale. L'offerta della fede, diretta e semplice, di credere che Gesù è risorto e dà senso all'esistenza, è proposta all'individuo: condizione necessaria è la fiducia fra gli interlocutori.
   
Poi la comunità al suo interno, in obbedienza alla Scrittura e alla tradizione della fede, elabora l'esperienza, ne concettualizza e sistematizza i contenuti, ne raccoglie e ne ricava congrui imperativi etici e ne assicura l'autentica trasmissione attraverso il dogma. Essa inoltre condivide interrogativi, ricerche, domande sul senso che si muovono nella società. Cerca il dialogo e la possibilità di un ragionamento comune.

      Tutto questo avviene all'interno di una certa cultura, con l'uso della ragione.

«La fede si occupa del bene dell'uomo e al credente preme il bene comune. L'attività legislativa all'interno della vita politica incide fortemente sul bene comune e, quindi, i credenti vi sono coinvolti anche in nome della loro fede. Il problema più intricato nel quale oggi ci dibattiamo deriva dal fatto che fra cattolici c'è consenso sui valori a cui tendere, per esempio sulla necessità di difendere e salvare la dignità della persona umana, la vita, la famiglia. Non sempre c'è un consenso sulle attitudini di questa o quella proposta legislativa a raggiungere lo scopo o, almeno, a evitare mali maggiori.

La mancanza di un consenso in questi casi non dipende dalla mancanza di una fede comune né dalla volontà di sottrarsi alle indicazioni del magistero le quali, ovviamente, delineano il valore irrinunciabile da perseguire, mentre il giudizio sugli strumenti da adottare si colloca di per sé sul piano tecnico giuridico e politico. Certamente è difficile stabilire un taglio netto fra i due ambiti, per cui sembra soprattutto desiderabile nella Chiesa l'esercizio del confronto e del dialogo fra pastori e laici e fra credenti dalla sensibilità diversa».

don Giuseppe  – lettera a lavocedivenezia.it

 

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