Ebraismo: nella carne l’esperienza del divino

in Jesus Agosto 2008

L’antropologia ebraica, profondamente ancorata alla visione biblica dell’uomo, comprende il corpo nell’orizzonte dell’unità della persona creata a immagine di Dio, dove corpo e spirito costituiscono i due aspetti di un’unica realtà inscindibile: l’essere umano definito come nefesh chajiah, «essere che vive», del quale il corpo (in ebraico basar) costituisce l’aspetto visibile. Quando si parla di nefesh nella Scrittura si intende sempre l’essere vivente, l’essere che «respira», quindi la creatura nella sua unità di corpo (basar) e spirito (ruach): il termine nefesh infatti designa l’essere stesso dell’uomo (e della donna), non qualcosa che egli possiede, e quando lo si utilizza non ci si riferisce a una sua parte specifica, bensì all’uomo determinato, inteso come soggetto, individuo, persona, tutto l’essere umano capace di "anelito" verso Dio (cfr. Sal 41,2) perché ha in sé il "respiro", il "soffio" che Egli stesso gli ha dato creandolo come "unità" irripetibile (cfr. Genesi Rabbah XIV,9). Attraverso il corpo, pertanto, si manifesta l’unicità di ogni essere umano il cui centro vitale è il cuore, considerato la sede dei sentimenti, della volontà e della ragione.

Secondo tale prospettiva, che esclude qualsiasi forma di dualismo, il benessere psicofisico è un valore positivo che va raggiunto, secondo un sano equilibrio, evitando sia gli eccessi che le inutili privazioni: la tradizione rabbinica insegna che, nell’aldilà, saremo giudicati non solo per le nostre mancanze ma anche per i "sani piaceri" dei quali ci siamo privati senza che Dio ce lo abbia chiesto (cfr. Talmud Palestinese, Qiddushin 66d). Il corpo è pertanto considerato una realtà positiva in quanto creato da Dio e, se utilizzato secondo i Suoi insegnamenti, costituisce un aiuto prezioso nel cammino di comunione con Lui: lo spirito non solo non ha bisogno di separarsi dalla carne per sperimentare il divino, ma si serve della medesima per farne esperienza in maniera completa. Un esempio significativo al riguardo è il Cantico dei Cantici, testo biblico nel quale il Nome di Dio non compare, tuttavia, secondo l’interpretazione rabbinica, Egli è presente nel rapporto d’amore sponsale che viene celebrato attraverso il linguaggio sia verbale che corporeo, mostrando come l’amore coniugale possa diventare un’esperienza mistica, tanto da spingere maestri come Rabbi Aqiva a paragonare il Cantico dei Cantici al "Santo dei Santi", cioè alla parte più sacra del Tempio di Gerusalemme (cfr. Mishnah, Jadajim III,5), e questo non in virtù della sua possibile lettura allegorica ma proprio per il suo essere un canto d’amore autentico che nasce dal sapersi incontrare attraverso il dono reciproco del corpo, la cui "bellezza" non è riferibile soltanto a canoni estetici ma scaturisce dalla capacità di mostrare quella interiore poiché, come ricorda Rabbi Nachman di Breslav: «In tutte le cose materiali ci sono scintille spirituali».

Elena Lea Bartolini
docente di Giudaismo al Centro studi
del Vicino Oriente di Milano

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