L’addio del papa nero. L’ultima intervista di padre Kolvenbach

Dopo ventiquattro anni alla guida dei Gesuiti, nel 2006 padre Kolvenbach ha deciso di dare le dimissioni, facendo uno strappo alla regola dell’Ordine, che prevede un “generalato” a vita. Prima di “lasciare”, però, il superiore della Compagnia di Gesù ha tracciato un bilancio della sua lunga avventura in questa intervista con Renzo Giacomelli per Jesus e Famiglia Cristiana.

Lei ha convocato la 35ª Congregazione generale della Compagnia di Gesù, che incomincerà a Roma nel gennaio 2008 e si occuperà, tra l’altro, dell’elezione del suo successore. Quali le ragioni del cambiamento della vostra regola che prevedeva, finora, il Generale a vita?

«In realtà, le nostre Costituzioni già stabiliscono che il superiore generale dia le dimissioni qualora non si senta più all’altezza delle sue responsabilità. Può capitare, ad esempio, a motivo dell’età avanzata, con le sue conseguenze sulla salute. I miei predecessori, che non potevano beneficiare della moderna medicina, raramente superavano i 70 anni di età. Il mio immediato predecessore, padre Pedro Arrupe, propose le sue dimissioni all’età di 73 anni. Quando, nel gennaio 2008, io presenterò le mie dimissioni alla Congregazione generale, sarò già entrato nell’ottantesimo anno di età. D’altra parte, lo stesso Santo Padre, i provinciali e alcuni consiglieri vigilano che il superiore generale svolga il suo incarico, finché possibile, “ad vitam”, anche se per una famiglia religiosa l’arrivo di sangue nuovo è una vera grazia di Dio».

D’accordo, le vostre Costituzioni prevedono che il Generale dei Gesuiti dia le dimissioni se non si sente più all’altezza del compito, ma nella prassi il “papa nero” finora è rimasto tale a vita.

«Il mio predecessore, padre Arrupe, propose di dimettersi quando aveva 73 anni. Giovanni Paolo II ne bloccò le dimissioni perché preferiva contare su un “papa nero” noto anziché su qualcuno che non conosceva».

Per decidere le sue dimissioni, lei ha chiesto l’autorizzazione del Papa?

«Avevo sollevato la questione già con Giovanni Paolo II. Lui mi chiese che, qualora avessi preso la decisione di dimettermi, ne parlassi con lui prima di annunciarlo alla Compagnia. Naturalmente, ho affrontato il tema anche con Benedetto XVI, il quale si è detto d’accordo con la mia decisione».

Crede che la prossima Congregazione generale detterà precise misure in materia?

«La mia impressione è che nella Compagnia di Gesù non ci sia un orientamento maggioritario a cambiare la prassi del generalato a vita. Nello stesso tempo, credo che la Congregazione generale supererà la completa soggettività prevista ora in questa materia. Cioè non lascerà ogni decisione al superiore generale e potrebbe prevedere, ad esempio, che il papa nero lasci al compimento dell’ottantesimo anno o dopo venti anni di governo».

Lei è al governo della Compagnia di Gesù da quasi 24 anni. Quali le gioie e i dolori di questo lungo generalato?

«Ho avuto la gioia e il privilegio di poter far visita ai confratelli un po’ ovunque nel mondo e di vedere come essi servono il loro Signore annunciando la Buona Novella in tante situazioni materialmente difficili o psicologicamente dure. A volte, venire in aiuto ai cristiani in una condizione di miseria o di palese oppressione è più gratificante che predicare nel deserto dell’indifferenza e del vuoto religioso. È una gioia scoprire in tutte queste situazioni che il Signore della vigna vuole aver bisogno di noi per offrire il suo amore agli uomini e alle donne del nostro tempo e servirsi dei Gesuiti per continuare la sua missione in una grande varietà di opere pastorali e sociali, spirituali e pedagogiche, di accompagnamento personale e di comunicazione di massa. Accanto a queste gioie, c’è il dolore di non poter rispondere a tutte le richieste e a tutti i desideri del Signore della vigna. I 20 mila Gesuiti (con i 900 novizi) non possono che piantare e annaffiare qui e là, agendo in comunione con tutte le forze vive della Chiesa, e poi pregare che il Signore doni fecondità in abbondanza».

Oggi i Gesuiti sono circa 20 mila, ha appena ricordato. Nel 1965, alla fine del Vaticano II, eravate più di 36 mila. Il calo delle vocazioni riguarda quasi tutti gli Ordini e istituti religiosi. Non è un chiaro segno della profonda crisi della vita consacrata?

«Sono convinto che la vita religiosa debba essere sempre in crisi, se vuole davvero essere in ascolto dello Spirito, che non è un tipo tranquillo. Non basta seguire le Costituzioni, le regole, per avere un futuro assicurato. Occorre essere capaci di discernimento, per cogliere quello che il Signore, nelle diverse circostanze della vita e della storia, vuole da noi. Ad esempio, può chiedere a un gruppo di consacrati uno specifico impegno in un determinato tempo; esaurito quell’impegno, quel determinato istituto religioso può scomparire. Non è una novità nella storia della Chiesa».

Potrebbe scomparire la vita consacrata come tale?

«Nei primi secoli, la Chiesa poggiava su due pilastri, il clero e il laicato. Quando la Chiesa rischiò di confondersi con l’Impero, lo Spirito Santo suscitò i monaci nel deserto per richiamarla al valore della spiritualità, della preghiera. Quando la Chiesa subì la tentazione della ricchezza e del potere, lo Spirito chiamò Francesco d’Assisi per ricordare ai cristiani che devono essere testimoni del Signore povero. Quando la Chiesa parve chiudersi in confini geografici e culturali noti, lo Spirito suscitò Ignazio di Loyola per richiamarla al dovere della missione. No, non credo che alla Chiesa mancherà mai il dono della vita consacrata. Il numero delle vocazioni può preoccuparci, ma io sto con sant’Ignazio: conta la qualità più che la quantità».

Nel 2003 lei ha comunicato alla Compagnia cinque «priorità apostoliche». Tra queste, uno speciale impegno per la Cina. Perché proprio la Cina?

«Le grandi celebrazioni dello scorso anno hanno mostrato chiaramente la popolarità di san Francesco Saverio, morto alle porte della Cina. Egli non poteva considerare conclusa la sua missione senza far conoscere alla Cina la Buona Novella di Cristo. Sarà l’italiano Matteo Ricci, di Macerata, a riuscire in seguito a intavolare il dialogo con i cinesi al massimo livello della loro cultura. La sua parola-chiave era “amicizia”, nella convinzione che i cinesi avessero qualche cosa da insegnargli e nella certezza di avere un tesoro da offrire loro. Questo orientamento nell’incontro con l’immensa Cina è stato ricordato da Giovanni Paolo II, che esortò a non imporre nulla ma a proporre tutto. Le università cinesi sono aperte ai ricercatori del mondo accademico e tecnico, e sono particolarmente desiderose di discutere argomenti religiosi e cristiani, come hanno mostrato in recenti congressi. La porta è aperta anche a ciò che Giovanni Paolo II chiamò “la fantasia della carità” cristiana, desiderosa di aiutare, ad esempio, i lebbrosi e i ciechi, che in Cina sono numerosi e piuttosto emarginati. Inoltre, anche in Cina il crollo delle ideologie ha aperto la porta a una richiesta di spiritualità. Colui che vi si reca unicamente per servire in tutta gratuità, troverà accoglienza e amicizia».

Come si stanno preparando i Gesuiti alla possibilità di una maggiore presenza in Cina?

«C’è un certo numero di giovani Gesuiti desiderosi di lavorare in Cina. Per ora si preparano imparando il cinese. In Cina abbiamo già qualche attività di tipo culturale. A Pechino c’è un Centro per la lingua e la cultura frequentato sia da cinesi che intendono lavorare all’estero sia da stranieri impegnati in Cina. È un centro riconosciuto ufficialmente. Vi lavorano tre Gesuiti».

In un libro-intervista anni fa (Fedeli a Dio e all’uomo, edito dalla San Paolo), lei indicava nella secolarizzazione e nella crescente indifferenza religiosa le maggiori sfide per la Chiesa e quindi per la Compagnia. Sono sfide ancora attuali? E quali altre sfide intravede?

«I Gesuiti si sono sempre riconosciuti nella figura di san Paolo. Mentre san Pietro era chiamato a confermare i suoi fratelli nella comunione ecclesiale, san Paolo si sentì inviato a portare il cuore della Chiesa oltre ogni frontiera. Frontiere che possono essere geografiche: oggi in gran parte dell’Asia la fede cristiana non è ancora una presenza viva. A volte si dimentica che soltanto un terzo dell’umanità professa il Cristo Signore nelle confessioni cattolica, ortodossa o protestante. E poi ci sono le frontiere culturali: sono sotto i nostri occhi società, un tempo modellate dalla fede cristiana, che si allontanano dal cristianesimo per difendere una laicità nella quale i valori del Vangelo sono marginali. Benedetto XVI ha recentemente ricordato un’altra frontiera, quella del rapporto tra la fede e la ragione, chiamate non a una separazione, ma a un arricchimento reciproco. Di fronte a queste frontiere, o sfide, non ha perso nulla della sua attualità la missione dei Gesuiti di annunciare la Buona Novella ovunque il Signore morto e resuscitato non è conosciuto o è conosciuto male».

Negli ultimi anni si parla di «ritorno di Dio» o di «rivincita di Dio». È davvero in crescita la domanda religiosa?

«Come parlare di un ritorno, se gli eventi mostrano che Dio non è mai partito dai cuori degli uomini né dalla vita dell’umanità? Ci sono momenti in cui si crede di poter vivere come se Dio non esistesse, ma improvvisamente l’uomo si trova di fronte a una difficoltà insormontabile, a una crisi etica, e il ricorso alla spiritualità si fa sentire. Già i nostri antenati dicevano che la disperazione fa pregare. A dire il vero, i grandi problemi del terrorismo e del sottosviluppo, della carestia e dell’ambiente potrebbero avere una soluzione grazie al progresso tecnico. Possiamo distribuire più equamente i frutti della terra e fermare la fabbricazione di armi atomiche, ma non lo vogliamo davvero. Non siamo di fronte a una impossibilità di ordine scientifico o tecnico, ma a un blocco dei nostri cuori, che sono diventati di pietra: solo la presenza cosciente o inconsapevole di Dio, che per noi è amore, può trasformarli in cuori di carne e di carità. Il ritorno di Dio, che si manifesta oggi in molti fenomeni religiosi, ci dice, in modo a volte confuso ma concreto, che se Dio non costruisce la città con noi, invano perseguiamo il nostro fine».

Non le sembra che, alla crescente domanda religiosa, si accompagni una crescita del fanatismo nelle varie religioni?

«Il fanatismo religioso, il fondamentalismo e l’integralismo hanno in comune una resistenza, spesso aggressiva e violenta, contro tutto ciò che è nuovo e moderno nella società umana. Tutti questi movimenti lottano contro l’evoluzione e l’opinione dominante, imponendo come unica soluzione il ritorno alla tradizione, alle abitudini di un tempo. Ogni modifica nel nostro stile di vita, nella nostra scala di valori, come nella nostra fede in Dio, può provocare una resistenza, a volte fanatica, che fa appello alla lettera della legge o al carattere sacro di un’abitudine. Poiché siamo in un periodo di cambiamenti, questo fenomeno è in aumento. Anche se il cambiamento è puramente di ordine politico o sociale, la resistenza può essere manipolata facilmente facendola penetrare nell’ambito religioso. Questa manipolazione del religioso per scopi politici avviene spesso in Medio Oriente».

È una manipolazione che sta avvenendo anche in Libano, Paese che lei conosce bene, essendoci vissuto per un quarto di secolo?

«Il Libano conta circa 18 comunità che, in uno Stato democratico (raro in Medio Oriente), sono chiamate a essere un “messaggio”, come diceva Giovanni Paolo II, per uomini e donne che, nonostante una sconcertante differenza di religioni e tradizioni, possono vivere insieme. Purtroppo, tutte queste comunità non sempre resistono alla tentazione di dominare gli altri, stringendo alleanze con potenze al di fuori del Paese. In Medio Oriente ci sono tanti conflitti: tra cristianesimo e islam, tra gli Stati ricchi e quelli poveri del mondo arabo e, oggi soprattutto, tra l’Occidente e Paesi come l’Iraq e l’Iran. Tutti questi conflitti hanno ripercussioni in Libano dove, facilmente e in tutta libertà, questa o quella comunità si lascia coinvolgere. Inoltre, il Libano vive all’interno di frontiere per niente riconosciute dai suoi vicini. Questa fragilità politica fa vivere il Libano sempre sul filo del rasoio di una guerra, se non fosse per i tanti libanesi che, nonostante tutto, credono nell’avvenire del Paese e nel suo messaggio di convivialità. Essi meritano l’appoggio e il sostegno di noi tutti».

Ma l’attuale situazione del Libano non è la prova che il dialogo e la convivenza tra cristiani e musulmani sono di fatto impossibili?Sono i fanatismi religiosi o le ideologie politiche a creare i presupposti del temuto scontro di civiltà?

«Samuel Huntington ha coniato l’espressione “scontro di civiltà” pensando prima di tutto al conflitto tra la società occidentale e la cultura islamica, di cui fa parte la presenza o l’assenza di alcuni simboli religiosi: il velo, per esempio. L’autore pensa a due blocchi, l’islam e l’Occidente, condannati ad affrontarsi. In realtà questi due blocchi monolitici non esistono. Già la situazione in Iraq mostra che l’islam non è uno solo. Altrove musulmani moderati intavolano un vero dialogo con il mondo occidentale che, a sua volta, è di una grande varietà. Il cristianesimo vissuto negli Stati Uniti non è affatto identico a quello conosciuto in Europa. Quindi, nell’incontro delle culture e delle ideologie, delle correnti religiose e delle scuole di spiritualità, c’è sia una fonte di vita sia uno spazio di confronto. Siamo noi che dobbiamo scegliere».

Non le sembra che il dialogo ecumenico e quello interreligioso siano in una fase di stallo?

«Non mi pare. Il dialogo ecumenico è diventato a tal punto una dimensione delle Chiese del Signore, che gli incontri tra cristiani o la presenza di altri cristiani in un evento “cattolico” non meravigliano più. E questo è un fatto positivo. È vero che non si sente più la divisione dei cristiani come un fatto scandaloso, mentre il Signore stesso ha pregato che noi fossimo tutti uniti in Lui. La nostra risposta alla preghiera del Signore non può consistere nell’accettare la divisione come un dato di fatto al quale rassegnarsi. Dobbiamo pregare e agire perché tutti siano uno come e quando lo vuole il Signore. Il dialogo interreligioso attira di più l’attenzione, perché la politica si fonde notevolmente nella coesistenza più o meno pacifica delle grandi religioni. Riunendosi con i rappresentanti delle diverse religioni ad Assisi, Giovanni Paolo II è riuscito a far sì che quelli che credono si uniscano nell’esigenza, per esempio, di non uccidere nessuno nel nome di Dio. Il dialogo religioso è un contributo importante alla pace nel mondo».

Renzo Giacomelli per Famiglia Cristiana

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