Il cardinal Alencherry e l’omelia sul celibato dei sacerdoti

L’affettività è il vertice dell’attitudine umana alla cooperazione, la versione più alta e sofisticata dell’inclinazione a interagire coi nostri simili, l’ingrediente che ci rende ciò che siamo. Sebbene non appaia in modo esplicito nei titoli di testa, proprio l’affettività sembra l’ospite d’onore di questo Sinodo, luogo dove papa Francesco cerca di accogliere ciò che sale dalla persona, così da ricomporla nella sua interezza. Egli crede fermamente in una Chiesa compagna di viaggio solidale dell’umanità, e non ossessiva redattrice di regole condominiali, con le quali decidere finanche il colore degli zerbini o gli orari della stesura del bucato. Dispute dottrinali esteticamente inappuntabili, non fosse per il particolare che troppo spesso lasciano la persona fuori dalla porta. Nei giorni precedenti l’ultima Settimana Santa, durante l’udienza concessa ai teologi di vari istituti, tra i quali quelli provenienti della Pontificia Università Gregoriana, Francesco non aveva lasciato spazi alle pretese ludiche di tanti suoi confratelli-pensatori: «Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre», aveva esordito il Papa, ma era solo un assaggio: «E il teologo che non prega e che non adora Dio finisce affondato nel più disgustoso narcisismo. E questa è una malattia ecclesiastica. Fa tanto male il narcisismo dei teologi, dei pensatori, è disgustoso». Memore di quella ruvida lezione di realismo impartita dal Pontefice ai teologi, mi sono domandato cosa pensasse mentre ascoltava l’omelia del cardinale George Alencherry, Presidente del sinodo della Chiesa siro-malabarese (India). Il tema era il celibato dei preti. Campeggiava l’idea di sofferenza, quasi fosse una precondizione indispensabile per esercitare il sacerdozio. Il prelato si rifaceva all’esperienza di Geremia, chiedendo ai preti, come accadde al Profeta, di non prendere moglie. «I pastori della Chiesa oggi sono chiamati ad assumere sulle proprie vite un ruolo di sofferenza simile a quella di Geremia». Poesia, estranea alla quotidianità dei sacerdoti, di oggi e non dell’antico testamento. Ai tempi di Geremia l’uomo conosceva poco di se stesso e ancora meno della natura, faticava persino a darsi conto delle lucine appese sulla volta celeste che la notte lenivano il suo senso di smarrimento. Ai nostri giorni, i discendenti di quegli uomini semianalfabeti, la cui speranza di vita era di una ventina d’anni, cominciano a ipotizzare che, per quanto profondo quasi 14 miliardi anni luce, il loro universo potrebbe non essere il solo. Presto useranno computer quantistici nel cui ambiente un’affermazione può essere vera e falsa nello stesso tempo. La loro testa e il loro cuore si modellano in un ambiente che non somiglia in nulla a quello di allora, e l’ambiente è uno degli ingredienti principali, se non il più importante, nella formazione della personalità. Dunque non è un uomo immutabile quello con cui abbiamo a che fare, ma una creatura in continua evoluzione, da leggere con la sapienza di osservatori instancabili e capaci di modificare le proprie idee su di esso, ove ricorrono le condizioni. Ci si chiede com’è possibile non tenere conto di tutto questo, ricadendo sempre nei medesimi errori, che nel caso di molti anziani cardinali significa estensione indebita della loro condizione interiore (anche ormonale) a quella di giovani che senza l’amore perderebbero per sempre la speranza di sapere chi sono.

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