Nell’edizione definitiva dei Promessi sposi, pubblicata a fascicoli tra il 1840 e il 1842 e illustrata da Francesco Gonin, la figura della Monaca di Monza si affaccia sette volte in abiti monacali: cinque nei capitoli IX e X, dedicati all’incontro con Lucia e alla ricostruzione psicologica di Gertrude, una nel XX (in prossimità del rapimento, quando la Signora chiede alla giovane sventurata di fare un’“imbasciata”), un’ultima nel XXXVII, quando Manzoni riannoda i fili dell’invenzione letteraria con i tratti reali di suor Virginia Maria de Leyva, riportando le notizie conclusive di quella “trista storia”: accuse, processo, condanna, ravvedimento. E per legittimare il discorso dal punto di vista storico (ma anche per delegare ad altre discipline il compito di far cronaca) chiama a testimone Giuseppe Ripamonti.
Poco importa che tra la vicenda documentata e i fatti del romanzo ci sia uno sfasamento di tempo: nel 1630, quando si concludono le peripezie di Renzo e Lucia, la Signora ha già scontato la sua pena nella cella del convento di via Santa Valeria, a Milano, dov’è rimasta murata tra il 1608 e il 1622, anno in cui viene liberata. Poco importa perfino che tra la Geltrude del Fermo e Lucia e la Gertrude dei Promessi sposi corra una certa distanza in termini di varianti narratologiche e che l’eccesso divagatorio venga temperato da un ripensamento ellittico.
Quel che conta è l’esemplarità del soggetto narrato, non il pedante rispetto delle fonti e c’è sicuramente un motivo se fra le illustrazioni finite tra le pagine della Quarantana solo nell’ultima la Signora è raffigurata in ginocchio, a mani giunte, di fronte a un crocifisso e a un breviario: espressione inconsueta rispetto alle precedenti che ci hanno abituato ad atteggiamenti non sempre conformi allo status religioso.
Sappiamo bene quanto abbia esitato Riccardo Bacchelli nel giustificare se fosse davvero necessario sussurrare alle orecchie di una Lucia ormai salva l’epilogo toccato a suor Virginia, facendo così uscire il personaggio dalle stratigrafie del romanzo e incanalandolo nelle pieghe anonime del reperto storiografico. Ma è la sua natura contraddittoria a prendere il sopravvento sia nei capitoli del libro che nei disegni di Gonin; una natura capace di concentrare su di sé romanzo gotico e bildungsroman e che con grande probabilità ha tenuto sulle spine il suo autore, indeciso se assolvere o condannare, se sopprimere dal suo capolavoro una vicenda così turpe o se, meglio, relegarla a «quegli accenni così sapienti e suggestivi», come scrisse Michele Barbi.
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