La rete intrappola la democrazia paolo-ercolani-figli-di-un-io-minore-recensione

di ANTONIO CECERE – MicroMega

Paolo Ercolani è tornato, in Figli di un io minore (Marsilio 2019), a riesaminare, da una prospettiva alternativa a quella popperiana, il rapporto fra democrazia e conoscenza. Vi si collega una proposta di costruzione di una nuova società della conoscenza che merita di essere attentamente valutata.

A distanza di sette anni da L’ultimo di Dio (Dedalo 2012), Paolo Ercolani torna ad approfondire un tema essenziale per il dibattito intellettuale e politico dei nostri giorni: la democrazia intrappolata nella rete. Il filosofo romano è impegnato da anni nello studio e nell’analisi dei processi politici e dei cambiamenti in seno alle democrazie occidentali in virtù dell’impatto dei nuovi media.

In questo saggio l’analisi si allarga a tematiche antropologiche e pedagogiche, frutto di anni di confronti con studenti e di una propria esperienza diretta nel mondo virtuale dei social networks.

Il libro è suddiviso essenzialmente in due parti: una prima è costituita da un’importante prefazione di Luciano Canfora e dai sei capitoli che l’autore ha strutturato in modo che siano leggibili anche da un pubblico non specialista; nella seconda parte, pensata per un circuito di studiosi, l’autore elabora un impianto di note molto consistente e soprattutto una bibliografia aggiornatissima e di grande  respiro internazionale.

Nella prefazione (pp. 7-9) Luciano Canfora mette in evidenza l’argomento più radicale e corrosivo del saggio di Ercolani, ovvero l’idea che il suffragio universale, vero totem delle democrazie moderne, abbia mostrato tutta la sua natura superflua, confermando la teoria secondo la quale la rete, il massimo strumento di comunicazione di massa, non produca maggioranze rivoluzionarie, ma, al contrario, sia un veicolo di consolidamento per le élite più reazionarie.

Nel primo capitolo (pp. 27-84), L’uomo senza pensiero, Ercolani fa i conti con la vulgata popperiana che tanto aveva contribuito a fomentare illusioni circa l’avvento di una società aperta, quando il web cominciò a mostrare la propria vocazione di strumento di massa. L’autore, grazie a una scrittura agile e comprensibile, ma allo stesso tempo tagliente, riesce a cogliere con precisione tutte le più evidenti contraddizioni fra le speranze dei primi osservatori del fenomeno web negli anni ottanta e la realtà dei giorni nostri. L’aver puntato sulla difficoltà del libero pensiero nella società attuale pone l’analisi del testo all’interno della già consistente letteratura sociologica di un maestro come Edgar Morin, il quale aveva già notato come lo «Tsunami di informazioni», che  piovono ogni giorno sui nostri dispositivi tecnologici, invece che favorire riflessioni e partecipazione al dibattito pubblico, favorisce una passiva acquisizione di slogan buoni per un atteggiamento da sostenitore di idee altrui.

Il secondo capitolo, Il Dio cattivo (pp. 85-124), è un dipinto a tinte fosche del sistema capitalistico quale unico dio dell’umanità nel XXI secolo. In alcuni efficaci passaggi, l’autore condensa tutta la critica sociale al capitalismo, dicendo che «Questo Dio provvidenziale che è il mercato richiede al suo cospetto un uomo che si affidi alle sue virtù salvifiche, che segua in maniera acritica i suoi dogmi, tanto sul piano sociale quanto su quello individuale, e che tragga dagli stessi quei valori su cui regolare l’intero vissuto» (pag 93). La trasformazione da Homo democraticus in Homo aeconomicus è avvenuta dunque nell’atto di sottomissione dell’uomo moderno all’ideologia del mercato. L’homo rationalis ha dismesso i panni dell’homo faber, il lavoratore titolare dei diritti costituzionali che, attraverso la propria opera, persegue il proprio benessere e contribuisce a costruire il bene comune, e si è prestato a divenire un operatore acritico del sistema capitalista. Questa nuova condizione umana è soggetta alle condizioni del mercato a tal punto che il cittadino consumatore pensa la propria felicità solo in relazione alle cose che possiede e alle possibilità che ha di consumare gli oggetti prodotti dalla città-fabbrica che abita in continua tensione agonistica con tutti gli altri suoi simili. Ma è proprio questo il capolavoro del mercato secondo Ercolani, il quale, infatti, dice che «l’individuo consapevole dei propri limiti, che ha ben chiaro di conoscere soltanto l’ambito ristretto dei suoi scopi ed interessi, ignorando quelli di tutti gli altri, deve lasciare che sia l’ordine spontaneo prodotto dal mercato autoregolantesi a costruire in maniera evolutiva la società migliore e più libera per tutti gli uomini» (p. 101). L’autore, con mirabile tratto di penna, mette a nudo il fallimento della modernità che ha abdicato al mito illuminista del progresso, inteso come crescita dell’autonomia del soggetto, preferendo, per la costruzione della società nuova, lo schema aziendale dello sviluppo. Per questo Ercolani sostituisce al mito del giardino dell’Eden, dove il Dio biblico caccia l’uomo che ha osato cogliere il frutto della conoscenza, un «Dio cattivo» che estromette l’uomo che osi pensare di costruire una società secondo le proprie necessità vitali invece che adeguarsi alle dinamiche del «naturale ordine spontaneo assicurato dal mercato» (p. 102).

Nel terzo capitolo, La gaia incoscienza (pp. 125-158), la riflessione antropologica si spinge ad analizzare l’impatto dei nuovi media sulle capacità cognitive del singolo uomo, riaprendo un confronto con i grandi pionieri della sociologia della comunicazione come McLuhan e Carr (pp. 127-135). Nella severa analisi, Ercolani vede che «l’individuo viene spinto a desiderare e a comprare in base a ciò che gli propone la pubblicità e a quello che desiderano e comprano gli altri» (p.128), e questo succede grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, sempre più pervasivi e presenti nelle nostre vite fino a diventare un’appendice del nostro corpo. I nuovi strumenti tecnologici, facili da usare e maneggevoli, diventano un surrogato pedagogico che spesso sostituisce la voce materna nel rispondere alle domande precoci dei bambini. L’autore osserva che, attraverso questi strumenti, i fanciulli vengono indirizzati velocemente alla loro futura occupazione che è quella di «diventare abili consumatori» (p. 128).

Ercolani si inserisce a pieno titolo fra i più seri studiosi del rapporto tecnologia-fisiologia, aderendo all’idea di McLuhan che «sul piano fisiologico l’uomo è costantemente modificato dall’uso normale della tecnologia (o del proprio corpo variamente esteso» (p. 132).

Il paragrafo che dà il titolo al libro, Figli di un io minore, si concentra in modo approfondito sulla questione davvero sentita della condizione dei giovani di fronte al cambio di prospettiva, anche identitaria, che la tecnologia sta apportando alle relazioni umane. Questo paragrafo introduce temi di psicologia e di pedagogia di grande attualità che rendono il testo una lettura imprescindibile per educatori e per genitori attenti al proprio ruolo.

Siccome nessun filosofo può scrivere dei trattati esaustivi su argomenti complessi come quello del libro che stiamo analizzando, perdoniamo all’autore di aver mancato un riferimento importante allo studio di Roland Barthes sul «Senso della moda» (ultima edizione, Einaudi 2006), uno studio pionieristico sulla pubblicità quale linguaggio capace di creare interi stili di vita, e divestizioni, partendo da un uso di modelli semantici puramente virtuali. Roland Barthes è il primo che ha visto bene come la Pubblicità si sia fatta sistema, linguaggio, identità collettiva, superando l’idea di un sistema di reclamizzazione di oggetti e diventando, di fatto, essa stessa, il sistema unico della produzione di senso della società contemporanea. Nel confronto con Barthes, Ercolani avrebbe reso il suo ragionamento più efficace nel dimostrare l’effetto che i social stanno avendo sui nostri comportamenti, e di come ognuno di noi senta la necessità di recitare un ruolo virtuale «all’interno di un contesto in cui ognuno è chiamato a condividere esclusivamente il meglio di sé, nell’ambito di una logica squisitamente quantitativa e commerciale, soprattutto per le personalità più giovani […]» (p. 140) le quali, ci fa capire l’autore, sono le più soggette a credere che la vita sia tutta in una vetrina e un profilo sui social da cui mostrarsi felici e di successo, secondo i canoni omologanti della vita decisa dal numero dei like e dei follower.

La notte della democrazia (cap. 4, pp. 159-198) è a nostro avviso il capitolo meno interessante del libro. L’autore tenta l’impossibile operazione di tenere insieme 2500 anni di critica alla democrazia, rapportandola alle problematiche fino ad ora analizzate nel testo. In una prospettiva genealogica sarebbe stato più interessante mettere in luce la tensione fra potere politico e l’evoluzione della tecnologia che è a disposizione di una civiltà per la trasmissione del sapere. In questa ottica il dialogo platonico del Fedro, dove Socrate difende la civiltà dell’oralità dalla tecnica della scrittura, avrebbe messo in evidenza lo stretto legame fra potere politico ed egemonia culturale. Il passaggio dalla civiltà dell’oralità a quello della civiltà della scrittura, così come lo ha studiato Walter Ong, ci consente di ragionare sui mutamenti politico-istituzionali di fronte all’emergere di nuove tecnologie. In questo capitolo, invece, Ercolani si concentra troppo nella lotta di potere fra il capitale finanziario e il popolo della società ottusa. A nostro avviso, la lotta non è fra capitale e popolo, anzi, crediamo che oggi le persone che popolano il web siano i grandi alleati del capitalismo finanziario. Quando è arrivata la rivoluzione di internet tutti gridarono al miracolo, immaginando che finalmente “la gente” avrebbe esercitato un potere diretto nella “web-democrazia”. L’entrata in scena dell’uomo internettiano ha evidenziato che “quella gente” è stata formata e istruita dal linguaggio capitalista della pubblicità. Oggi chi frequenta i social, ragiona, parla e si fotografa come fosse il protagonista di uno post pubblicitario. Non contestiamo la correttezza delle critiche di Ercolani alla democrazia, ma non crediamo di cogliere, in questoexcursus, la stessa efficacia di analisi che abbiamo apprezzato negli altri capitoli riguardo la tensione generale del testo che resta il disagio dell’uomo contemporaneo schiacciato dalla rivoluzione della rete.

Nel capitolo finale, I pilastri per un nuovo umanesimo (pp. 199-272), Ercolani si mostra capace di una proposta di grande respiro, che lo avvicina di diritto ad autori del calibro di Edgar Morin, nel momento in cui fa intravedere al lettore che esiste un’alternativa alla società ottusa.

Secondo l’autore «la critica radicale e rigorosa della società odierna non può fondarsi su una visione apologetica del passato. Non è mai esistito un tempo in cui la grande maggioranza della popolazione fosse votata alla conoscenza, né alla formazione di un pensiero autonomo e critico che, per di più, venisse utilizzato nel campo sociale dell’interesse pubblico» (p. 206).

Questa riflessione apre pagine di grande respiro costruttivo, in cui l’autore riesce a individuare nell’istruzione pubblica e nell’informazione i due pilastri da riformare per un cambio di paradigma, partendo dalla convinzione che l’opinione pubblica resta l’unico arbitro della sorte della democrazia e dei suoi valori.

Svincolare il sistema scolastico dall’ideologia del profitto, in modo che lo studente torni ad essere «l’uomo che pensa, nutrendo un amore naturale per al conoscenza e la ricerca della verità» (p. 226), riuscendo ad essere «interprete» del proprio tempo, autonomo e partecipe dei processi decisionali, non sottomettendosi alle narrazioni del potere, ma diventando protagonista di un nuovo linguaggio e di rinnovati valori sociali. Lo slancio di queste pagine,per una società a misura d’uomo, rappresentano davvero una parte construensnell’opera che stiamo analizzando, e ci conducono in un percorso in cui vengono approfonditi il ruolo della «famiglia e  della scuola: i piani dell’educazione» (p. 234), «l’educazione sentimentale» (p. 236), «l’educazione fisica» (p. 243), «l’educazione ecologica» (p. 246), in un crescendo di analisi che mostrano una grande capacità dell’autore di dare risposte alle inquietudini del nostro tempo.

Il grande campo di intervento è dunque la scuola, alla quale bisogna ridare la dignità di centro di «educazione alla cittadinanza» (p.252). Bisogna riqualificare l’informazione e creare una consapevolezza dell’appartenenza di ogni singolo ad una comunità costruita intorno a un insieme di valori condivisi. «In questa direzione è necessario lasciarsi alle spalle la rigida suddivisione fra materie umanistiche e materie scientifiche, e istituire lo studio della filosofia in tutte le scuole, a partire dalla primaria» (p. 256). Ercolani non pensa ad aggiungere, arbitrariamente, una materia di studio nel curriculum delle scuole tecniche. Il suo ragionamento è invece coerente al bisogno di superare la specializzazione del sapere sin dalle primarie. Un’educazione al sapere che non sia puro apprendistato di una competenza per trasformare i ragazzi in buoni operai-consumatori, ma strumento per rendere i giovani autonomi nell’approccio alla complessità della nostra epoca. Superare la frammentazione, ampliare i punti di vista degli studenti, qualificare la cittadinanza; su queste basi, allora, la provocazione che aveva aperto il libro nella prefazione di Canfora può assumere un significato molto più forte. Superare il suffragio universale, oppure, come io intendo, considerare veri cittadini solo quelli che condividono i fondamenti assiologici e culturali della propria società?

La risposta è nell’epilogo del libro, e non è la personale idea dell’autore, ma la necessaria presa di coscienza di tutti gli uomini ragionevoli.

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