Vaticano Il ribaltone del Papa per dare voce alla sua Chiesa
La Repubblica
(Alberto Melloni) A mezzogiorno del 31 dicembre un tweet del direttore della Sala stampa vaticana Greg Burke annunciava le dimissioni sue e della sua vice, Paloma García Ovejero. Un fulmine in un cielo parzialmente sereno che l’interessato motivava così: «In questo tempo di transizione nella comunicazione vaticana, pensiamo che sia meglio che il Santo Padre sia completamente libero di creare un nuovo team». Espressione singolare a metà fra la gaffe e il malaugurio. Perché il Papa è completamente libero anche senza il permesso dai suoi dipendenti.
Cosa voleva dire dunque l’ex direttore della Sala stampa? E a quale tipo di transizione alludeva Burke dopo che il Papa ha rinnovato in un anno tutta la catena di comando della comunicazione che stava sopra ai dimissionari?
Un po’ di filologia fornisce una prima risposta. Paolo Ruffini – ex direttore di Rai3 ora prefetto della comunicazione – ha espresso in un comunicato di rito la sua riconoscenza. Ma ha detto di aver appreso delle dimissioni, quasi a marcare la sua estraneità formale rispetto a un gesto che cade alla viglia di importantissimi appuntamenti liturgici, diplomatici e di governo, affidati ad interim ad Alessandro Gisotti, giornalista di Radio Vaticana. Non ha difeso la riforma della comunicazione vaticana che metteva sotto il controllo del suo dicastero e non più quello della Segreteria di Stato la Sala stampa: riforma avvenuta prima della nomina di Burke e García e che dunque non può essere invocata ora come causa di dissapori dagli interessati.
Ruffini si è signorilmente astenuto dal fare cenno a due recenti nomine papali che hanno avuto un peso nel discontento dei dimissionari. Il 18 dicembre Francesco ha infatti sostituito il direttore dell’Osservatore Romano: al posto di Giovanni Maria Vian (testimone del primo Vatileaks e dell’affaire Boffo) ha scelto Andrea Monda, professore di religione romano e presidente di Bombacarta, il forum fondato da padre Antonio Spadaro.
Contestualmente il pontefice ha nominato Andrea Tornielli, vaticanista della Stampa e amico di lunga data, direttore editoriale vaticano: così da evitare vicende opache come il pasticciaccio della lettera di Ratzinger, tagliata di un commento meschino su un collega teologo e poi arrivata alla stampa in versione integrale, che costrinse alle dimissioni l’allora prefetto della comunicazione don Dario Viganò.
Queste nomine, dopo quella di Ruffini stesso a luglio, hanno deluso ambizioni, scoperchiato insufficienze: ed esaurito riserve di credito di assetti superati.
Burke, ad esempio, era stato chiamato a Roma dalla Fox nel 2012 per rimettere ordine nella comunicazione della segreteria di Stato ai tempi del caso Williamson. Se il cardinal Bertone e monsignor Balestrero speravano che potesse gestire la stampa americana e la parte conservatrice della chiesa americana, bisogna dire che fu un fiasco totale.
Nonostante tutto, però, Burke s’è fatto apprezzare e ha fatto carriera passando alla Sala stampa, fino a divenirne nel luglio 2016 direttore, dopo la riforma Bergoglio.
Paloma García era apprezzata dal cardinal Rouco Varela e dal Cammino neocatecumenale (il movimento nel cui seminario del New Jersey spadroneggiava l’ex cardinale McCarrick) ed era stata scelta anch’essa da don Viganò (omonimo ma non parente dell’ex nunzio Carlo Maria, usato contro il Papa) per la prima vicedirezione femminile. Di quella rete di stima e potere oggi non resta nulla. Dimissioni dunque. Il Papa le ha accettate perché sa che sulla comunicazione la Chiesa si gioca molto, ma in un senso tutto diverso da quello che era peculiare di Burke. Il disordine sistemico che ha percorso l’episcopato nei passati tre decenni non richiedeva una laurea in management dei media o in sociologia morale: ma una riflessione teologica ed ecclesiologica che partisse dal fatto che la Chiesa comunica solo quel che è: se parla la Parola, si sentirà bene. Se invece si accontenta di gestire le ambizioni di gruppi ecclesiali e fornire alle destre un’ideologia reazionaria, comunicherà male il male.
Consapevole di questo il Conclave del 2013 ha fatto Papa un cristiano dalla limpidezza evangelica luminosa. E per questo tutto il mondo reazionario – fatto di atei devoti, di superpapisti anticattolici, di destre anticristiane – ha individuato Francesco come suo bersaglio. Il grande gioco politico usa questo risentimento per orchestrare una “campagna” che ha come bersaglio ultimo la Chiesa. Campagna che usa cose tragicamente vere (giacché sono tragicamente veri gli abusi, tristemente vere le appropriazioni indebite e le macchinazioni): ma le usa per indebolire la voce della Chiesa con obiettivi e implicazioni geopolitiche globali.
Una “campagna” così non la si smonta né con le virtù che venivano attribuite a Burke e García da chi li ha chiamati a Roma all’inizio e da chi li ha intempestivamente lodati alla fine. La “campagna” si smonta con uno sguardo capace di vedere viva la Chiesa di cui Francesco è corifeo, con la convinzione di poterle dar voce anche in questa fase del pontificato, con una distanza dal potere e dai metodi del potere.
Chi non lo capisce sta con la “campagna”, anche se è una brava persona, come lo erano Burke e la García. «Burke is out» titolava un sito americano ieri: per la “campagna” una notizia non buona.
La Repubblica, 2 gennaio 2019