Pedofilia nella Chiesa: delitti senza castigo La seconda parte dell’inchiesta di Panorama sugli abusi commessi da alcuni prelati e sulle copertura da parte di alti esponenti della Chiesa

Monsignori che allertano l’indagato. Vescovi che intercedono con il Vaticano perché conceda la grazia. Prelati che danno dei «coprofagi» ai giornalisti. La seconda puntata di Panorama su come la Chiesa ha coperto i preti pedofili parte dalla diocesi di Como, passa per la curia di Crema e arriva dritta alla Santa sede. Favoreggiamenti, compiacenze, accomodamenti. Il canovaccio sembra ripetersi. Ancora una volta, dai documenti riservati e le carte giudiziarie emergono reticenze e tentennamenti. E un odioso rumore di fondo: la cristiana benevolenza che accompagna i carnefici e il generale biasimo per le vittime.
Il viaggio tra i peccati omissivi della Chiesa continua. E ricomincia da Laglio, sul lago di Como. Don Mauro Stefanoni, parroco del paese, il 29 maggio 2008 viene condannato dal Tribunale di Como a otto anni. È colpevole di violenza sessuale su un ragazzo di 15 anni, infermo di mente. Il sacerdote dovrà anche risarcire il minorenne e i genitori, rappresentati dall’avvocato Nuccia Quattrone, con 200 mila euro.
La sentenza mette in fila i fatti. All’inizio dell’ottobre 2004 il ragazzo si lascia sfuggire, per caso, l’indicibile segreto. I compagni di scuola si vantano: prime conquiste, passioni fugaci, fidanzatine. E il quindicenne, corpo d’adolescente e cervello di bambino, non vuole sentirsi da meno: pure lui, racconta, ha avuto rapporti sessuali. Precisamente, con un sacerdote. I compagni si allarmano. Ne parlano con un’insegnante, che avverte la madre del ragazzo. I genitori, il 21 ottobre 2004, denunciano il parroco di Laglio: avrebbe abusato del figlio già dall’estate del 2003.
Parte l’inchiesta. I telefoni del prete vengono messi sotto controllo. Ed emerge una clamorosa fuga di notizie. Coinvolge Alessandro Maggiolini, l’allora vescovo di Como, e Oscar Cantoni, in quel momento vicario episcopale della diocesi lariana, poi vescovo di Crema e adesso di Como.

Il parroco avvertito: Attento, sei indagato”

Il 7 febbraio 2008 è lo stesso Stefanoni a spifferare tutto, durante la sua deposizione in tribunale. Il pm Maria Vittoria Isella gli chiede di ricostruire che cosa fosse accaduto tra il 16 e il 17 novembre 2004. E lui risponde: «Appena arrivo a casa, vedo lampeggiare la segreteria telefonica. Trovo la chiamata di don Aurelio Pagani, al tempo segretario di monsignor Maggiolini. Mi chiedeva di raggiungere la curia appena possibile». Stefanoni si precipita a Como. «Il segretario mi dice: “Guarda, sua eccellenza non c’è, però ti aspetta di là monsignor Enrico Bedetti (allora vicario generale della diocesi, ndr)… Nello studio, c’è anche monsignor Cantoni. Entro e mi dicono: “Dobbiamo darti una notizia un po’ così. Il vescovo ci ha detto di riferirti che c’è in ballo una segnalazione per abusi sessuali su un minore… Si tratta di una persona disabile: non sappiamo né di più né di meno».
Stefanoni spiega al magistrato di aver visto quella sera anche Maggiolini: «Lui sicuramente era un po’ turbato di tutta la faccenda dei preti di Boston, erano giorni che la televisione ne parlava». Don Stefanoni chiarisce al magistrato: «Accennò a una querela… Ricordo anche che disse: “Ma tu non ti senti osservato?”». Durante l’incontro, chiarisce il prete, il vescovo lo invita a lasciare la parrocchia di Laglio. Lui però insiste per rimanere. Il monsignore avrebbe replicato: «Resta, però a una condizione: di questa cosa qui non ne parli con nessuno».
Finito il colloquio con Maggiolini, il parroco di Laglio chiama un amico. Nonostante sia stato appena informato di essere intercettato, non lesina particolari: «Il vicario generale m’ha detto: “Stai attento pure a come usi il telefono, perché sicuramente t’han messo sotto controllo anche quello». Poco dopo, gli investigatori ascoltano una conversazione tra Stefanoni e Cantoni. Il vicario episcopale gli chiede: «Com’è andata?». Si riferisce all’incontro con Maggiolini. Il sacerdote risponde che il vescovo è stato «abbastanza tranquillo»: «Gli ho parlato mezz’ora, come ho parlato questa mattina con te e monsignor Bedetti». Cantoni replica: «Non so dove lui abbia preso le informazioni…».
Il 20 maggio 2005, Stefanoni viene arrestato. Dopo un breve periodo ai domiciliari, viene mandato a Colico come viceparroco. E il 4 luglio 2006 il vescovo interviene pubblicamente: «Prego per don Mauro e sono vicino a lui con affetto. La curia ha taciuto perché è assai meglio il silenzio del cicaleccio, quando le vicende sono ancora da chiarire. Indizi gravi non sono prove. Un cittadino è innocente fino alla sentenza definitiva. La gente semplice e pacata guarda a don Mauro nella speranza di vederlo reintegrato pienamente nel ministero sacerdotale».
Accusa alla Curia: favoreggiamento

Meglio il silenzio del cicaleccio? Il 4 aprile 2008, il pm Isella iscrive Maggiolini, Bedetti e Cantoni nel registro degli indagati per «favoreggiamento personale». Un’iniziativa clamorosa, mai avvenuta prima nei rapporti tra Stato e Chiesa. L’articolo 129 del Codice di procedura penale prevede infatti che, nel caso di un’inchiesta su un religioso, venga avvertito il vescovo. Che però, ovviamente, è tenuto al rispetto del segreto istruttorio (vedere il box qui sopra).
L’11 novembre 2008 il vescovo Maggiolini muore. E il pm Isella chiede subito l’archiviazione: non soltanto per lui, ma anche per gli altri due prelati. Nel decreto, poi accolto il 22 novembre 2008, il magistrato scrive: «Pochi giorni dopo l’avvio delle verifiche, l’indagato veniva chiamato in curia. Dapprima monsignor Cantoni insieme a monsignor Bedetti, e in un secondo tempo lo stesso Maggiolini, lo informarono dell’esistenza di un procedimento penale o comunque di indagini a suo carico per sospetto di abusi sessuali su un minore disabile. In effetti, don Stefanoni era sottoposto a intercettazioni telefoniche e ambientali, ed era in atto osservazione diretta e controllo da parte della polizia». Il pm ribadisce: «L’avviso della curia vanificò l’attività investigativa, costrinse a una perquisizione urgente il giorno successivo e soprattutto impose la celebrazione di un difficilissimo e lungo processo indiziario».
La scomparsa di Maggiolini, però, «comporta necessariamente una richiesta di archiviazione nei suoi confronti». E i due vicari? Bedetti e Cantoni hanno ammesso l’incontro con Stefanoni, ma hanno aggiunto di avergli chiesto solo la fondatezza delle voci sulle sue «condotte immorali». Il pm dubita ancora della veridicità «di quanto dichiarato dagli indagati». Ma anche per i due coindagati arriva l’archiviazione. Maggiolini infatti non ha mai parlato con i pm: e quindi non ha mai ammesso di averli informati. E in un eventuale processo la testimonianza di Stefanoni, resa in un procedimento connesso, avrebbe «uno spessore probatorio sminuito». I monsignori, insomma, sono salvi anche grazie al silenzio del vescovo.

La Diocesi condannata a pagare 200 mila euro

La condanna a otto anni di reclusione per don Stefanoni viene confermata nel novembre 2011 in Appello e nel maggio 2012 in Cassazione. Ma il parroco di Laglio non ha ancora pagato il risarcimento alla vittima. Gli avvocati della famiglia, allora, decidono di rivalersi sulla curia di Como, che nel 2016 è obbligata a pagare i danni dal Tribunale civile di Milano. La sentenza è confermata a marzo 2017. Panorama è in grado di rivelarne il contenuto. La diocesi è stata condannata a versare al giovane disabile e ai suoi familiari i 200 mila euro dovuti da Stefanoni, perché «solidamente responsabile della condotta del sacerdote». È solo la seconda volta che succede in Italia. Negli Stati Uniti, invece, 17 diocesi hanno addirittura dichiarato fallimento dopo gli enormi indennizzi pagati alle vittime dei sacerdoti.
Su don Stefanoni, uscito dal carcere di Bollate qualche mese fa, la giustizia penale e quella civile hanno quindi inequivocabilmente sentenziato. Resta in itinere, invece, il processo canonico. Dal 21 ottobre 2004, quando vennero denunciati gli abusi, sono passati 14 anni. Ma Stefanoni è ancora un prete: nonostante le condanne, rimane un «presbitero», dettaglia laconico il sito della curia. Dal 2016 la diocesi di Como è guidata proprio dall’ex vicario episcopale, Cantoni. Prima, però, il monsignore diventa vescovo di Crema. Ed è in quel periodo che gli scoppia tra le mani un altro dei casi di pedofilia più eclatanti degli ultimi anni. L’11 dicembre del 2012, infatti, è lo stesso Cantoni a comunicare la decisione di Papa Benedetto XVI di ridurre un sacerdote cremasco allo stato laicale: anche lui, travolto da accuse di abusi sessuali sui minori.
Si chiama don Mauro Inzoli, è un uomo potente e carismatico: dominus di Comunione e liberazione in provincia di Cremona, rettore di istituti privati cattolici ed ex presidente della Fondazione banco alimentare. La sua passione per le auto di lusso gli è valsa il soprannome di «don Mercedes».
Stavolta, quindi, la giustizia ecclesiastica ha anticipato quella penale. Nel febbraio del 2013 don Inzoli fa però ricorso alla Congregazione per la dottrina della fede e la sentenza canonica viene ribaltata. Il 6 giugno 2014 riceve la grazia da Papa Francesco: rimarrà sacerdote. Sconterà solo una «pena medicinale perpetua». Insomma, «una vita di preghiera e di umile riservatezza, come segni di conversione e di penitenza».
Venti giorni dopo la nuova sentenza, il 26 giugno 2014, Cantoni comunica la notizia ai fedeli comaschi: «L’invito che rivolgo è di considerare il giudizio nei confronti di don Mauro alla luce di un binomio inscindibile: quello della verità e della misericordia. Senza queste due componenti ci ridurremmo a una “mentalità mondana” ben lontana da quello spirito ecclesiale che deve sempre accompagnare maternamente i suoi figli, anche quando sbagliano, e non deve mai far prevalere giudizi di condanna».
Qualche mese più tardi, parte però il processo penale. Il procuratore di Cremona, Roberto Di Martino, con una rogatoria internazionale, chiede alla Santa Sede gli atti del procedimento ecclesiastico. Il Vaticano risponde il 23 gennaio 2015. I documenti sull’«affare» Inzoli non possono essere rivelati: sono «sub secreto pontificio». Il diniego non fa demordere il procuratore, che va alla ricerca di prove e testimonianze. E il 18 ottobre 2015 «don Mercedes» viene rinviato a giudizio dal Tribunale di Cremona per violenze sessuali sui minori.

La sentenza “buona” tradisce Papa Francesco

Il sacerdote, intanto, risarcisce le cinque vittime con 25 mila euro a testa. E i suoi avvocati chiedono il rito abbreviato. In primo grado, il 29 giugno 2016, don Inzoli è condannato a quattro anni e nove mesi. Il giudice Letizia Platè scrive che toccava i ragazzini anche durante le confessioni: per convincerli, citava persino brani del Vecchio Testamento, come la relazione filiale fra Abramo e Isacco. Le molestie sessuali, dettaglia Platè, sono proseguite dal 2004 al 2008, su cinque ragazzini tra i 12 e i 16 anni: vittime di una «forte sottomissione psicologica». Ma i casi sarebbero molti di più: «Una pluralità indiscriminata di soggetti, all’epoca minorenni», abusati «sin dalla metà degli anni Novanta». Sono casi ormai prescritti. La condanna sarà confermata definitivamente in Cassazione.
Il giudizio di primo grado, però, rimette in moto anche la giustizia ecclesiastica, che ribalta la mite decisione che Inzoli ha ottenuto nel 2004. Il 20 maggio 2017 l’ex presidente del Banco alimentare viene definitamente spretato dal Vaticano. Perché la retromarcia? Il 21 settembre 2017 Papa Francesco, ribadita la linea di tolleranza zero sulle violenze sessuali dei sacerdoti, cita «un solo caso» in cui ha accolto una richiesta di grazia. È proprio quello di don Inzoli: «C’erano due sentenze» ricorda il pontefice. «Era l’inizio: si trattava di un sacerdote della diocesi di Crema. La sentenza del vescovo era buona, prudente, toglieva tutti i ministeri ma non lo stato clericale. Io ero nuovo, non capivo bene queste cose, e ho scelto la più benevola. Dopo due anni lui però è ricaduto: è stata l’unica volta che l’ho fatto e non lo farò mai più».
La sentenza «buona e prudente» era quella dell’allora vescovo Cantoni, nominato dallo stesso Papa Francesco un anno prima a capo della diocesi di Como. Che intanto, nell’attesa della sua venuta, era stata coinvolta in un altro devastante scandalo di pedofilia.

I genitori accusani il “don” ma lui resta in Oratorio

L’indagine, in questo caso, parte nel marzo del 2012. Don Roberto Pandolfi, parroco della chiesa di San Giuliano, a Como, riceve le confidenze di una giovane, che si dice vittima del suo predecessore, Marco Mangiacasale. Le voci aumentano. Don Marco, che nel frattempo è stato promosso economo della curia, avrebbe abusato di altre quattro ragazzine, fra i 12 e i 15 anni. Si parla di masturbazioni, toccamenti, baci.
La notizia finisce anche sui giornali locali. E la replica è tranciante. Il 5 giugno 2012 il direttore dell’ufficio comunicazione della diocesi, monsignor Angelo Riva, risponde a una lettera sul Settimanale, il periodico della curia, che dirige: «Può darsi che il nostro silenzio abbia deluso qualche lettore, ma dal cannibalismo (per non dire coprofagia) di certa informazione noi intendiamo smarcarci». Curiosamente, sarà lo stesso concetto usato da Papa Francesco qualche anno dopo in un’intervista al settimanale belga Tertio sui guasti dei media, che dovrebbero evitare di cadere nella «coprofilia».
La giustizia penale, in questo caso, va veloce. Il 15 novembre 2012 il Tribunale di Como condanna Mangiacasale, anche lui con rito abbreviato, a tre anni e sei mesi per atti sessuali con minorenni. Al sacerdote vengono concesse le attenuanti generiche: è incensurato, s’è pentito, aveva una «relazione affettiva» con le vittime e le ha risarcite, complessivamente, con 200 mila euro.
La sentenza ripercorre i fatti. E, ancora una volta, le omissioni. Già a novembre 2008, scrive il giudice Nicoletta Cremona, i genitori di una ragazzina «denunciano al vescovo di Como, monsignor Diego Coletti, che don Mangiacasale aveva, in due diverse occasioni e in loro presenza, palpeggiato il seno alla loro figlioletta di 12 anni». La giovane, sentita dal magistrato, aggiunge: «I miei genitori mi hanno detto di aver parlato di quello che era successo al vescovo di Como già nel 2008… Lui però non li aveva ascoltati fino in fondo e non aveva spostato don Marco né dalla chiesa di San Giuliano né dai giovani: infatti, ha continuato a svolgere funzioni nell’oratorio». Continua il giudice: «La denuncia al vescovo avrà come conseguenza la rimozione di don Marco dalle funzioni di parroco, ma non gli impedirà purtroppo di continuare ad abitare sopra l’oratorio e di essere responsabile delle attività dell’oratorio».
Il 21 maggio 2013, la Corte d’appello di Milano conferma la condanna a Mangiacasale. Ma mentre la giustizia penale procede spedita, quella ecclesiastica comincia a muovere i primi passi. Il 23 settembre 2013 si conclude la fase istruttoria del processo canonico contro il sacerdote «ai sensi dell’articolo 4 del Motu proprio sacramentorum sanctitatis tutela».
Il caso passa alla Congregazione per la dottrina della fede. L’11 dicembre 2013, Papa Francesco decide la dimissione dallo stato clericale di Mangiacasale. La notizia viene comunicata il 12 febbraio 2014 da Coletti. Il vescovo rammenta che «in ossequio alle volontà del pontefice, tali notificazioni e comunicazioni sono classificate come riservate e destinate alle soli parti in causa, vincolate al segreto». Per questo, stigmatizza «l’inopinata diffusione della notizia sui mezzi d’informazione». Ancora una volta: i panni sporchi della Chiesa vanno lavati in casa. Lo impone il Vaticano.

Un prete denuncia: “troppe coperture”

Negli stessi giorni, monsignor Riva, il responsabile della comunicazione della curia, interviene nuovamente sul sito della diocesi in difesa di Mangiacasale: «Non è un pedofilo, non è malato, non è socialmente pericoloso. È un peccatore che ha commesso dei crimini per i quali è stato giudicato. È davvero deprecabile che una certa immagine “mostruosa” dell’imputato abbia finito per diventare di pubblica opinione, ben al di là della sua reale consistenza… La Chiesa di Como sa di volergli ancora bene, e di dovergli porgere, dopo l’aceto aspro della giustizia, il balsamo della misericordia».
Una riflessione cui replica caustico don Pandolfi, il parroco di San Giuliano che ha raccolto le denunce su Mangiacasale: «Non so a quale parte della Chiesa di Como si riferisca il monsignore. Forse a quella che frequenta lui, quella dei passi felpati nei sacri palazzi. Forse a quella di coloro che pensano che bisogna coprire, nascondere, tacere. Forse a quella che ritiene che lo scandalo non siano gli abusi sessuali di un sacerdote sulle ragazzine, ma l’averli portati alla luce».
Il 27 febbraio 2014, sei anni dopo le prime accuse, arriva però il rammarico del vescovo Coletti: «Grava sul mio animo la tristezza di non essere riuscito a far pervenire con chiarezza la mia sollecitudine» scrive nel messaggio di quaresima. «Rinnoviamo alle giovani vittime e alle loro famiglie la domanda umile e accorata di perdono per tutto il male che hanno dovuto subire».
Il cerchio si chiude a ottobre del 2015. Dopo aver denunciato Mangiacasale e attaccato le coperture della curia comasca, don Pandolfi viene trasferito a Grandate, un paesino di 3 mila anime a qualche chilometro da Como. Due mesi fa, nella riflessione settimanale per i fedeli della parrocchia, ha scritto: «Parliamoci chiaro: denunciare espone a tanti rischi. Bisogna mettere in conto l’ostracismo da parte della stessa comunità ecclesiale, le calunnie più tremende messe in giro per screditare i denuncianti, la disapprovazione di preti, laici e suore per aver suscitato scandalo, le accuse di incuria per i genitori e di immoralità per i minori coinvolti. In ogni caso, certe situazioni hanno goduto di fin troppe coperture, a tutti i livelli. È tempo di dare una svolta. Parlare e denunciare è l’unico modo per iniziare a guarire».
Panorama

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