«La Chiesa online è una non-Chiesa, la fase 2 ci restituisca le messe». Come risorsa il Vaticano richiami in servizio i preti sposati

corriere.it pubblica affermazioni del Vescovo di Venezia Moraglia. Per il Movimento Internazionale dei sacerdoti sposati, fondato nel 2003 da don Giuseppe Serrone, la Chiesa anche recentemente prima della pandemia sembrava già essere in un mondo virtuale lontana dalla realtà: “Nel futuro si esige dai vertici della Chiesa una maggiore attenzione al rinnovamento pastorale. I fedeli hanno bisogno di figure guida e i preti sposati, in tal senso sono una grande risorsa” (ndr).

VENEZIA «Come vescovi abbiamo dovuto prendere atto che, di fronte alle indicazioni degli esperti, non si poteva mettere a repentaglio la salute delle persone e abbiamo sospeso le messe con i fedeli. E’ stata una scelta difficile, assunta per senso di responsabilità», confessa il patriarca Francesco Moraglia.

Fino ad oggi però si è parlato di fase 2 solo per fabbriche e negozi, mai delle chiese. Come se la immagina lei? «Già lo scorso 16 aprile nel Consiglio Permanente (l’organo di governo della Cei, ndr) ho sostenuto la necessità di una ripartenza che tenesse presente che la dimensione spirituale, entra nelle dimensioni fondamentali della persona e non può venir ignorata. Ho chiesto che si considerasse di tornare a celebrare “con il popolo”, la domenica, i funerali, e si riprendesse, osservando tutti i protocolli sanitari richiesti, anche una vita reale di Chiesa con la carità e la pastorale giovanile, anche se quest’ultima la vedo più problematica»

In queste settimane sono stati usati i canali social per comunicare con i fedeli. «Ma la realtà di una Chiesa virtuale, pur ringraziando tv e social, è la realtà di una non-Chiesa. La ripartenza dovrà fondarsi proprio su questa chiara consapevolezza: l’andare a messa, non è un obbligo ma un desiderio-esigenza di vivere la realtà della Chiesa o, ancora, più semplicemente, è lo stesso “esser Chiesa”».

In una delle messe a Santa Marta il Papa ha detto che celebrare senza popolo è un pericolo. Com’è stata la sua esperienza? «Quella d’essere in un tunnel e di non veder l’ora d’uscirne. La celebrazione della messa non è mai un fatto privato ma sempre pubblico, per tutti, anche quando si celebra senza la presenza dei fedeli, la messa è sempre “con” e “per” la gente. Psicologicamente si ha l’impressione di vivere in un sogno o di guardare un film che racconta scenari ipotetici ed irreali. Rendersi conto che le nostre magnifiche chiese, disabitate da quel popolo che le ha costruite, per celebrarvi l’eucaristia, diventano degli splendidi musei, sì, splendidi ma solo musei».

Tra le ipotesi per la ripresa c’è quella di spalmare le attività su 7 giorni e non più su cinque, vorrebbe dire sacrificare la domenica. Secondo lei può essere una soluzione? «Temporanea, per l’emergenza, potrebbe costituire occasione per fare una forte catechesi ai nostri fedeli, ricordando loro che alla messa non si va solo quando non si ha niente di meglio da fare o per abitudine in senso negativo, ma perché la domenica è il giorno del Signore e che senza un giorno pienamente dedicato al Signore si rinnega il proprio battesimo e progressivamente si spegne la fede. Mi auguro che non vi sia qualcuno che canti vittoria, vivendo tutto ciò come un nuovo successo di un malinteso senso di laicità ma che in realtà non sarebbe altro che una sorta di pregiudizio nei confronti di una storia e di una cultura, che tutt’ora animano molti di noi».

Da questo periodo usciamo più o meno credenti? «Per tutti, credenti e non credenti, questo è stato un tempo in cui abbiamo dovuto fermarci e potuto riflettere di più. E’ stata un’occasione per confrontarsi onestamente con le situazioni che abbiamo vissuto anche drammaticamente in prima persona: la precarietà, la malattia, la separazione, la morte di persone care e il senso di solitudine che si respirava guardando le strade e le piazze prima affollate ora deserte»

Come sono cambiate le persone secondo lei? «Mi auguro ci sia stato il cambiamento del cuore. Tutti abbiamo scoperto d’essere, più di quanto pensavamo, affidati gli uni agli altri; così abbiamo capito che dai nostri comportamenti dipende la nostra salute ma, anche, quella degli altri e, ancora, che siamo tutti soggetti potenzialmente a rischio. Perché allora non volerci vicendevolmente più bene? Perché non prestare maggiore attenzione e tenerezza nei confronti delle persone anziane e fiducia ai giovani? Procedendo insieme, non in ordine sparso o affidando deleghe a specialisti, è giunto il momento per le comunità cristiane di pensare un nuovo modello di società e di convivenza».

L’emergenza ha portato molte persone, fino a ieri insospettabili, a diventare poveri. Come è necessario intervenire? «Si tratta, innanzitutto, di ripensare e rispettare la persona mettendola al centro dello scacchiere economico, sociale, culturale e, avendo il coraggio di assumerla come il vero indicatore della qualità della vita di una convivenza sociale. Il bene comune consiste anche nel non confondere i diritti della persona con i desideri e le aspettative. Dobbiamo mirare a costruire una società in cui lo Stato abbia la forza e il progetto politico di ridistribuire la ricchezza che viene prodotta. Dobbiamo saper dire con forza che prima della proprietà privata, penso ai grandi patrimoni non alle prime case, viene la destinazione universale dei beni. E questo a partire non da una visione assistenziale ma profondamente sociale dello stato animato dal principio fondamentale della sussidiarietà, in tal senso, i corpi intermedi possono essere valorizzati al meglio».

Quale è stato il suo momento più difficile? «Sono stati più di uno. Il primo quando ho avuto la certezza che vi fossero persone che morivano in totale solitudine, senza un abbraccio e una preghiera. Un altro, quando ho visto diventare sempre più difficile e rischioso per i nostri volontari accudire i poveri nelle nostre strutture. Ancora, quando sono giunte le notizie allarmanti sul numero dei morte tra i medici, il personale sanitario, i farmacisti e nelle case per anziani. Poi quando ho dovuto emanare il decreto che limitava la vita liturgica».

Insieme alla strage dei camici bianchi e degli operatori sanitari c’è stato proprio il dramma degli anziani, i più fragili della nostra società. «E’ stato il vero dramma nel dramma, Covid 19 si è accanito con l’anello più debole della catena: il pensiero che mi fa star male è che molti siano morti senza una carezza o il sussurro della preghiera a loro più abituale recitata dal prete, dai figli o dai nipoti, è qualcosa che mi fa piangere. Ho chiesto che fra le priorità pastorali da ripensare nel post-Covid 19, ci siano proprio gli anziani, non solo per una questione di carità ma di giustizia, abbiamo tutti un debito nei loro confronti».

Patriarca c’è stato anche un momento bello? «Certo, quando alcuni preti giovani si sono offerti per seguire, se necessario, i malati di Covid 19 e ne hanno sentito lo slancio anche i miei carissimi seminaristi. Sono preti normali, non perfetti ma si sono dimostrati veramente preti».

L’immagine di Venezia che ci restituisce il coronavirus è quella di una città deserta che contrasta con la fotografia che eravamo abituati a vedere. Quale deve essere la ripartenza? «Sicuramente non deve essere dettata da fretta, ma prudente e insieme, molto coraggiosa. Deve essere la ripartenza di chi ama Venezia e soprattutto ama i veneziani, senza dei quali questa città unica, mi lasci dire, la più bella del mondo, nemmeno esisterebbe. Una città, però, che deve avere il coraggio di darsi una regolata e rifuggire gli eccessi, come il turismo esorbitante e la sovraesposizione mediatica, per riscoprire la vita di una città che, pur mantenendo ferma la sua forte vocazione turistica sia abitata e abitabile. Una città a misura di bambino, di anziano, di famiglia».

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