L’ora del loden-giornalismo

Domenica Repubblica ha dedicato le prime sei pagine agli approfondimenti economici, quelle successive alla grande cronaca e poi agli esteri. Questo, Repubblica: cioè il giornale più “politico” fra i grandi. Corriere della Sera e Stampa già da settimane sono fatti così. E non parliamo poi del Sole 24 Ore che ha questa vocazione nel suo dna. È la crisi, bellezza. Domina le nostre esistenze, detta legge anche alla stampa.
Non vi sembra passato un secolo dalle paginate con le intercettazioni – ricordate quelle meravigliose frasi smozzicate, infarcite di errori sintattici e parolacce? – o i verbali di interrogatori, o le ricostruzioni delle seratine arcoriane a base di lap dance, infermiere varie e vecchi signori ? Oggi, no. Le paginate ci sono sempre, ma illuminano decreti e progetti, ospitano grafici e tabelle sul mitico spread o l’età pensionabile, la riforma degli Ordini o la liquidità delle banche. Roba fino a poco tempo fa indigeribile per il grande pubblico, confinata nelle pagine interne, quelle che il lettore medio salta(va), roba da addetti ai lavori. Leggi, commi, tabelle: ma li leggessero i commercialisti, i notai, i banchieri.
Eppure sembra che ai quotidiani vada bene così. La gente vuole sapere, capire. C’è un’urgenza di concretezza. Poche chiacchiere. Che è in fin dei conti il motto di questa fase, anche politicamente. Monti ne è l’espressione. Sta proprio qui, il suo segno “egemonico”.
La politica, già. Intesa come politique politicienne, il mitico chiacchiericcio da Transatlantico di cui ci siamo inzuppati il cervello per una vita: che fine ha fatto? Lo scontro nei partiti, un classico repentinamente passato di moda come il twist quando arrivarono i Beatles.
Eppure quel vento, che un pochino soffia ancora, non gonfia più le pagine dei giornali. Per colpa di Monti e del “loden-giornalismo”, o anche – dice qualche nostro collega – perché i grandi giornali di fare i retroscena su Monti non hanno voglia (almeno fino a recentissime storie malinconiche che vedremo che fine faranno). Resta il fatto che qui tutto è cambiato. «Bisogna essere competenti», diceva l’altro giorno in tv Carlo Freccero. Vale per i politici, certo, ma anche per i giornalisti della carta stampata – e non parliamo della tv, costretta dalla nuova fase a sbaraccare i modelli urlati del talk-show per lasciare il campo a una televisione più di ricerca e approfondimento, meno spettacolare e “divertente” ma più attenta all’Italia inquieta che vorrebbe sapere che fine si fa. Che vuole vedere la scena, non il retroscena.
Mario Lavia – europaquotidiano
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