Credo: una formula possibile

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Settimana News

«In un contesto culturale complesso, il Simbolo di Nicea è riuscito a mediare l’essenza della fede attraverso le categorie culturali e filosofiche dell’epoca. Tuttavia, pochi decenni dopo, nel primo Concilio di Costantinopoli, vediamo che esso viene approfondito e ampliato e, proprio grazie all’approfondimento della dottrina, si giunge a una nuova formulazione: il Simbolo niceno-costantinopolitano, quello comunemente professato nelle nostre celebrazioni domenicali. Impariamo anche qui una grande lezione: è sempre necessario mediare la fede cristiana nei linguaggi e nelle categorie del contesto in cui viviamo, come fecero i Padri a Nicea e negli altri Concili. Allo stesso tempo, dobbiamo distinguere il nucleo della fede dalle formule e dalle forme storiche che lo esprimono, le quali restano sempre parziali e provvisorie e possono cambiare man mano che approfondiamo la dottrina» (Leone XIV, Cattedrale di Istanbul, 28 novembre 2025).

Confesso che da un po’ di tempo il linguaggio utilizzato nelle celebrazioni liturgiche “ufficiali” (presiedute, cioè, da presbiteri o diaconi ligi nell’osservanza scrupolosa delle “rubriche”) non intercetta più la mia esistenza: mi sembra talmente ingessato nel suo alone sacrale da risultare distante e ripetitivo, ma soprattutto poco nutritivo per la mia vita cristiana di fede, speranza e carità.

Avverto questa sensazione in particolare quando, invitato a “recitare il credo” sia nella formulazione niceno-costantinopolitana che in quella apostolica, ho la netta impressione di proclamare delle verità non in grado di scaldare il cuore.

A causa della presenza sempre più ridotta di presbiteri o della presenza irrisoria di diaconi, mi capita, peraltro, di partecipare spesso a “liturgie della Parola” organizzate e gestite con libertà e fantasia da laici e laiche debitamente preparati/e e profondamente consapevoli di quanto promesso da Gesù: «Dove due o tre si riuniscono nel mio nome, là ci sono io in mezzo al loro» (Mt 18,20).

Nell’occasione, mantenendo fermo il messaggio cristiano in quello che ha di essenziale, il “credo” è pregato con formule continuamente riscritte e modificate per renderle più prossime al nostro immaginario culturale: una delle più utilizzate è la seguente che rispetta sostanzialmente l’architettura generale del simbolo niceno-costantinopolitano.

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Credo in Dio che ci è Padre e Madre, mistero di amore e misericordia. Dal suo nome santo e sublime che trascende, permea e abita tutte le cose, scaturisce ogni bene. Credo in Dio che ha pensato gli esseri umani a sua immagine e somiglianza, dando loro un cuore capace di conoscerlo e chiamandoli a condividere, in una alleanza d’amore, la sua stessa vita. Credo in Dio che vuole radunare popoli e lingue senza distinzione di razza, di sesso o di condizione sociale per invitarle gratuitamente a fare festa alla sua presenza.

Credo in Gesù Cristo, pienamente Dio e pienamente Uomo, passato tra di noi beneficando e risanando coloro che erano sotto il potere del male perché Dio era con luiHa fatto udire i sordi e parlare i muti e ha annunciando che il Regno di Dio si è reso vicino. È stato amico dei poveri e degli oppressi e ha chiamato alla conversione i peccatori, rivelando a tutti l’amore misericordioso di Dio Padre. Credo in Gesù Cristo, «Dio con noi», incarnazione e umanizzazione del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che nessuno ha mai visto, ma che con tenerezza infinita ama relazionarsi con noi.

Credo nello Spirito Santo, immagine della libertà di Dio che non si lascia catturare in formule, riti o rappresentazioni. Credo nello Spirito Santo, presenza discreta e silenziosa che penetra la corazza del nostro cuore e apre nuove possibilità di vita. Credo nello Spirito Santo, soffio di libertà, verità e speranza, che apre alla comprensione della Parola per leggere l’oltre nelle pieghe di ogni presente e orientare alla scoperta quotidiana e sorprendente della volontà salvifica di Dio.

Credo la Chiesa, chiamata ad essere testimone del Regno di Dio, comunità di discepoli e discepole sempre da rinnovare e da purificare per annunciare e testimoniare, nella concretezza della vita, l’amore liberante di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo per tutti i popoli della terra.

Credo la comunione delle persone raggiunte e contagiate dalla grazia che, nell’ascolto perseverante della Parola di Dio e con la potenza dello Spirito, rendono credibile anche oggi l’Evangelo di Gesù.

Credo la remissione dei peccati perché la misericordia di Dio, onnipotente nell’amore e ricco di grazia e di fedeltà, avvolge tutta la mia esistenza, pacifica il mio cuore e mi rende capace a mia volta di misericordia.

Credo la resurrezione dei morti perché Gesù Cristo, morto in croce sotto Ponzio Pilato, è veramente risorto. Credo che nella sua resurrezione vi è il futuro ultimo del mondo e dell’umanità.

Credo la vita che continua oltre la morte, nella compagnia di Dio e di tutte le persone amate. Credo che il disegno di Dio sia di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. Credo che l’attesa di cieli nuovi e terra nuova mi impegni a operare secondo giustizia e responsabilità per la costruzione, qui e ora, di un mondo miglioreAmen.

Guerre, armi, affari

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di: Gianni Alioti
Settimana News

La Giornata Mondiale della Pace 2026 rinnova l’impegno dei cristiani e di tutte le persone di buona volontà, credenti e non credenti, affinché si metta fine nel mondo a guerre e genocidi. C’è una molteplicità di forme con le quali questo impegno, in coscienza e secondo l’orientamento espresso da papa Leone XIV ne La pace sia con tutti voi. Verso una pace disarmata e disarmante, può essere declinato.

Personalmente, anche alla luce della Nota pastorale della CEI Educare a una pace disarmata e disarmante, vorrei soffermarmi su un tema centrale e dirimente, rafforzativo dell’argomentazione, come quello della “produzione e commercio di armi”, affinché l’auspicio dei vescovi relativo a “La difesa, mai la guerra”, diventi lo spartiacque etico per valutare le scelte politiche e militari delle istituzioni statali, europee e internazionali”.

Guerre che aumentano
A seguito del moltiplicarsi delle guerre nel mondo (oltre 60 secondo il Peace Research Institute di Oslo), sia interstatali sia intra-statali, con gradi diversi di internazionalizzazione dei conflitti, la questione di quale produzione e controllo del trasferimento delle armi dovrebbe tornare decisiva ai fini di “preservare la pace” e la sicurezza: il contrario della frenesia bellicista che da tempo ha contagiato le istituzioni della UE e la maggioranza dei singoli Stati europei aderenti alla NATO.

La corsa al riarmo, oltre ai paesi del “fronte occidentale”, coinvolge in modo speculare Cina e Russia, i paesi con ambizioni di potenza a livello regionale, quelli già coinvolti in conflitti armati o che si “preparano” alla guerra contro i loro vicini.

Sullo stato dell’arte, il Sipri – Stockholm Internationale Peace Research Institute – con i suoi rapporti annuali sulle spese militari (in valore assoluto e in rapporto al PIL) dei diversi paesi e sul trasferimento mondiale di armamenti (importazioni ed esportazioni), ci consegna, in modo indipendente, un insieme di dati che ci permettono di farci un’idea autonoma e consapevole.

La spesa militare mondiale ha raggiunto i 2.718 miliardi di dollari nel 2024, con un aumento del 9,4% in termini reali rispetto al 2023, il più forte incremento annuo dalla fine della Guerra Fredda, in un contesto di più lungo periodo che vede l’incremento per il decimo anno consecutivo. Fra qualche mese sapremo se nel 2025 avremo superato la cifra folle di 3 trilioni di dollari. La maggior parte dell’aumento della spesa militare globale è dovuta al continuo rafforzamento militare in Europa, trainato dalla guerra tra Russia e Ucraina.

La guerra di Israele a Gaza, estesa anche verso altri paesi medio-orientali, ha avuto inoltre un altro impatto chiaro e significativo sulle spese militari nella regione. Altre guerre altrove, in Africa ed Asia, hanno portato a tali risultati.

Le grandi potenze
In valore assoluto il paese che spende di più sono gli Stati Uniti con 997 miliardi di dollari, pari al 37% della spesa globale. Al secondo e terzo posto troviamo la Cina con 314 miliardi di dollari e la Russia con 149 miliardi di dollari, pari rispettivamente al 12% e al 5,5% della spesa globale. Seguono la Germania, che ha aumentato dal 2023 le spese militari del 28%, raggiungendo gli 88,5 miliardi di dollari, equivalenti al 3,3% delle spese globali. L’India, superata dalla Germania, è quinta in classifica con 86,1 miliardi, seguita dalla Gran Bretagna con 81,8 miliardi, Arabia Saudita con 80,3 miliardi, Ucraina e Francia entrambe con 64.7 miliardi. Al 10° posto il Giappone con 55.3 miliardi, mentre Polonia e Italia sono al 13° e 14° posto, entrambe con 38 miliardi di dollari, precedute da Corea del Sud con 47,6 miliardi di dollari e Israele con 46,5.

È, interessante notare, al fine del confronto tra grandi potenze, che i paesi europei della NATO (che includono anche Norvegia, Regno Unito e Turchia) coprono, complessivamente, il 28% delle spese militari globali, superando di molto la somma di Cina e Russia, e, questo nel 2024, ossia prima del piano ReArm Europe e del folle obiettivo di giungere a una spesa militare pari al 5% del PIL; dimostrando quanto sia falso e retorico parlare di un’Europa “disarmata” e indifesa di fronte all’orso russo. E se, comunque, tale assunto fosse “vero”, avremmo il diritto di sapere, quantomeno, in che modo si sono volatizzate le centinaia di miliardi di euro spese in armamenti negli ultimi dieci anni. Così come dovremmo sapere dove e a chi, in Ucraina, sono finiti 491.426 pezzi, tra fucili d’assalto, carabine, pistole, mitragliatrici e lanciagranate.

L’Ucraina con il 34% è al primo posto, in assoluto, tra i paesi che spendono di più in campo militare in rapporto al PIL, indicatore usato per misurare quanto della propria ricchezza economica prodotta sia destinata alla Difesa. Il secondo è Israele con 8,8%, terzo l’Algeria (8%), quarto l’Arabia Saudita (7,3%), quinta la Russia (7,1%), sesto il Myanmar (6,8%), settimo l’Oman (5,6%), ottava l’Armenia (5,5%), nono l’Azerbaijan (5,0%), decima la Giordania (4,9%). Seguono poi Kuwait (4,8%), Burkina Faso (4,7%), Mali (4,2%), Polonia (4,1%), Burundi (3,8%). C’è un filo rosso che li lega: sono tutti paesi in guerra o coinvolti in conflitti armati o che si preparano a nuovi e potenziali conflitti.

Il commercio di armamenti
In questo contesto di guerre e riarmo si inserisce il commercio internazionale di armamenti.

Il rapporto del Sipri sui trasferimenti di armamenti di grandi dimensioni, relativo al periodo 2020-2024 registra un aumento delle importazioni del 155% in Europa rispetto al periodo 2015-2019, compensato da una diminuzione complessiva delle importazioni in tutte le altre regioni. A produrre questo incremento, oltre alle politiche di riarmo dei paesi NATO, è sicuramente la guerra in corso con la Russia, che ha costretto l’Ucraina ad aumentare di 100 volte le sue importazioni di armi di grandi dimensioni nel 2020-2024 rispetto ai cinque anni precedenti. L’Ucraina risulta, di conseguenza, al primo posto al mondo con l’8,8% delle importazioni globali, seguita da India (8,3%), Qatar (6,8%), Arabia Saudita (6,8%), Pakistan (4,6%), Giappone (3,9%), Australia (3,5%), Egitto (3,3%), Stati Uniti (3,1%), Kuwait (2,9%) e Emirati Arabi Uniti (2,6%). Israele è al 15° posto con l’1,9%.

A livello, invece, di esportazioni il primato degli Stati Uniti resta indiscusso. La sua industria militare copre il 43% dell’export mondiale. Tra i principali paesi destinatari degli armamenti made in Usa troviamo, in ordine di importanza, l’Arabia Saudita, l’Ucraina, il Giappone, Israele, il Qatar, l’Australia, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti. Ma anche molti paesi europei come Regno Unito, Polonia, Olanda, Norvegia, Italia, Danimarca, Romania, Germania ecc.

La Russia, viceversa, impegnata nello sforzo bellico in Ucraina ha diminuito le esportazioni del 64% rispetto al periodo 2015-2019, diventando il 3° esportatore di armi al mondo con il 7,8% dell’export globale, scavalcata al 2° posto dalla Francia cresciuta al 9,6%; al 4° posto la Cina con il 5,9%, seguita da Germania (5,6%), Italia (4,8%), Regno Unito (3,6%), Israele (3,1%), Spagna (3,0%), Corea del Sud (2,2%), Turchia (1,7%). Se consideriamo l’insieme dei paesi UE + Norvegia, Regno Unito e Turchia un unico aggregato, gli armamenti made in Europe coprono il 34% dell’export mondiale, non lontano dalla quota coperta dagli Stati Uniti.

L’Italia è il Paese che ha fatto il salto maggiore, passando dal 2,0% al 4,8% di export globale nei due periodi considerati. Teniamo conto che, se dal 1991 al 2005 l’esportazione media annuale di armamenti dal nostro paese è stata di un miliardo di euro, la media annuale si è quintuplicata (5 miliardi di euro) nel periodo 2006-2024. In questi ultimi 5 anni i principali destinatari degli armamenti italiani sono stati il Qatar con il 28%, l’Egitto e il Kuwait entrambi con il 18%. La Leonardo è il maggiore esportatore italiano di armamenti. Circa il 30% dei suoi ricavi consolidati nel militare (13,8 miliardi di dollari nel 2024) derivano dall’export.

Come ha scritto Giorgio Beretta nel suo saggio “L’esportazione italiana di armamenti nel contesto europeo e internazionale”, pubblicato da Sbilanciamoci nell’ebook 2025“L’Europa a mano armata, nell’elenco dei primi 40 paesi destinatari delle autorizzazioni di armamenti italiani dal 1991 al 2024, «figurano le monarchie assolute dei paesi arabi (Qatar, Kuwait, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman), regimi autoritari come l’Egitto e il Turkmenistan e paesi con gravi deficit economici e di sviluppo umano che riportano livelli di spese militari superiori alla media internazionale (Pakistan, Algeria, India)». Tutte condizioni che rientrano nei divieti contenuti dalla Legge 185/90 per l’esportazione e il transito di armamenti dal nostro paese.

Alcuni di questi Stati, a cui va aggiunto Israele, sono coinvolti direttamente o indirettamente in guerre e/o genocidi (Gaza e Sudan) o sono responsabili di gravi violazioni di diritti umani fondamentali. Motivi per i quali – per legge – le istituzioni italiane preposte non avrebbero dovuto rilasciare né le licenze di esportazione, né consentire il transito dai nostri porti e aeroporti di materiali d’armamento verso quei paesi. In realtà per quanto concerne il transito di armamenti e munizioni nessuna operazione è stata autorizzata e documentata negli anni, perché nessun transito “chiede” di essere autorizzato.

Come ha dichiarato Carlo Tombola, presidente di The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei – «questa è una cosa gravissima perché non solo viene aggirata e svuotata la nostra legge, ma anche il trattato internazionale sul commercio delle armi, Arms trade treaty (Att) al quale l’Italia ha aderito dal 2013, che vieta il transito di armamenti a Paesi in violazione del diritto umanitario».

Istituzioni irresponsabili
È stata, in questi anni, l’azione diretta dei portuali di Genova e degli altri porti italiani come Livorno, Ravenna, Trieste ecc. contro il traffico di armi, a fare emergere questo “buco nero”, raccontato perfettamente da Linda Maggiori nel dossier di “Altreconomia” La flotta del genocidio. Sulle rotte delle armi dai porti italiani.

Lo scarica-barile da parte delle istituzioni preposte al controllo è esilarante. Il MEF (ministero economia e finanze) a cui fanno capo le Dogane, dichiara di non disporre di informazioni in quanto i transiti di materiali di armamenti non risponderebbero alla legge 185/1990. Il MAE (ministero affari esteri) sostiene che l’autorità nazionale per il rilascio delle autorizzazioni (Uama) «non ha alcuna competenza sui materiali di società straniere che transitano sul territorio nazionale e che l’attraversamento del materiale è sottoposto al rispetto delle disposizioni di pubblica sicurezza, che rimettono tale compito al Ministero dell’Interno tramite le Prefetture territorialmente competenti». In effetti quest’ultimi conoscono con anticipo i traffici di armi e hanno il compito di predisporre misure ad hoc per la sicurezza. Con il paradosso che questi carichi, pur non disponendo di autorizzazione, non solo sono lasciati passare, ma sono persino scortati da polizia e carabinieri.

Come può essere credibile qualsiasi ragionamento sulla Difesa, soprattutto sul piano militare, che non metta mano alla “libera” circolazione di armamenti, munizioni, esplosivi, come se si trattasse di una merce qualunque? Allo stesso modo, se si persegue veramente “la difesa della pace”, come si può continuare ad esportare nel resto del mondo una quota così rilevante delle armi e dei sistemi d’arma prodotti in Italia e negli altri paesi europei?

Le maglie del commercio di armi vanno ristrette, non il contrario, come prevede la reformatio in peius della Legge 185/90: questa riforma, se approvata, costituirebbe una grave concessione ai fabbricanti e trafficanti d’armi, in un contesto di forte crescita dei rischi umanitari derivanti dal massiccio aumento della produzione e commercio di armamenti.

Cosa fare?
Lo ha capito bene anche la CEI che, nella sua Nota pastorale, rilanciando l’esigenza di rafforzare la normativa in materia: «È un’istanza da promuovere anche a livello di Unione Europea, la cui normativa in tal senso è meno forte di quella italiana e potrebbe essere ulteriormente allentata dal piano ReArm Europe. Occorre invece che l’Unione Europea si faccia promotrice di una rinnovata cooperazione in tal senso, sostenendo la costituzione di un’agenzia unica per il controllo dell’industria militare interna e del commercio di armi con il resto del mondo».

L’idea di un’agenzia indipendente europea, per il controllo delle esportazioni, importazioni e transito di armamenti, anche con poteri sanzionatori, è una proposta formulata e sostenuta da tempo da Raul Caruso, economista all’Università Cattolica di Milano. Ciò sarebbe coerente sia con una politica industriale coordinata a livello europeo per il settore aerospaziale e della difesa, sia con l’art. 21 del Trattato sull’Unione Europea (non ancora abrogato) secondo cui l’azione sulla scena internazionale deve fondarsi su principi quali: il mantenimento della pace, il sostegno alla democrazia e il rispetto dei diritti umani.

Letteratura e Scienze religiose in carcere: due esperienze

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di: Fabrizio Mandreoli e Clara Donini
Settimana News

Pubblichiamo il racconto in divenire di una duplice esperienza di (co)educazione nel contesto del carcere di cui abbiamo già dato brevemente conto sulla nostra rivista. La prima esperienza ha luogo nella scuola superiore del carcere di Bologna ed è sostenuta e animata dal centro studi Insight in collaborazione con varie associazioni e istituzioni tra cui ricordiamo l’Istituto di ricerca per le Scienze delle religioni di Firenze della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. La seconda è collegata a un progetto di presenza nella struttura detentiva dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Bologna collegato alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. Il presente articolo uscirà in altra versione anche in altre sedi e contesti che qui ringraziamo.

Tu prova ad avere un mondo nel cuore. E non riesci ad esprimerlo con le parole [1]

[…] è possibile ascoltarsi, comunicare è possibile condividere, accettarsi, aiutarsi, lasciarsi aiutare, è possibile ed è urgente, è possibile ed è urgente la parola efficace di una speranza operosa, si può camminare, bisogna camminare insieme [2]

Sono circa quattro anni – dall’autunno 2021 ad oggi – che nel carcere di Bologna, comunemente chiamato la Dozza, si ha una singolare e inedita possibilità di studio a livello universitario della teologia e delle scienze religiose.

Si tratta di un percorso iniziato nel solco di alcune esperienze precedenti. Alcune più remote con il progetto che ha dato vita al docufilm Dustur di Marco Santarelli e Ignazio de Francesco sulla Costituzione, il carcere, l’Islam e, ancor più indietro nel tempo, con l’esperienza di collegamento tra riflessione religiosa, Università e carcere compiuta da Pier Cesare Bori.

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Un’esperienza più recente che sta sullo sfondo è quella che avviene nella scuola superiore del carcere, in cui da diversi anni si svolge un laboratorio permanente – legato all’insegnamento della religione reinterpretato per un contesto pluri-religioso e multi-culturale – su Religioni, visioni del mondo e letteratura. Il laboratorio, per tutto l’anno scolastico, consiste nel creare uno spazio di lettura, ascolto e conversazione con un dialogo collettivo su poesie, romanzi, testi religiosi e film alla ricerca dei significati e delle sapienze fondamentali dell’esperienza umana.

Il progetto coinvolge una classe femminile e varie sezioni maschili – bassa sicurezza o detenuti comuni, protetti e – fino all’anno scorso – alta sicurezza – e prevede la compresenza in aula del docente, di altri insegnanti, di studenti e tutor volontari dall’esterno. Ciascuna classe è un microcosmo altamente eterogeneo per età, nazionalità, contesto di provenienza e credo religioso, all’interno del quale dialogano e si confrontano persone detenute e persone «libere», generando uno scambio stimolante e arricchente per entrambe le parti.

Il metodo di lavoro ricalca alcune prassi, liberamente riadattate, della Philosophy for Children. Nel corso della lettura collettiva in classe ci si lascia interrogare dal testo, i cui spunti fungono da stimolo per uno scambio libero e spontaneo di pensieri e risonanze personali. L’ausilio di una storia altra, in cui vedere il riflesso della propria, il riferimento a personaggi coinvolti nella trama con cui identificarsi o a una situazione in cui potersi riconoscere, consente ai presenti di dare voce a qualcosa di sé e della propria vita in maniera indiretta, garantendo una certa tutela della propria sfera più intima e dei vissuti più vivi e, spesso, più faticosi e dolorosi.

In questo spazio protetto, il rapporto tra Ulisse e il figlio Telemaco diventa occasione per esprimere lo strappo causato dalla distanza dagli affetti; i racconti di Cornelia Paselli, sopravvissuta alla strage di Monte Sole, fanno da specchio ai ricordi nostalgici della semplice vita agreste condotta dai propri nonni; l’invocazione di Giona nel ventre della balena diventa l’immagine di chi riconosce con amarezza di rivolgersi a Dio unicamente quando è inghiottito dai propri abissi; la visione del film Cesare deve morire permette di comprendere la forza della frase finale di uno dei protagonisti del film: «Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata davvero una prigione».

Oltre al tema estremamente vivo degli affetti, emergono facilmente altre questioni fondamentali, quali il rapporto con il tempo, completamente plasmato dallo scorrere dei mesi e degli anni di carcerazione – quelli già trascorsi e quelli ancora da scontare; il rapporto con, la colpa, con il «bene e il male» di cui è intriso il proprio passato; e il rapporto, spesso ambivalente, nei confronti di una prospettiva di vita futura, talvolta del tutto assente o molto complessa. E ancora, il tema della sofferta emarginazione e dello stigma sociale, la percezione di essere invisibili, persino inesistenti, agli occhi del mondo che sta «fuori le mura».

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Sullo sfondo di questo lavoro, in collaborazione stretta con il cappellano Marcello Matté e con il preside[3] della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e i direttori dell’ISSR[4], negli ultimi anni si è rilevato un interesse crescente da parte di un piccolo gruppo di persone detenute verso uno studio metodico, approfondito delle tradizioni religiose, dei loro testi e contesti a partire da un’attenzione per la tradizione cristiana per allargarsi poi verso altre prospettive e orizzonti.

Ha preso così avvio un percorso che si è strutturato in seminari aperti sulla teologia cristiana nella sua relazione con altre tradizioni religiose e filosofiche, in una serie di corsi nelle sale e aule del carcere, nell’individuazione di alcuni insegnanti che accompagnano il cammino di circa una decina di persone che si cimentano nello studio e nella ricerca per ottenere la laurea breve presso l’ISSR di Bologna in Scienze Religiose.

Un percorso così impostato, che prevede lo svolgimento di lezioni ed esami in presenza, nonché visite periodiche da parte dei tutor di supporto al progetto, non è esente da attriti con una realtà carceraria che si presenta ruvida nelle sue rigidità e, al contempo, imprevedibile. Se, da un lato, ci si scontra spesso con una macchina dai tempi lenti, fatta di lungaggini e ostacoli burocratici nell’ottenimento delle autorizzazioni necessarie, dall’altro si è inevitabilmente chiamati ad esercitare la massima flessibilità e disponibilità di fronte ai repentini cambiamenti di regolamenti, disposizioni e ordini di servizio, che impongono frequenti riadattamenti delle modalità di lavoro.

I docenti coinvolti osservano con stupore come i tempi, in carcere, si rivelino spesso relativi: se talvolta si restringono a causa di imprevisti, altre volte si dilatano, soprattutto in assenza di un intervento da parte del personale di servizio volto a garantire il rispetto degli orari di chiusura delle lezioni. Per quanto concerne gli spazi, le aule, durante le lezioni, sono inevitabilmente raggiunte dai rumori e dalle voci che scandiscono la vita carceraria – suoni metallici di chiavi e sbarre, richiami degli agenti, proteste, urla, echi di partite di calcio, sporadici «rituali» di saluto per chi giunge a fine pena o viene trasferito – che si alternano a momenti e giornate dai toni più pacati e (apparentemente) tranquilli.

Tuttavia, pur in presenza di elementi che rendono il percorso formativo più complesso e meno lineare rispetto a un tradizionale corso di laurea «fuori le mura», il progetto si è progressivamente consolidato e ci pare di poter dire che si tratta, ad ora, di un’esperienza importante ed eloquente per più ragioni. Desideriamo ricordarne qui, sinteticamente, alcune.

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Per cominciare, risulta molto importante la formazione di un gruppo di persone che in un ambiente duro, spesso diseducativo e violento, come quello del carcere – gli studenti hanno spesso pene molto lunghe o l’ergastolo – si impegnano in un percorso serrato, con lezioni, letture, studio delle lingue e confronti molteplici. Si è, così, formata una piccola comunità di «studiosi» della teologia che in questo studio hanno trovato una fonte importante di vita, ricerca, dialogo, amicizia, di impegno costruttivo del tempo. Un piccolo gruppo che sfida, attraverso lo studio e l’impegno, il clima infantilizzante, spesso disperante e demotivante della vita in detenzione.

A questo va aggiunto come si sia, pian piano, formato un corrispondente collettivo di insegnanti formato da laici e laiche, presbiteri, religiose e di tutor[5] – giovani trentenni appassionatisi a questo percorso umano e intellettuale – che lavorano insieme con gli studenti. È un gruppo di lavoro che combina un’offerta seria dal punto di vista intellettuale con una coltivata attenzione e sensibilità per il contesto in cui si insegna e che risulta caratterizzato dalla capacità di muoversi in maniera collettiva.

Si tratta così di un vero laboratorio di teologia contestuale: prendere la parola come professori – e come tutor – all’interno del carcere porta, infatti, in maniera quasi naturale a chiedersi come parlare, come affrontare i temi in un ambito in cui la sensibilità risulta spesso profondamente ferita con tensioni e conflitti visibili ad occhio nudo. Il dialogo e la frequentazione prolungata con le persone dentro può influenzare così gli insegnanti a livello personale e a livello accademico.

Infatti, accompagnare e insegnare all’interno del carcere – è una convinzione da noi condivisa – richiede un lavorio non piccolo su di sé a partire dai sentimenti suscitati nel trovarsi esposti ad un’istituzione totale che non raramente spersonalizza, svilisce e riduce le persone a cose. Nell’insegnare dentro si sperimenta una spinta al cambiamento nell’uso delle parole, negli atteggiamenti, nel modo di «sentire» gli studenti e le loro vicende, nella necessaria lealtà e sincerità rispetto alle cose dette, nella crescita di una consapevolezza anche politica e sociale delle cose insegnate. La sofferenza umana di storie spesso sbagliate o storte che si coagula e si incontra in carcere può divenire un appello progressivo ad una maggiore autenticità come persone e come insegnanti.

La stessa teologia risente di tale lavoro e non pare uscirne indenne. Talora l’accademia – anche quella teologica – porta chi parla a sentirsi superiore, a gustare una certa asimmetria verso gli studenti, a muoversi da una posizione di supposta superiorità, in un mondo di idee non davvero verificato dall’esistenza. Il lavoro in carcere e quindi il contatto con problemi giganteschi – umani, personali, famigliari, sociali, giuridici e politici – aiuta, invece, a intuire che ognuno è chiamato a dare, semplicemente, il proprio contributo alla vita delle persone e, in modo più ampio, alla comunità ecclesiale e alla società, facendo bene, con responsabilità e bontà, il proprio mestiere, ma consapevoli che è solo – come si dice – una goccia nel mare.

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Anche i contenuti teologici non sono esenti da questo «bagno di realtà» e indenni nell’attraversare questo territorio di frontiera umana. La teologia e la filosofia hanno, certo, bisogno del lavoro di scavo, ossia di studiare le fonti, di comprenderne le idee, di evidenziarne le dialettiche, di coglierne i nessi, di percepire le conseguenze etiche e spirituali, ma in questa serie di operazioni le persone che sono da più tempo in carcere premono, anche senza volerlo, per la chiarezza, l’essenzialità, per uno scambio leale, per la possibilità di dire cose che si sono in qualche modo sperimentate, per la fondatezza delle idee e delle prospettive.

Tutte le parole chiave della teologia e delle Scritture risuonano in maniera diversa e più intensa: colpa, punizione, peccato, giudizio, uccisione, sacrificio e poi grazia, redenzione, salvezza, riscatto. Il vocabolario teologico ne esce, così, più autentico, più inspessito di vita ed esperienza, più serio e più umile.

La stessa nostra considerazione delle prospettive della teologia e della Bibbia sembra affinarsi e approfondirsi. Non si può riflettere sui testi della tradizione cristiana e sui testi importanti delle tradizioni filosofiche e religiose dell’umanità senza avvertire il bisogno di collocarli in un orizzonte di fondo. Si tratta per noi – pur rispettando il carattere aperto e non confessionale del nostro lavoro nella struttura carcere – di un orizzonte di giustizia che emerge da una certa lettura delle Scritture e da una serie di prassi umane collettive.

L’attraversamento della realtà del carcere aiuta a comprendere che la giustizia – che si ispira, in qualche modo, alla vicenda singolarissima e paradossale di Gesù di Nazareth e al suo annuncio seminale del Regno di Dio – è un percorso che ha come prospettiva la riparazione e la ricomposizione. Una giustizia che coltiva, in diversi modi e a più livelli, la consapevolezza del male, il desiderio di fermare il contagio del male e della violenza, in un desiderio di verità e di coraggio, di possibilità di parlarsi e di sentire il proprio e l’altrui dolore, di ricostruire faticosamente un possibile futuro insieme, di difendere e riscattare le vittime e, nello stesso tempo, di cercare di «salvare» i perpetratori del male da loro stessi e dal male compiuto.

È l’orizzonte, quindi, di una giustizia che ripara, che ricuce, che non rimuove o nasconde il dolore delle vittime e i loro traumi, ma che cerca di curarli con attenzione e serietà, con un senso acuto della vita delle persone, delle vite umiliate e offese, e un correlativo senso di un possibile futuro personale e collettivo.

L’esperienza di insegnamento e apprendimento della teologia in carcere, insieme con la lettura collettiva e interrogante di testi della letteratura e della poesia, desiderano quindi muoversi, per quanto possibile, in un orizzonte che non vuole «rassegnarsi al peggio, ma desidera inventare, con umana attenzione e dedizione, qualcosa che aiuti a vivere, a respirare, a sperare; perché ci si possa guardare in faccia senza paura, senza vergogna, senza sottintesi amari, ma con quella volontà di bene che è in definitiva, espressione dell’unica resistente e convincente e coraggiosa speranza[6]».

[1] Testo di Fabrizio De André ricordato e commentato recentemente in un dialogo in classe da uno studente in detenzione a Bologna.

[2] P. Serrazanetti, Una parola straordinariamente amica, Bologna 2004, 204.

[3] P. Fausto Arici.

[4] Prima Marco Tibaldi e poi sr. Mara Borsi.

[5] Ricordiamo le persone coinvolte ad ora come insegnanti e/o come tutor: Riccardo Merighi, Martina Mignardi, Elsa Antoniazzi, Marco Bernardoni, Marco Salvioli, Dino Cocchianella, Maurizio Rossi, Michele Grassilli, Michele Zanardi, Michela Mastroianni, Paolo Bovina, Giovanni Turbanti, Marcello Matté, Giovanni Patton, Gianluca Guerzoni, Anna Dore, per il coordinamento con la Facoltà e l’ISSR Marina Chirico.

[6] P. Serrazanetti, La speranza resistente, Bologna 2005, 42.

Taraneh Alidousti: donna, vita, libertà

di: Riccardo Cristiano

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In appena 48 ore da quanto è apparso on line, il documentario sulla famosissima attrice iraniana Taraneh Alidousti, vincitrice del premio Oscar con Asghar Farhadi, ha già raggiunto 2 milioni di visualizzazioni.

Il suo contenuto, con numerosi flashback, può essere riassunto in poche parole, quelle che lei dice all’inizio: “non reciterò più indossando l’hijab, in qualsiasi circostanza”. È il suicidio artistico di un’attrice acclamata nel mondo.

Taraneh Alidousti torna ad apparire senza velo in questa intervista realizzata dalla collega Pegah Ahangarani, e dice subito una cosa impressionante: “il nostro cinema è scomparso”. Poi, tornando ai giorni in cui in Iran è divampata la più ampia e prolungata protesta popolare dall’inizio dell’epoca khomeinista, afferma: “Dal primo momento ho pensato che la rivoluzione di Masha (Masha Amini, la ragazza iraniana uccisa in carcere a Teheran nell’autunno del 2022 perché non indossava correttamente l’hijab) era un’esplosione nazionale. Come era possibile che non avessi un ruolo in questo?  Sono rimasta bloccata a lungo pensando cosa si potesse dire. Poi ho realizzato, la cosa più semplice, donna, vita, libertà: è sufficiente”.

Non parla subito dell’arresto per essersi tolta il velo in una precedente apparizione, annuncia che non reciterà mai più con l’hijab. Poi si vedono le immagini di quando preparò il cartello con la scritta “donna, vita, libertà”. E racconta come tutti i suoi successi professionali, cinematografici, culturali, alle volte sociali, siano stati come una strada, che ha condotto sino a questo punto.

***

La BBC ha rilanciato il documentario, in lingua farsi, con i sottotitoli in inglese: “mi sento sicura perché non ho nulla da perdere e nulla da nascondere”.

Poi si torna indietro, alla sua giovinezza, partendo dalla difficile ricerca di quando è diventata una femminista; una data precisa non c’è, si arriva presto al racconto dei giorni del ricovero e della morte, dopo il lunghissimo coma, di Masha Amini.  È l’ora della rabbia. Queste immagini di Tehran sono impressionanti.  L’esplosione, migliaia di persone che, come Taraneh, raggiungono il centro, le urla “morte al dittatore”.

Ma non finisce, le urla si espandono, tutta la città è coinvolta. Taraneh racconta di quando sono arrivate le esecuzioni, anche di chi non avesse commesso crimini punibili con la morte. Taraneh reagisce, va sui social senza hijab, e viene arrestata mentre è per strada, davanti alla figlia.

Segue il racconto della perquisizione e del trasferimento in prigione: incontra le altre detenute, che le dicono i loro nomi, pregandola di dare loro notizie ai familiari. Erano sicure che sarebbe stata rilasciata nel giro di poche ore. Anche lei ci sperava e passa intere giornate a memorizzare tutti i nomi che le hanno detto.  Ma le cose vanno diversamente.

Detenuta in isolamento, una cella di un paio di metri quadrati. Poi sostiene di non aver avuto problemi ad affrontare la nuova vita, dopo la detenzione: facendo traduzioni o altri lavori simili; si era preparata. Ma la malattia l’ha colta impreparata: “in me si è innescata una reazione autoimmune che non si spegne più”. È una strana reazione a qualche medicina, la pelle sparisce, improvvisamente, dalla testa ai piedi.

***

Taraneh Alidousti assicura che non ha paura di rimanere fuori dal mondo cinematografico. Non lo teme. Ha cominciato a fare l’attrice a 16 anni, usava il velo, certamente, ma impersonava in quel film una ragazza di 16 anni che rimane incinta.

Quella ragazza nel film dice di non sapere chi sia il padre e decide di tenere il figlio, da sola, contro il parere di tutti. In un altro di cui si vede qualche scena, lei impersona una ragazza che chiede al suo ragazzo una sigaretta, mentre lui fuma. Lui dice di no, che non gliela darà, perché non gli piacciono le donne che fumano. Allora apre la borsetta, estrae un pacchetto e ne prende una, dicendo: “a me sì”.

Taraneh conclude ribadendo che non la spaventa l’idea di non lavorare più nel cinema. Ha fatto tantissimi grandi film, ora da tre anni, da quando è stata arrestata, si è fermata. Qual è il problema? Cosa può significare per me e per il cinema iraniano se mi proibiscono di lavorare? “Siamo vivi. Esistiamo ancora”.

Poi, dopo l’affermazione tranquilla “non mi nascondo più”, ricorda che la prima protesta contro il velo obbligatorio risale al marzo del 1979, e il documentario mostra molti ragazzi che gridavano “morte alle donne senza hijab”. Ora, dice, tutto il Paese è sceso in strada per una ragazza, Masha Amini. “Forse dovevamo fare tutto questo percorso”.

Settimana News

Liturgia Messa del Giorno 30 DICEMBRE – SESTO GIORNO FRA L’OTTAVA DI NATALE

Canti per la Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe /A - 28  dicembre 2025 » Diocesi di Tivoli e di Palestrina

Colore Liturgico bianco

Antifona
Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose
e la notte era a metà del suo rapido corso,
la tua parola onnipotente, o Signore,
è scesa dai cieli, dal tuo trono regale. (Sap 18,14-15)

Si dice il Gloria.

Colletta
Dio grande e misericordioso,
la nascita del tuo Figlio unigenito
nella nostra carne mortale
ci liberi dalla schiavitù antica
che ci tiene sotto il giogo del peccato.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Prima Lettura
Chi fa la volontà di Dio rimane in eterno.
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
1Gv 2,12-17

Scrivo a voi, figlioli,
perché vi sono stati perdonati i peccati in virtù del suo nome.
Scrivo a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è da principio.
Scrivo a voi, giovani,
perché avete vinto il Maligno.
Ho scritto a voi, figlioli,
perché avete conosciuto il Padre.
Ho scritto a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è da principio.
Ho scritto a voi, giovani,
perché siete forti
e la parola di Dio rimane in voi
e avete vinto il Maligno.
Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!

Parola di Dio.

Salmo Responsoriale
Dal Sal 95 (96)

R. Gloria nei cieli e gioia sulla terra.
Oppure:
R. Lode, a te, Signore, re di eterna gloria.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome. R.

Portate offerte ed entrate nei suoi atri,
prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra. R.

Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
È stabile il mondo, non potrà vacillare!
Egli giudica i popoli con rettitudine. R.

Acclamazione al Vangelo
Alleluia, alleluia.

Un giorno santo è spuntato per noi:
venite, popoli, adorate il Signore,
oggi una grande luce è discesa sulla terra.

Alleluia.

Vangelo
Anna parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 2,36-40

[Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.] C’era una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

Parola del Signore.

Sulle offerte
Accogli con bontà, o Signore,
l’offerta del tuo popolo
e per questo sacramento di salvezza
donaci di conseguire il possesso dei beni eterni,
nei quali crediamo con amore di figli.
Per Cristo nostro Signore.

Antifona alla comunione
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia. (Gv 1,16)

Oppure:

La profetessa Anna si mise a lodare Dio
e parlava del bambino
a quanti aspettavano la redenzione. (Lc 2,38)

Dopo la comunione
Saziati dei santi misteri,
ti preghiamo umilmente, o Signore:
concedi al tuo popolo di testimoniare nelle opere
l’insegnamento che ci hai trasmesso.
Per Cristo nostro Signore.

Lettura e Vangelo del giorno 30 Dicembre 2025

Prima Lettura
Chi fa la volontà di Dio rimane in eterno.
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
1Gv 2,12-17

Scrivo a voi, figlioli,
perché vi sono stati perdonati i peccati in virtù del suo nome.
Scrivo a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è da principio.
Scrivo a voi, giovani,
perché avete vinto il Maligno.
Ho scritto a voi, figlioli,
perché avete conosciuto il Padre.
Ho scritto a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è da principio.
Ho scritto a voi, giovani,
perché siete forti
e la parola di Dio rimane in voi
e avete vinto il Maligno.
Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!

Parola di Dio.

Salmo Responsoriale
Dal Sal 95 (96)

R. Gloria nei cieli e gioia sulla terra.
Oppure:
R. Lode, a te, Signore, re di eterna gloria.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome. R.

Portate offerte ed entrate nei suoi atri,
prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra. R.

Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
È stabile il mondo, non potrà vacillare!
Egli giudica i popoli con rettitudine. R.

Acclamazione al Vangelo
Alleluia, alleluia.

Un giorno santo è spuntato per noi:
venite, popoli, adorate il Signore,
oggi una grande luce è discesa sulla terra.

Alleluia.

Vangelo
Anna parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 2,36-40

[Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.] C’era una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

Parola del Signore.

Liturgia domenica 04 Gennaio 2026 Messa del Giorno II DOMENICA DOPO NATALE

Colore Liturgico  Bianco

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Antifona
Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose
e la notte era a metà del suo rapido corso,
la tua parola onnipotente, o Signore,
è scesa dai cieli, dal tuo trono regale. (Sap 18,14-15)

Si dice il Gloria.

Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
luce dei credenti,
riempi della tua gloria il mondo intero,
e rivelati a tutti i popoli
nello splendore della tua luce.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Oppure:

O Dio, nostro Padre,
che nel Verbo venuto ad abitare in mezzo a noi
riveli al mondo la tua gloria,
illumina gli occhi del nostro cuore,
perché, credendo nel tuo Figlio unigenito,
gustiamo la gioia di essere tuoi figli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Prima Lettura
La sapienza di Dio è venuta ad abitare nel popolo eletto.
Dal libro del Siràcide
Sir 24,1-4.12-16 (NV) [gr. 24,1-2.8-12]

La sapienza fa il proprio elogio,
in Dio trova il proprio vanto,
in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria.
Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca,
dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria,
in mezzo al suo popolo viene esaltata,
nella santa assemblea viene ammirata,
nella moltitudine degli eletti trova la sua lode
e tra i benedetti è benedetta, mentre dice:
«Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine,
colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda
e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe
e prendi eredità in Israele,
affonda le tue radici tra i miei eletti” .
Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creata,
per tutta l’eternità non verrò meno.
Nella tenda santa davanti a lui ho officiato
e così mi sono stabilita in Sion.
Nella città che egli ama mi ha fatto abitare
e in Gerusalemme è il mio potere.
Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso,
nella porzione del Signore è la mia eredità,
nell’assemblea dei santi ho preso dimora».

Parola di Dio.

Salmo Responsoriale
Dal Sal 147

R. Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi.

Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli. R.

Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce. R.

Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi. R.

Seconda Lettura
Mediante Gesù, Dio ci ha predestinati a essere suoi figli adottivi.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini
Ef 1,3-6.15-18

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
Perciò anch’io [Paolo], avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.

Parola di Dio.

Acclamazione al Vangelo
Alleluia, alleluia.

Gloria a te, o Cristo, annunciato a tutte le genti;
gloria a te, o Cristo, creduto nel mondo. (Cf. 1Tm 3,16)

Alleluia.

Vangelo
Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 1,1-18

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.

Parola del Signore.

Forma breve:

Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 1,1-5.9-14

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.

Parola del Signore.

Si dice il Credo.

Sulle offerte
Accogli, o Signore,
i doni che ti offriamo
e santificali per la nascita del tuo Figlio unigenito,
che ci indica la via della verità
e promette la vita eterna.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.

Antifona alla comunione
A quanti lo hanno accolto
il Verbo incarnato ha dato potere di diventare figli di Dio. (Cf. Gv 1,12)

Dopo la comunione
Signore Dio nostro,
questo sacramento agisca in noi,
ci purifichi dal male
e compia le nostre giuste aspirazioni.
Per Cristo nostro Signore.