
di: Fabrizio Mandreoli e Clara Donini
Settimana News
Pubblichiamo il racconto in divenire di una duplice esperienza di (co)educazione nel contesto del carcere di cui abbiamo già dato brevemente conto sulla nostra rivista. La prima esperienza ha luogo nella scuola superiore del carcere di Bologna ed è sostenuta e animata dal centro studi Insight in collaborazione con varie associazioni e istituzioni tra cui ricordiamo l’Istituto di ricerca per le Scienze delle religioni di Firenze della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. La seconda è collegata a un progetto di presenza nella struttura detentiva dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Bologna collegato alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. Il presente articolo uscirà in altra versione anche in altre sedi e contesti che qui ringraziamo.
Tu prova ad avere un mondo nel cuore. E non riesci ad esprimerlo con le parole [1]
[…] è possibile ascoltarsi, comunicare è possibile condividere, accettarsi, aiutarsi, lasciarsi aiutare, è possibile ed è urgente, è possibile ed è urgente la parola efficace di una speranza operosa, si può camminare, bisogna camminare insieme [2]
Sono circa quattro anni – dall’autunno 2021 ad oggi – che nel carcere di Bologna, comunemente chiamato la Dozza, si ha una singolare e inedita possibilità di studio a livello universitario della teologia e delle scienze religiose.
Si tratta di un percorso iniziato nel solco di alcune esperienze precedenti. Alcune più remote con il progetto che ha dato vita al docufilm Dustur di Marco Santarelli e Ignazio de Francesco sulla Costituzione, il carcere, l’Islam e, ancor più indietro nel tempo, con l’esperienza di collegamento tra riflessione religiosa, Università e carcere compiuta da Pier Cesare Bori.
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Un’esperienza più recente che sta sullo sfondo è quella che avviene nella scuola superiore del carcere, in cui da diversi anni si svolge un laboratorio permanente – legato all’insegnamento della religione reinterpretato per un contesto pluri-religioso e multi-culturale – su Religioni, visioni del mondo e letteratura. Il laboratorio, per tutto l’anno scolastico, consiste nel creare uno spazio di lettura, ascolto e conversazione con un dialogo collettivo su poesie, romanzi, testi religiosi e film alla ricerca dei significati e delle sapienze fondamentali dell’esperienza umana.
Il progetto coinvolge una classe femminile e varie sezioni maschili – bassa sicurezza o detenuti comuni, protetti e – fino all’anno scorso – alta sicurezza – e prevede la compresenza in aula del docente, di altri insegnanti, di studenti e tutor volontari dall’esterno. Ciascuna classe è un microcosmo altamente eterogeneo per età, nazionalità, contesto di provenienza e credo religioso, all’interno del quale dialogano e si confrontano persone detenute e persone «libere», generando uno scambio stimolante e arricchente per entrambe le parti.
Il metodo di lavoro ricalca alcune prassi, liberamente riadattate, della Philosophy for Children. Nel corso della lettura collettiva in classe ci si lascia interrogare dal testo, i cui spunti fungono da stimolo per uno scambio libero e spontaneo di pensieri e risonanze personali. L’ausilio di una storia altra, in cui vedere il riflesso della propria, il riferimento a personaggi coinvolti nella trama con cui identificarsi o a una situazione in cui potersi riconoscere, consente ai presenti di dare voce a qualcosa di sé e della propria vita in maniera indiretta, garantendo una certa tutela della propria sfera più intima e dei vissuti più vivi e, spesso, più faticosi e dolorosi.
In questo spazio protetto, il rapporto tra Ulisse e il figlio Telemaco diventa occasione per esprimere lo strappo causato dalla distanza dagli affetti; i racconti di Cornelia Paselli, sopravvissuta alla strage di Monte Sole, fanno da specchio ai ricordi nostalgici della semplice vita agreste condotta dai propri nonni; l’invocazione di Giona nel ventre della balena diventa l’immagine di chi riconosce con amarezza di rivolgersi a Dio unicamente quando è inghiottito dai propri abissi; la visione del film Cesare deve morire permette di comprendere la forza della frase finale di uno dei protagonisti del film: «Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata davvero una prigione».
Oltre al tema estremamente vivo degli affetti, emergono facilmente altre questioni fondamentali, quali il rapporto con il tempo, completamente plasmato dallo scorrere dei mesi e degli anni di carcerazione – quelli già trascorsi e quelli ancora da scontare; il rapporto con, la colpa, con il «bene e il male» di cui è intriso il proprio passato; e il rapporto, spesso ambivalente, nei confronti di una prospettiva di vita futura, talvolta del tutto assente o molto complessa. E ancora, il tema della sofferta emarginazione e dello stigma sociale, la percezione di essere invisibili, persino inesistenti, agli occhi del mondo che sta «fuori le mura».
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Sullo sfondo di questo lavoro, in collaborazione stretta con il cappellano Marcello Matté e con il preside[3] della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e i direttori dell’ISSR[4], negli ultimi anni si è rilevato un interesse crescente da parte di un piccolo gruppo di persone detenute verso uno studio metodico, approfondito delle tradizioni religiose, dei loro testi e contesti a partire da un’attenzione per la tradizione cristiana per allargarsi poi verso altre prospettive e orizzonti.
Ha preso così avvio un percorso che si è strutturato in seminari aperti sulla teologia cristiana nella sua relazione con altre tradizioni religiose e filosofiche, in una serie di corsi nelle sale e aule del carcere, nell’individuazione di alcuni insegnanti che accompagnano il cammino di circa una decina di persone che si cimentano nello studio e nella ricerca per ottenere la laurea breve presso l’ISSR di Bologna in Scienze Religiose.
Un percorso così impostato, che prevede lo svolgimento di lezioni ed esami in presenza, nonché visite periodiche da parte dei tutor di supporto al progetto, non è esente da attriti con una realtà carceraria che si presenta ruvida nelle sue rigidità e, al contempo, imprevedibile. Se, da un lato, ci si scontra spesso con una macchina dai tempi lenti, fatta di lungaggini e ostacoli burocratici nell’ottenimento delle autorizzazioni necessarie, dall’altro si è inevitabilmente chiamati ad esercitare la massima flessibilità e disponibilità di fronte ai repentini cambiamenti di regolamenti, disposizioni e ordini di servizio, che impongono frequenti riadattamenti delle modalità di lavoro.
I docenti coinvolti osservano con stupore come i tempi, in carcere, si rivelino spesso relativi: se talvolta si restringono a causa di imprevisti, altre volte si dilatano, soprattutto in assenza di un intervento da parte del personale di servizio volto a garantire il rispetto degli orari di chiusura delle lezioni. Per quanto concerne gli spazi, le aule, durante le lezioni, sono inevitabilmente raggiunte dai rumori e dalle voci che scandiscono la vita carceraria – suoni metallici di chiavi e sbarre, richiami degli agenti, proteste, urla, echi di partite di calcio, sporadici «rituali» di saluto per chi giunge a fine pena o viene trasferito – che si alternano a momenti e giornate dai toni più pacati e (apparentemente) tranquilli.
Tuttavia, pur in presenza di elementi che rendono il percorso formativo più complesso e meno lineare rispetto a un tradizionale corso di laurea «fuori le mura», il progetto si è progressivamente consolidato e ci pare di poter dire che si tratta, ad ora, di un’esperienza importante ed eloquente per più ragioni. Desideriamo ricordarne qui, sinteticamente, alcune.
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Per cominciare, risulta molto importante la formazione di un gruppo di persone che in un ambiente duro, spesso diseducativo e violento, come quello del carcere – gli studenti hanno spesso pene molto lunghe o l’ergastolo – si impegnano in un percorso serrato, con lezioni, letture, studio delle lingue e confronti molteplici. Si è, così, formata una piccola comunità di «studiosi» della teologia che in questo studio hanno trovato una fonte importante di vita, ricerca, dialogo, amicizia, di impegno costruttivo del tempo. Un piccolo gruppo che sfida, attraverso lo studio e l’impegno, il clima infantilizzante, spesso disperante e demotivante della vita in detenzione.
A questo va aggiunto come si sia, pian piano, formato un corrispondente collettivo di insegnanti formato da laici e laiche, presbiteri, religiose e di tutor[5] – giovani trentenni appassionatisi a questo percorso umano e intellettuale – che lavorano insieme con gli studenti. È un gruppo di lavoro che combina un’offerta seria dal punto di vista intellettuale con una coltivata attenzione e sensibilità per il contesto in cui si insegna e che risulta caratterizzato dalla capacità di muoversi in maniera collettiva.
Si tratta così di un vero laboratorio di teologia contestuale: prendere la parola come professori – e come tutor – all’interno del carcere porta, infatti, in maniera quasi naturale a chiedersi come parlare, come affrontare i temi in un ambito in cui la sensibilità risulta spesso profondamente ferita con tensioni e conflitti visibili ad occhio nudo. Il dialogo e la frequentazione prolungata con le persone dentro può influenzare così gli insegnanti a livello personale e a livello accademico.
Infatti, accompagnare e insegnare all’interno del carcere – è una convinzione da noi condivisa – richiede un lavorio non piccolo su di sé a partire dai sentimenti suscitati nel trovarsi esposti ad un’istituzione totale che non raramente spersonalizza, svilisce e riduce le persone a cose. Nell’insegnare dentro si sperimenta una spinta al cambiamento nell’uso delle parole, negli atteggiamenti, nel modo di «sentire» gli studenti e le loro vicende, nella necessaria lealtà e sincerità rispetto alle cose dette, nella crescita di una consapevolezza anche politica e sociale delle cose insegnate. La sofferenza umana di storie spesso sbagliate o storte che si coagula e si incontra in carcere può divenire un appello progressivo ad una maggiore autenticità come persone e come insegnanti.
La stessa teologia risente di tale lavoro e non pare uscirne indenne. Talora l’accademia – anche quella teologica – porta chi parla a sentirsi superiore, a gustare una certa asimmetria verso gli studenti, a muoversi da una posizione di supposta superiorità, in un mondo di idee non davvero verificato dall’esistenza. Il lavoro in carcere e quindi il contatto con problemi giganteschi – umani, personali, famigliari, sociali, giuridici e politici – aiuta, invece, a intuire che ognuno è chiamato a dare, semplicemente, il proprio contributo alla vita delle persone e, in modo più ampio, alla comunità ecclesiale e alla società, facendo bene, con responsabilità e bontà, il proprio mestiere, ma consapevoli che è solo – come si dice – una goccia nel mare.
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Anche i contenuti teologici non sono esenti da questo «bagno di realtà» e indenni nell’attraversare questo territorio di frontiera umana. La teologia e la filosofia hanno, certo, bisogno del lavoro di scavo, ossia di studiare le fonti, di comprenderne le idee, di evidenziarne le dialettiche, di coglierne i nessi, di percepire le conseguenze etiche e spirituali, ma in questa serie di operazioni le persone che sono da più tempo in carcere premono, anche senza volerlo, per la chiarezza, l’essenzialità, per uno scambio leale, per la possibilità di dire cose che si sono in qualche modo sperimentate, per la fondatezza delle idee e delle prospettive.
Tutte le parole chiave della teologia e delle Scritture risuonano in maniera diversa e più intensa: colpa, punizione, peccato, giudizio, uccisione, sacrificio e poi grazia, redenzione, salvezza, riscatto. Il vocabolario teologico ne esce, così, più autentico, più inspessito di vita ed esperienza, più serio e più umile.
La stessa nostra considerazione delle prospettive della teologia e della Bibbia sembra affinarsi e approfondirsi. Non si può riflettere sui testi della tradizione cristiana e sui testi importanti delle tradizioni filosofiche e religiose dell’umanità senza avvertire il bisogno di collocarli in un orizzonte di fondo. Si tratta per noi – pur rispettando il carattere aperto e non confessionale del nostro lavoro nella struttura carcere – di un orizzonte di giustizia che emerge da una certa lettura delle Scritture e da una serie di prassi umane collettive.
L’attraversamento della realtà del carcere aiuta a comprendere che la giustizia – che si ispira, in qualche modo, alla vicenda singolarissima e paradossale di Gesù di Nazareth e al suo annuncio seminale del Regno di Dio – è un percorso che ha come prospettiva la riparazione e la ricomposizione. Una giustizia che coltiva, in diversi modi e a più livelli, la consapevolezza del male, il desiderio di fermare il contagio del male e della violenza, in un desiderio di verità e di coraggio, di possibilità di parlarsi e di sentire il proprio e l’altrui dolore, di ricostruire faticosamente un possibile futuro insieme, di difendere e riscattare le vittime e, nello stesso tempo, di cercare di «salvare» i perpetratori del male da loro stessi e dal male compiuto.
È l’orizzonte, quindi, di una giustizia che ripara, che ricuce, che non rimuove o nasconde il dolore delle vittime e i loro traumi, ma che cerca di curarli con attenzione e serietà, con un senso acuto della vita delle persone, delle vite umiliate e offese, e un correlativo senso di un possibile futuro personale e collettivo.
L’esperienza di insegnamento e apprendimento della teologia in carcere, insieme con la lettura collettiva e interrogante di testi della letteratura e della poesia, desiderano quindi muoversi, per quanto possibile, in un orizzonte che non vuole «rassegnarsi al peggio, ma desidera inventare, con umana attenzione e dedizione, qualcosa che aiuti a vivere, a respirare, a sperare; perché ci si possa guardare in faccia senza paura, senza vergogna, senza sottintesi amari, ma con quella volontà di bene che è in definitiva, espressione dell’unica resistente e convincente e coraggiosa speranza[6]».
[1] Testo di Fabrizio De André ricordato e commentato recentemente in un dialogo in classe da uno studente in detenzione a Bologna.
[2] P. Serrazanetti, Una parola straordinariamente amica, Bologna 2004, 204.
[3] P. Fausto Arici.
[4] Prima Marco Tibaldi e poi sr. Mara Borsi.
[5] Ricordiamo le persone coinvolte ad ora come insegnanti e/o come tutor: Riccardo Merighi, Martina Mignardi, Elsa Antoniazzi, Marco Bernardoni, Marco Salvioli, Dino Cocchianella, Maurizio Rossi, Michele Grassilli, Michele Zanardi, Michela Mastroianni, Paolo Bovina, Giovanni Turbanti, Marcello Matté, Giovanni Patton, Gianluca Guerzoni, Anna Dore, per il coordinamento con la Facoltà e l’ISSR Marina Chirico.
[6] P. Serrazanetti, La speranza resistente, Bologna 2005, 42.