Nuova Collezione FW24 - Pittarello

Lo scisma metodista: nasce la Global Methodist Church

di: Luca Vona – settimananews

Alcuni vescovi della Global Methodist Church

Alcuni vescovi della nuova Global Methodist Church

settimananews

Nella città di San José, in Costa Rica, durante l’ultima settimana di settembre, è stata ufficialmente fondata la Chiesa Metodista Globale (Global Methodist Church, GMC). Sebbene i primi passi formali di questo nuovo movimento siano stati compiuti a maggio 2022, il primo congresso generale si è svolto dal 20 al 26 settembre 2024, segnando l’inizio ufficiale della denominazione.

Con il tema «Affinché il mondo conosca», oltre 300 delegati si sono riuniti, rappresentando 4.733 comunità locali provenienti da 17 paesi, ai quali si sono aggiunte altre sei comunità durante l’incontro in Costa Rica.

La decisione di separarsi dalla Chiesa Metodista Unita (United Methodist Church, UMC) è stata presa a causa delle divergenze su questioni legate alla sessualità e al matrimonio, in particolare relativamente ai matrimoni tra persone dello stesso sesso e all’ordinazione di ministri omosessuali.

La GMC si propone come una chiesa fondata sulla dottrina tradizionale metodista, che afferma la sessualità umana come un dono di Dio da esprimere all’interno del matrimonio tra un uomo e una donna. La sua visione del mondo è fortemente radicata nei valori della santità personale e della salvezza, con una grande attenzione alla purezza dottrinale.

La scissione dalla Chiesa Metodista Unita ha coinvolto più di 7.900 congregazioni, delle quali circa 3.700 hanno già aderito alla GMC. Molte altre chiese stanno ancora decidendo se unirsi alla nuova denominazione, mentre altre preferiscono restare indipendenti o creare reti informali.

La GMC è emersa in un momento di declino di molte denominazioni protestanti negli Stati Uniti, sia liberali che conservatrici. Storicamente, il metodismo non è mai stato congregazionalista. Seguendo la tradizione ecclesiologica avviata dal fondatore, John Wesley, le chiese metodiste sono sempre state organizzate collettivamente, spesso sotto la guida di vescovi. Tuttavia, il dibattito su come organizzare la leadership episcopale è stato uno dei principali punti di discussione durante la conferenza della GMC. Sono stati eletti sei vescovi temporanei per supportare i tre già in carica, con un approccio itinerante e una responsabilità condivisa su più regioni.

Un aspetto chiave della GMC è il suo legame con le comunità cristiane africane. Mentre la Chiesa Metodista Unita si divideva sulle questioni legate alla sessualità, i metodisti globali hanno formato alleanze forti con le chiese africane, che hanno avuto un ruolo determinante nel mantenere posizioni teologiche tradizionali. Il futuro della GMC sembra sempre più orientato verso una crescita globale, con una significativa espansione in Africa e in altre regioni del mondo.

Nonostante le sfide legate alla fondazione di una nuova denominazione in un contesto religioso sempre più orientato verso chiese indipendenti e nondenominazionali, la GMC spera di preservare la tradizione wesleyana, con la sua enfasi sulla grazia preveniente, sulla santificazione personale e sulla trasformazione sociale attraverso la fede in Dio. Con la sua Conferenza Generale del 2026 programmata in Africa, la GMC si propone di rafforzare la sua identità come una chiesa veramente globale e radicata nella tradizione metodista.

Giganti sulla via del Concilio

di: Luigi Alici – settimananews

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In un originale elogio della pazienza, Rainer Maria Rilke ci invita a saper aspettare, impegnandoci in una “gestazione lunga”: «Quando si vivono le domande, / forse, piano piano, si finisce, / senza accorgersene, / col vivere dentro alle risposte / celate in un giorno che non sappiamo». Ma quando l’orizzonte storico si dilata è soprattutto la speranza ad alimentare una semina davvero profetica. È perciò essenziale saper rintracciare dentro l’intreccio di domande e di risposte in cui siamo immersi l’eredità viva di profeti di speranza, veri e propri giganti dello spirito che ci consentono di salire sulle loro spalle.

L’immagine di Giovanni di Salisbury dà il titolo a una grande opera, curata da Marco Vergottini (Sulle spalle di giganti. Storie cristiane dal Vaticano II, Vita e Pensiero 2024, pp. 381), dedicata a trentanove figure che attraversano il panorama italiano del Novecento, disposte in ordine cronologico come una costellazione di punti di luce orientati verso la stella polare del Concilio Vaticano II.

L’interpretazione del Concilio che, secondo il curatore del volume, è «un punto di non ritorno sul fronte del vissuto ecclesiale, dell’intelligenza teologica e della coscienza di ogni buon credente» (p. 9), garantisce la coerenza unitaria di un affresco in cui si compongono armonicamente percorsi plurali e convergenti.

I contributi, affidati ad autori competenti e appassionati, rileggono il messaggio di questi testimoni, enucleandone il legame – diretto e indiretto – nei confronti dell’evento conciliare; si concludono tutti con una utile notizia biografica, rimandando, tramite un QR code, a una sezione bibliografica online.

Qui se ne possono offrire solo cenni inevitabilmente selettivi, attraverso qualche chiave di lettura trasversale.

Un posto di rilievo è occupato anzitutto dal primato della Parola di Dio, che nel cardinale Martini si congiunge all’invito ad affidarsi agli «imprevisti dello Spirito» (Marco Vergottini) e che nella madre Canopi valorizza la lectio divina per una spiritualità dell’abbandono (Mariella Carpinello).

Non meno originali e sfidanti gli approcci alla Scrittura da parte di laici cristiani, particolarmente attenti alla Bibbia ebraica come Paolo de Benedetti (Piero Stefani), e all’unità dei cristiani come Maria Vingiani (Adelina Bartolomei), senza separare mai attesa del Regno e abisso del male come Sergio Quinzio (Claudio Ciancio).

Una seconda chiave di lettura emerge attraverso approfondimenti, cordiali e non regressivi, del rapporto tra fede e storia, tra Chiesa e mondo, che preparano e rilanciano Gaudiun et spes: Giorgio La Pira e Giuseppe Lazzati, rispettivamente affidati a Massimo de Giuseppe e a Luciano Caimi, manifestano un’attenzione nuova alla laicità nella storia. L’Italo Mancini di Piergiorgio Grassi traduce filosoficamente tale attenzione nella doppia fedeltà a Dio e alla storia, che Pietro Scoppola, secondo Beppe Tognon, rilegge storicamente alla ricerca di una laicità positiva, e che in Aldo Moro (affidato a Guido Formigoni) diviene forma politica del dialogo, spinta fino all’eroismo.

Su questa linea s’incontrano anche impegnativi contributi teologici, nei quali è evidente un’atmosfera (pre)conciliare: tra gli altri, Piero Coda valorizza in Luigi Sartori la sinergia del doppio movimento tra Dio e l’umanità; Franco Giulio Brambilla interpreta la figura di Luigi Serenthà come teologo conciliare, aperto alla Pasqua di Gesù; Sergio Tanzarella evidenzia nel vescovo Cataldo Naro un incontro senza compromessi tra fede e storia.

Un terzo percorso lascia trasparire una nuova libertà nella vita cristiana, che anticipa – non senza immeritate incomprensioni – molte novità conciliari. È il caso di Carlo Carretto, che sperimenta una originale forma di purificazione spirituale, tra «la Chiesa e il deserto» (Gianni Di Santo). Senza dimenticare il contributo di Luigi Pareyson a una originale filosofia della libertà (Giovanni Ferretti), è molto ricco l’elenco dei «profeti scomodi» della libertà cristiana, che insegnano a guardare alla pace e alla fraternità planetaria, oltre un cattolicesimo ideologico: come Giuseppe Dossetti (Fabrizio Mandreoli), padre Benedetto Calati (Guido Innocenzo Gargano), padre David Maria Turoldo (Maria Cristina Bartolomei), padre Ernesto Balducci (Bruna Bocchini), don Lorenzo Milani (Alessandro Andreini).

Una ulteriore e non meno interessante chiave di lettura ci è offerta dalla galleria di volti femminili, già in cammino verso il Concilio; un elenco ancora un po’ avaro, rispetto all’attualità, ma qualitativamente vivace e rilevante. Basterebbe ricordare l’impegno teologico di Adriana Zarri, descritta da Mariangela Maraviglia come «una mistica tra lotta e contemplazione», e di Maria-Luisa Rigato, presentata da Marinella Perroni come la «rivoluzione gentile» di Miss Biblicum. Sul piano dell’impegno politico che si alimenta di un’ispirazione cristiana alta ed esigente, appaiono esemplari le figure Maria Eletta Martini (Daniela Mazzucconi) e di Tina Anselmi (Rosy Bindi).

Da ultimo, il libro riserva giusta attenzione a figure, forse meno vistose ma cruciali, che si sono assunte il compito non facile di “traghettare” il Concilio sui sentieri non facili della sua attuazione. Spiccano al riguardo figure importanti di vescovi, come Loris Francesco Capovilla, di cui Marco Roncalli ricorda la fedeltà a papa Giovanni; Enrico Bartoletti, impegnato a guidare il cammino postconciliare della Chiesa italiana (Marcello Brunini); Achille Silvestrini, al quale Gianfranco Brunelli attribuisce un «martirio della pazienza»; Luigi Bettazzi, che si fa fino alla fine pellegrino di pace e infaticabile comunicatore (Luca Rolandi); don Tonino Bello, che traduce la sensibilità conciliare in un’attenzione radicale agli ultimi e alla pace (Vito Angiuli). Non si può tralasciare, infine, Vittorio Bachelet, che traghetta l’Azione cattolica sui sentieri della «scelta religiosa», offrendo un servizio prezioso alla semina dello spirito conciliare nella coscienza laicale.

Questi semplici (e incompleti) suggerimenti di lettura lasciano già intravedere una comunità invisibile di «profeti dell’incompiuto», cui lo spirito del Concilio conferisce, quasi retroattivamente, lo statuto di «popolo in cammino». Sentieri, volti e storie di vita accomunati da un’«aria di famiglia», che meritano di essere ricordati e onorati; soprattutto in questo frangente storico, in cui avvertiamo, mentre gli orizzonti si abbassano e lo smarrimento dilaga, il riemergere di un senso dell’incompiuto nel cammino della Chiesa, che ci sfida e ci interpella.

C’è anche per noi un dovere di restituzione in avanti, che consiste, per tornare a Rilke, in quella capacità di «vivere le domande» che consentirà un «vivere nelle risposte». E, se oggi ci pare di essere un po’ orfani di nuovi testimoni, scomparsi o forse solo meno visibili, abbiamo bisogno più che mai di riaprire la via del Concilio a quella sinodalità che può andare incontro alle generazioni future solo donando a un intero popolo in cammino «spalle da giganti».

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Difficile sfuggire al fascino delle parole attribuite, nel XII secolo, da Giovanni di Salisbury a Bernardo di Chartres, suo maestro: «Siamo come nani assisi sulle spalle di giganti, cosicché possiamo vedere più cose e più lontano non per l’acume della nostra vista o per l’altezza del nostro corpo, ma poiché siamo sollevati più in alto dalla loro statura».

L’aforisma evoca la questione del debito dei moderni verso gli antichi, il riconoscimento della grandezza di quanti ci hanno preceduto, il rapporto fra maestri e discepoli, e tra le diverse generazioni, ma anche la capacità e la possibilità dei moderni di vedere più lontano se sanno fare buon uso della grande opportunità loro offerta.

Per questo partiamo dalla lezione di alcuni testimoni, vissuti nell’Italia del Novecento, che hanno contribuito a far nascere, crescere e fruttificare l’evento del Vaticano II, chiedendoci come possiamo interpretarla per il presente e quale possa essere l’elaborazione critica ulteriore.

Forse, a distanza di sessant’anni, si sono un po’ affie­voliti l’entusiasmo, la fiducia, la capacità di sognare che il Concilio aveva comunicato alla nostra Chiesa e che procurò tanta gioia. Sulla spinta del pontificato di Francesco, dobbiamo però riconoscere che lo Spirito Santo non ha fatto mancare alla Chiesa figure luminose di donne e uomini, instancabili testimoni del Vangelo e autentici protagonisti nelle vicende della storia.

Con loro ci lasciamo guidare alla riscoperta della lezione conciliare ispirati da una singolare beatitudine, che invita a rile­gare insieme il tempo ‒ il passato da custodire, il presente da onorare e il futuro che ci attende: «Beato chi coltiva in cuor suo una memoria carica di speranza».

***

Marco Vergottini, teologo milanese, stretto collaboratore del cardinale Carlo Maria Martini, già vice-presidente dell’Associazione teologica italiana (2003-2011), ha ricoperto ruoli di docenza in teologia presso le Facoltà teologiche di Milano, Padova e a Palermo. Autore di saggi sul concilio Vaticano II, su Paolo VI, sul ripensamento critico della teologia dei laici.

«Nell’atto in cui il presente volume viene alla luce sento di dover esprimere il mio sincero ringraziamento a Gianfranco Brunelli, direttore de Il Regno, e ad Aurelio Mottola, direttore responsabile di Vita e Pensiero; a entrambi mi lega una pluridecennale amicizia. La riconoscenza si estende poi a Valeria Roncarati, Letizia Rovini e Martina Fracarolli, che hanno mostrato – oltre alla solerzia e alla professionalità – di condividere con passione l’iniziativa editoriale. Oltre a ricordare con stima e gratitudine tutte le amiche e gli amici che hanno collaborato con la stesura dei profili, una menzione particolare intendo esprimerla a don Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, sempre prodigo di consigli sulle scelte strategiche e sui minimi dettagli della presente opera.

Reportage. Il rabbino sopravvissuto a Hamas ora raccoglie olive con i palestinesi

I volontari di “Rabbini per i diritti umani” hanno scortato Ibrahim nell’uliveto di Jaba, circondato dagli insediamenti. Con la stagione appena iniziata sono stati già registrati dodici attacchi
I volontari di “Rabbini per i diritti umani” aiutano la famiglia di Ibrahim Altos nella raccolta delle olive nel campo di Jaba

I volontari di “Rabbini per i diritti umani” aiutano la famiglia di Ibrahim Altos nella raccolta delle olive nel campo di Jaba – .

avvenire.it

«Dai ulivo, rendi i tuoi frutti come limoni/ Dai ulivo, rendi i tuoi frutti come melograni». A intonare la melodia antica è Adam. L’ha imparata dal nonno quando, da bambino, lo accompagnava durante il tempo della raccolta. Il gruppo risponde in coro. Tutti, senza eccezioni, all’unisono – israeliani e palestinesi – ripetono la strofa in arabo, mentre insieme si arrampicano fra i rami per cogliere le olive, ormai mature. Sotto il cielo d’un azzurro accecante, nel campo di Ibrahim Altos l’atmosfera appare festosa, come vuole la tradizione per l’avvio della stagione. Di tanto in tanto, però, i partecipanti lanciano occhiate furtive alla grande torre di controllo del check-point, appena oltre la staccionata, lungo la Route 60. Quando due auto delle forze di sicurezza si avvicinano e gli agenti iniziano a scattare foto, il nervosismo aumenta: sanno che, come effettivamente accadrà, chiunque sia là, sarà sottoposto a imperscrutabili controlli per almeno un’ora al valico per rientrare a Gerusalemme.

«A quello siamo rassegnati. Speriamo non avvenga altro. Finora è andata bene. Ma di colpo può cambiare tutto», spiega, riparandosi in uno dei pochi punti d’ombra, Avi Dabush, direttore esecutivo dell’organizzazione “Rabbini per i diritti umani”. Ne fanno parte 165 volontari, in gran parte leader religiosi e studenti rabbinici delle differenti tradizioni dell’ebraismo. Quindici si trovano nell’uliveto situato alle porte di Jaba, a metà strada tra Betlemme e Hebron, a fare da “scorta” – disarmata – per la raccolta. Quella di Ibrahim è una delle quattro grandi famiglie che compongono il villaggio palestinese di 1.300 abitanti. Con i permessi di lavoro in Israele congelati da oltre un anno, i suoi 450 alberi di ulivo sono la chiave per andare avanti un altro inverno. Raggiungerli, però, non è facile nella cosiddetta Area C della Cisgiordania – sotto controllo diretto cioè dei soldati di Tel Aviv -: l’avanzata dei coloni ha trasformato questa porzione di Territori in un puzzle di isole non comunicanti. Jaba è una di queste. Il blocco di dieci insediamenti di Gush Etzion e l’opprimente muro di separazione israeliano, cingono la comunità in una stretta soffocante, isolandola dagli altri villaggi arabi. E soprattutto dai poderi agricoli e dagli uliveti intorno. Un terzo degli alberi di Ibrahim è, così, off limits perché situato dall’altra parte della barricata o pericolosamente vicino alla colonia israeliana di Bat Ayin.

«Là sparano e non vogliono mettere a rischio la vita dei miei familiari o di chi ci aiuta per delle olive», risponde Ibrahim ai volontari che si offrono di avvicinarsi alla zona. Oltre a quello dietro casa, questo terreno scosceso a ridosso del valico con i suoi duecento alberi è tutto quel che gli resta. Per questo non può permettersi di perdere la seconda stagione consecutiva. L’anno scorso, all’indomani del 7 ottobre, l’esercito di Tel Aviv ha centellinato al minimo la possibilità di raccolta «per ragioni di sicurezza». Almeno 96mila chilometri quadrati di terra sono stati letteralmente blindati secondo l’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) con una perdita di dieci milioni di dollari. «In pratica, non mi hanno consentito di raccogliere accogliere quasi nulla», racconta, mentre prepara il caffè arabo scaldando il recipiente su un fuoco acceso con rami secchi. I nipoti – entrambi Muhammed, di 5 e 11 anni – osservano incantati i suoi movimenti decisi. «Ero impiegato a Bet Shemesh nel settore delle trivellazioni. Ora non ho più l’autorizzazione per andarci. Lo stesso i miei figli. Come facciamo a vivere? Vogliamo solo lavorare… Così ho chiesto aiuto ai Rabbini per i diritti umani». L’organizzazione, dopo aver esaminato la petizione, lo ha incluso nella lista degli agricoltori da accompagnare nella raccolta che, anche stavolta, si profila una corsa ad ostacoli. Le restrizioni dello scorso anno in prossimità del confine e degli insediamenti restano in vigore: la possibilità di permessi individuali verrà valutata solo dopo il 23 ottobre, al termine delle festività ebraiche. Non si sa, però, con quanta rigidità verranno fatte applicare. Al momento, è l’incertezza il problema principale. Durante tutti i giorni del prossimo mese, dunque, divisi in gruppi di una quindicina di persone, i volontari si recheranno in una serie di “punti sensibili” per proteggere con la propria presenza i contadini dagli attacchi dei coloni che, con la guerra, sono diventati ancora più aggressivi. Lo scorso autunno, l’associazione Yash Din ha documentato 113 attacchi violenti. Con la raccolta appena iniziata, l’Ocha ne ha registrato già dodici, per un totale di 32 palestinesi feriti e ottanta piante distrutte. «Mentre ci siamo noi è più difficile che episodi simili si verifichino. E anche l’esercito si tiene a distanza. Così i raccoglitori possono lavorare in pace. Dato che ci siamo, poi, diamo una mano», sottolinea Avi Dabush che, per arrivare puntuale di primo mattino, è partito nella notte da Ber Sheva, dove risiede. «Dove sono sfollato, in realtà. Fino al 7 ottobre vivevo a Nirim, uno dei kibbutz attaccati da Hamas». Quel giorno, per otto ore, fino a quando i militari sono riusciti a raggiungere la comunità, è rimasto barricato nel bunker insieme alla moglie, ai due figli e al cane mentre i miliziani, fuori, davano la caccia ai civili. Ne hanno ucciso sette, altri cinque li hanno catturati. «Tre sono tornati vivi, di due ci hanno restituito i corpi ad agosto», aggiunge il rabbino, che porta al collo la mostrina con la scritta “Bring back home”, “riportateli a casa”. Un anno e qualche giorno dopo il massacro vissuto in prima persona, Avi è a Jaba a raccogliere le olive insieme alla famiglia del palestinese Ibrahim.

«Ora stare qui è più importante che mai – dice quando gli viene domandata la ragione della sua scelta –. Lavorare per la giustizia è l’unico modo per avere sicurezza. Il 7 ottobre è stata la tragica dimostrazione. Chi propone la forza bruta come unica via – la “soluzione Gaza” -, va contro i valori della civiltà e della fede ebraica. Lo dico da patriota e sionista». La scelta del rabbino è di certo controcorrente. Il protrarsi di una guerra di cui non si vedono obiettivi né orizzonte, tuttavia, sta provocando un malessere crescente nella società israeliana. «La maggior parte dei cittadini sostiene la necessità di una soluzione diplomatica», afferma. «All’indomani della strage, qualcuno è andato via dall’organizzazione. Alla fine, però, facendo i calcoli dodici mesi dopo, abbiamo notato che per ogni defezione ci sono state due nuove entrate», sottolinea la rabbina Dana Sharon mentre si sfila i guanti da lavoro, mostrando il braccialetto giallo simbolo della solidarietà con i rapiti da Hamas. Una delle “new entry” è Adam Rabea, il “cantore” della raccolta. «Sono il primo palestinese dell’organizzazione. Mai avrei immaginato di lavorare fianco a fianco con dei rabbini», ride l’attuale responsabile dei rapporti con le comunità della Cisgiordania per l’associazione. Adam, nato a Hizma 47 anni fa, ha militato nella resistenza armata nella Prima e poi nella Seconda Intifada e, per questo, è stato arrestato.

La reclusione e l’amicizia di Suleyman Khatib, fondatore di Combatants for peace, gli ha fatto decidere di cambiare strada. «Combatto ancora ma senza armi – sottolinea –. Quando ripercorro la mia storia, mi sembra incredibile. A lungo ho odiato tutti gli israeliani. Non sopportavo nemmeno di sentire la loro lingua. Da militante per la pace, invece, ho incontrato Michal, ebrea, e sette anni fa ci siamo sposati. Abbiamo una figlia, Alma, di quattro anni. Mentre la guardo, comprendo quanto i destini di palestinesi e israeliani siano inseparabili in questa terra fra il Giordano e il mare. Se gli uni, per assurdo, riuscissero a cacciare gli altri o viceversa, Alma resterebbe perché appartiene a entrambi i popoli. Lei è il futuro possibile».

La vergogna per lo scandalo della divisione dei cristiani

 La vergogna per lo scandalo della divisione dei cristiani  QUO-232
«Oggi esprimiamo anche la vergogna per lo scandalo della divisione dei cristiani, lo scandalo di non dare insieme testimonianza al Signore Gesù. Questo Sinodo è un’opportunità per fare meglio, superando i muri che ancora esistono tra noi». Lo afferma Papa Francesco nell’omelia per la Veglia ecumenica di preghiera svoltasi, nella sera di venerdì 11 ottobre, nel piazzale dei Protomartiri Romani in Vaticano. Erano presenti, in particolare, insieme ai membri del Sinodo anche i delegati fraterni che stanno partecipando ai lavori e rappresentanti ecumenici.

«Unità dei cristiani e sinodalità sono collegate» scrive il Papa nell’omelia, che è stata consegnata, rammentando che proprio l’11 ottobre «ricordiamo l’apertura del Concilio Vaticano ii , che ha segnato l’ingresso ufficiale della Chiesa cattolica nel movimento ecumenico». L’unità «è una grazia, un dono imprevedibile» tanto che «il vero protagonista è lo Spirito Santo che ci guida verso una maggiore comunione» fa presente Francesco. Un insegnamento «che viene dal processo sinodale è che l’unità è un cammino: matura nel movimento, strada facendo. Cresce nel servizio reciproco, nel dialogo della vita, nella collaborazione di tutti i cristiani».

Inoltre, rilancia il Papa, «l’unità è armonia». Proprio «il Sinodo ci sta aiutando a riscoprire la bellezza della Chiesa nella varietà dei suoi volti. Così l’unità non è uniformità, né frutto di compromessi o di equilibrismi». E conclude: «L’unità dei cristiani è necessaria per la loro testimonianza: l’unità è per la missione», come ricorda con forza «l’ecumenismo del sangue» dei martiri.

Osservatore Romano

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