Ucraina. L’orrore di Bucha tre anni dopo: «Vogliamo giustizia»

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La cittadina alle porte della capitale Kiev era stata assediata dai russi dal 24 febbraio al 31 marzo 2022. Oggi le celebrazioni al memoriale che contiene i resti delle oltre 630 vittime civili

Nella notte che ha preceduto l’anniversario della liberazione di Bucha dall’occupazione Russa, l’esercito di Mosca ha lanciato 111 droni e almeno un missile balistico contro l’Ucraina. La difesa aerea di Kiev ne ha abbattuti 65. Gli altri 56 erano in parte droni esca, lanciati per confondere la contraerea, e in parte sono precipitati sugli obiettivi. Soltantoo a Kiev l’allarme aereo ha superato la durata di 7 ore dalla tarda sera di domenica all’alba di lunedì. Nelle stesse ore un attacco di droni iraniani Shahed su Kharkiv ha provocato due morti e 55 feriti, tra cui cinque minorenni. Il raid ha preso di mira anche strutture sanitarie. La trattativa con Trump aveva inizialmente all’ordine del giorno una tregua limitata al Mar Nero per consentire la riapertura del corridoio marittimo del cereali ucraini. Al momento non c’è però traccia dell’intesa, così come si è arenato il negoziato Washington-Kiev per le terre rare. Fonti diplomatiche affermano che potrebbe sbloccarsi nei prossimi giorni. A far temere che un cessate il fuoco sia solo un modo per prendere tempo e riorganizzare le forze lo confermano altre notizie da Mosca. Il presidente russo Vladimir Putin ha firmato l’ordine di coscrizione di primavera. Il richiamo per la leva obbligatoria riguarderà i giovani di età compresa tra 18 e 30 anni che non sono riservisti, per un totale di 160.000 uomini informano le agenzie di stampa russe. Il ministero della Difesa assicura che i militari di leva «non saranno impiegati nella operazione speciale».

Le tracce della brutale occupazione russa a Bucha bisogna andarle a cercare. In tre anni le case spazzate via dai cannoni di Mosca sono state ricostruite, i tetti riparati. La fossa comune dove furono gettati i corpi della gran parte dei 637 civili nel primo mese di guerra, ora è un memoriale dove nei giorni in cui la politica se ne sta alla larga dalle cerimonie in diretta tv, la gente di Bucha viene a depositare fiori e a versare lacrime. Aspettando notizie certe da Mosca e Washington.

Dopo che Trump ha detto di essere «molto arrabbiato» con Vladimir Putin, dopo che questi ha minato alla credibilità di Zelensky, il leader ucraino che poche settimane prima era stato pubblicamente umiliato dallo stesso Trump alla Casa Bianca, il Cremlino ha fatto sapere che gli Stati Uniti e la Russia lavorano a un possibile accordo di pace in Ucraina e alla ricostruzione di relazioni bilaterali. Trump aveva minacciato l’imposizione di dazi dal 25% al 50% sugli acquirenti di prodotti petroliferi russi, se avesse avuto certezza che Mosca sta sabotando i piani per porre fine al conflitto. Una telefonata tra Trump e Putin potrebbe essere organizzata con breve preavviso, fanno sapere fonti delle rispettive diplomazie. «Non si rimangerà la parola data», dice il tycoon ancora una volta tendendo la mano allo zar.

A sorpresa il presidente Zelensky ha messo in giro la voce secondo cui si potrebbero organizzare elezioni entro l’estate. Una doppia sfida a Putin e Trump. Entrambi hanno messo in discussione la legittimità del leader ucraino, che sarebbe pronto a ricandidarsi che ancora gode di sondaggi favorevoli. Un problema in più per il Cremlino, che proseguendo i raid dovrebbe fronteggiare l’accusa di aver impedito il voto che necessità quantomeno di un cessate il fuoco stabile.

Il presidente Volodymyr Zelensky, la first lady Olena Zelenska e le delegazioni di due dozzine di Paesi hanno percorso i 15 chilometri da Kiev a Bucha per onorare la memoria delle vittime. C’erano rappresentanti dei parlamenti di Belgio, Regno Unito, Danimarca, Estonia, Islanda, Spagna, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Polonia, Portogallo, Slovenia, Finlandia, Croazia, Repubblica Ceca, Svezia e del Parlamento europeo. Nessuno dall’Italia. Gli Usa hanno mandato il pastore Mark Burns, consigliere spirituale del presidente Trump.

Ricominciare non è come cambiare canale. Il dolore e lo spavento lascia segni che non andranno più via. Una donna piomba sulla piccola folla urlando e piangendo. Non ne può più dei capricci della burocrazia che la manda avanti e indietro per ottenere un sussidio. Se potesse glielo direbbe in faccia al presidente Zelensky, giunto a Bucha per celebrare la fuga della soldataglia russa tre anni fa. Quando la ritirata apparve come lo tsunami che si ritrae lasciando solo morte e macerie.

Davanti alla città ricostruita alla svelta lungo le vie imbellettate alla svelta per non sfigurare nella giornata istituita per non dimenticare, il presidente Volodymyr Zelensky ha detto che «il mondo ha visto cos’è veramente l’occupazione russa: persone uccise per strada, persone torturate, tombe nei cortili di case comuni. Da allora, nessuno può dire di non sapere cosa sta difendendo l’Ucraina».

Le vie principali sono quelle che oramai chiamano “via crucis di Bucha”: il tombino dentro a cui fu gettato il corpo crivellato del borgomastro, il marciapiede sul quale per giorni rimase il cadavere di un vecchietto colpito alle spalle mentre pedalava verso casa. Non era permesso uscire allo scoperto anche solo per mettere un lenzuolo sopra a quello che restava di una vita.

Il cimitero di Bucha racconta i crimini tomba dopo tomba. «Finché non avremo giustizia per loro Bucha non potrà dirsi liberata». È il mantra della città brutalizzata senza che vi fosse neanche il tempo di organizzare la resistenza armata dall’interno. Lo ripete chi dalle finestre di casa ha visto i carri armati inseguire e schiacciare le utilitarie. Chi non ha potuto fare altri che rintanarsi nelle cantine dopo aver osservato i soldati sfondare la porta d’ingresso dei vicini, e trascinare fuori il capofamiglia, fucilato in giardino davanti alla moglie. E quel che hanno fatto a lei lo spiegano abbassando il capo e portandosi le mani alle orecchie.

La tragica Spoon River della cittadina appena fuori Kiev racconta l’assedio giorno dopo giorno, dal 24 febbraio al 31 marzo 2022. Le date di morte sono la cronologia dell’occupazione. Le lastre di marmo scure coprono intere famiglie. I genitori con i figli, seppelliti insieme. A decine, nel piccolo camposanto che in pochi mesi ha dovuto quadruplicare i lotti. Era il villaggio diventato città da 30 mila anime, dopo che tante giovani famiglie dalla vicina capitale si erano trasferite per comprare una piccola dacia nel pacifico verde della grande periferia, e sfuggire al caos della metropoli. Alcune sono andate via. Altre tornano per non scappare via per sempre da quello che non si potrà mai cancellare.

«Saremo liberi quando avremo avuto giustizia per quello che ci hanno fatto», chiariscono i residenti che nella nebbia del primo mattino attendono spazientiti che gli impiegati dell’esercito esaminano le loro istanze. A un uomo di mezza età congedato dal servizio militare a causa di una invalidità, è stata recapitata la lettera di richiamo nelle forze armate. «Mi dicano come dovrei combattere, con le stampelle?», domanda agli altri in coda con lui. Un monumento nei pressi delle fosse comuni sarà realizzato a breve, annuncia il sindaco Anatoliy Fedoruk. Racconterà la storia di 33 giorni di occupazione. «Un corridoio scenderà sottoterra prima di riemergere alla luce, un viaggio dalla paura alla speranza».

Francia. Le Pen colpevole di frode. E arriva la condanna all’ineleggibilità

La leader xenofoba francese Marine Le Pen

La leader xenofoba francese Marine Le Pen – ANSA

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Quattro anni di carcere per aver frodato all’Europarlamento, di cui due senza condizionale da scontare con braccialetto elettronico. Non solo: cinque anni d’ineleggibilità comminati come una ghigliottina sul sogno di portare, da donna, l’ultradestra all’Eliseo. Per il prossimo lustro, in teoria, zero prospettive di farsi eleggere. A meno che non venga accolta la richiesta di un appello-lampo, finalizzato, fanno capire i legali, a “cancellare” la ricaduta penale delle condotte contestate. Una via giudiziaria da percorrere, mentre quella politica è già iniziata: «Sentenza politica», arringa Le Pen. «Giustiziata la democrazia francese», dice il giovane erede Bardella.

Ma la domanda da ieri è un’altra: la lunga corsa politica della 56enne Marine Le Pen, leader dei nazionalisti francesi, si è davvero chiusa lunedì, in un’aula parigina del tribunale di primo grado? In un giorno né caldo, né freddo? Con gli imprenditori e artigiani, arringati per anni dall’ultradestra, distratti nelle stesse ore dalle scadenze del primo trimestre?

All’ora di pranzo, quando si è saputo della condanna pesantissima venuta giù come una frana sulle ambizioni presidenziali della leader, la Francia è scivolata in un strano limbo. Il reato contestato è appropriazione indebita attribuito a ben 25 volti del Rassemblement national (Rn), nuovo nome dell’ex Front national (Fn) fondato dal “patriarca” Jean-Marie Le Pen, il padre (scomparso a inizio anno) di Marine: nel complesso, un nuovo caso di fondi stornati dell’Europarlamento, 2,9 milioni usati, nel quadro di un «sistema» per le spese di partito e non per preparare le sedute degli europarlamentari.

Ma non è solo la natura del reato a far discutere. A frastornare tanti è pure l’incongruenza apparente fra tutto ciò che da decenni il campo lepenista rappresenta di veemente, ma anche di temuto, e le parole monotone e fatali della pronuncia del verdetto.

Da tempo in testa nei sondaggi, Marine Le Pen, dopo tre aspre campagne presidenziali, di cui le ultime due perse al ballottaggio contro Emmanuel Macron, credeva vicina la propria ora, a coronamento di un’ascesa costante. Anche perché, in una Francia turbata dallo spettro del declino, proliferano risse e divisioni interne negli altri poli politici, da quello neogollista di centrodestra alla gauche, passando per gli “amici” del presidente Macron, confusi sull’identikit dell’eventuale erede. Un paesaggio politico tanto spezzettato da accreditare come mai prima l’idea di un’ultradestra a un passo dall’Eliseo. Tanto che negli ultimi tempi, imitando quasi la spavalderia del padre, Marine Le Pen si vantava d’aver vinto «la battaglia delle idee». Un modo per sottolineare che lo stesso governo del centrista François Bayrou (il quale ieri si è semplicemente detto «colpito» dalla sentenza) deve tener conto delle posizioni Rn, soprattutto su temi come sicurezza e immigrazione.

Adesso, il 31 marzo 2025 potrebbe restare negli annali come una strana data. Un probabile spartiacque, sì, ma per lo spegnimento dell’armamentario preannunciato dai lepenisti in vista del traguardo del 2027.

Doppiata da tanti altri nel partito, la diretta interessata ha rilanciato l’accusa della democrazia nel mirino di giudici opposti a una svolta ai vertici. Un registro cavalcato pure dal 29enne Jordan Bardella, il giovanissimo presidente di Rn che da ieri indossa più che mai i panni del futuro capo predestinato. Nel pomeriggio, è stato proprio lui a lanciare un appello per una «mobilitazione popolare e pacifica» di protesta.

Ancor prima che i vertici Rn si trincerassero in una riunione di crisi, i legali di Marine Le Pen hanno confermato il ricorso in appello, con la speranza di un giudizio prima delle presidenziali del 2027. Fra i condannati per appropriazione indebita, l’ex numero 2 del partito Bruno Gollnisch e Louis Aliot, attuale vicepresidente Rn e sindaco di Perpignan, già a lungo pure compagno di Marine Le Pen.

In tutta Europa, specie sul versante e sovranista, il sismografo delle reazioni ha oscillato freneticamente fino a notte fonda. «Sono Marine!», ha presto lanciato su X il premier ungherese Viktor Orbán, fra i principali alleati continentali di lungo corso di Le Pen. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, pur assicurando di non voler «interferire» con gli affari interni francesi, ha invece notato con tono serio che in generale le capitali europee «non esitano a oltrepassare i limiti della democrazia nel processo politico».

Cacciari: reagire alla “religione” dell’homo technicus

Massimo Cacciari durante il suo intervento a San Giovanni In Laterano
“Serve un’alleanza dello spirito”, che coinvolga credenti e non credenti, per opporsi alla “catastrofe antropologica” della fine della politica autentica, l’unica che può liberare la società dalla tecnocrazia. L’appello del filosofo nel dibattito presso San Giovanni in Laterano, per la presentazione della ricerca del Censis “Il lavoro dello spirito e la responsabilità del pensiero cattolico”
Fabio Colagrande – Città del Vaticano vatican news

“Il nostro modo di intendere la ‘creazione continua’ va rielaborato, sapendo che non sarà la tecnocrazia a salvarci”. Lo ricordava recentemente Papa Francesco, nel Messaggio ai partecipanti all’Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, dedicata al tema “The End of the World? Crises, Responsibilities, Hopes”. Nel testo, il Pontefice – riprendendo temi trattati nell’enciclica Laudato si’ – spiegava che “assecondare una deregulation utilitarista e neoliberista planetaria significa imporre come unica regola la legge del più forte; ed è una legge che disumanizza”.

“Cosa è avvenuto nell’ultimo secolo? La disgiunzione – un fatto antropologico fondamentale la cui importanza non può sfuggirci – tra l’uomo tecnico e l’uomo politico”, ha spiegato il filosofo. “Ora c’è solo l’uomo tecnico, l’uomo economico, e l’uomo politico è in una crisi radicale”. Facendo riferimento ai temi della ricerca, e quindi al distacco della società dalla Chiesa, Cacciari ha spiegato che la “distruzione della comunità” è la stessa cosa della “distruzione della politica”. “Esistevano comunità, di tipo religioso, esistevano comunità di tipo politico, ma entrambe erano per certi versi espressioni dello spirito della politica”. Intendendo come “spirito” – ha precisato – quell’energia che mette in relazione le varie parti della nostra anima secondo una suddivisione kantiana: quella intellettuale, quella etica e quella dei giudizi di gusto.

“Occorre una grande politica per affrontarli reagendo a questa eliminazione dell’homo politicus – ha aggiunto – reagendo alla religione dell’homo technicus”. “E su questo non c’entrano credenti e non credenti”, ha precisato ancora il filosofo. “I pensanti si devono alleare, rapidamente, e combattere insieme questa battaglia”, per evitare “questa catastrofe antropologica che può avvenire anche senza bisogno di guerra”, per opporsi “alla fine di ogni possibilità di lavoro dello spirito”. “La vera politica – ha concluso – non è l’amministrazione di un condominio, la politica trascende sé sempre. Indica dei fini che non sono mai riducibili al fine individuale”.

Un momento del dibattito del 29 marzo presso la Cattedrale di Roma
Un momento del dibattito del 29 marzo presso la Cattedrale di Roma
Ascoltando l’allarme di Cacciari sui rischi di una tecnocrazia incontrollata, e di una politica a essa soggiogata, tornano in mente le parole di Antiqua et nova, la Nota vaticana sul rapporto tra intelligenza artificiale e intelligenza umana pubblicata lo scorso gennaio dal Dicastero per la Dottrina della Fede e dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione. “Il fatto che attualmente la maggior parte del potere sulle principali applicazioni dell’IA sia concentrato nelle mani di poche potenti aziende – vi si legge – solleva notevoli preoccupazioni etiche”. “Tali entità, motivate dai propri interessi, possiedono la capacità di esercitare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico”.

Informazione. Malattie rare, un premio per giovani giornalisti

Malattie rare, un premio per giovani giornalisti

Parlare di malattie rare, raccontare la storia di chi convive con le sue fragilità, paure e speranze non è mai semplice e in un mondo che corre veloce, come l’informazione che lo racconta, diventa ancora più complicato dare voce agli “invisibili”.

Il Premio Alessandra Bisceglia per la Comunicazione sociale vuole dare un riconoscimento a tutti quei giornalisti che invece, con tenacia e coraggio, queste storie di vita complicate, fuori dal comune, le racconta. C’è tempo fino al 30 aprile per presentare la propria candidatura alla nona edizione in memoria della giornalista lucana Alessandra Bisceglia, scomparsa prematuramente nel 2008 in seguito a una grave e rarissima malformazione vascolare da cui era affetta sin dalla nascita. L’iniziativa è organizzato dalla Fondazione Viva Ale Ets, costituita in suo onore, e dalla Lumsa, l’Università che aveva frequentato e dove aveva mosso i primi passi da professionista.

Il concorso è suddiviso in due sezioni: una dedicata ai giornalisti under 35, professionisti o pubblicisti, iscritti all’albo, e l’altra agli studenti delle Scuole riconosciute dall’Ordine dei giornalisti che si affacciano alla professione. Possono partecipare – recita il bando – «i servizi in lingua italiana pubblicati su quotidiani, agenzie di stampa, settimanali, periodici, testate e siti online e servizi e rubriche radiotelevisivi, podcast e multimediali sul web, foto e graphic novel di carattere giornalistico, pubblicati, trasmessi o diffusi nel periodo compreso tra il 1° marzo 2024 e il 1° marzo 2025 che abbiano attinenza con l’informazione sociale relativa alle malattie rare con particolare attenzione all’evidenza scientifica e all’equità della cura e alle buone pratiche di integrazione per le persone diversamente abili, testimoniate da episodi che esprimono etica solidale e senso civico».

Le opere in concorso dovranno essere inviate all’indirizzo di posta elettronica: premioalessandrabisceglia@fondazionevivaale.org . I vincitori di ciascuna sezione riceveranno un premio di 1.500 euro. Il 25 settembre a Roma, nell’Aula Magna dell’Università Lumsa, l’evento conclusivo di premiazione e un convegno con crediti formativi per i giornalisti.

«Il Premio – concludono gli organizzatori – vuole dare seguito a quell’esempio di tenacia e profonda motivazione che Alessandra ha testimoniato nella vita, nello studio e nella professione giornalistica. La sua storia insegna a non arrendersi mai di fronte alle difficoltà. Con impegno, determinazione si possono ottenere grandi risultati. Non importa da dove si parte e come lo si fa, l’importante è dove si arriva alla fine del viaggio».

Avvenire

Idee. Il viaggio verso Itaca, metafora della vita

Giuseppe Bottani, “Atena rivela Itaca a Ulisse”, 1775, Pavia, Pinacoteca Malaspina

Giuseppe Bottani, “Atena rivela Itaca a Ulisse”, 1775, Pavia, Pinacoteca Malaspina – WikiCommons

Avvenire

L’individualismo crescente e la perdita progressiva di valori condivisi stanno determinando una frammentazione sociale sempre più evidente, favorendo la ricerca di leadership forti e l’influenza di poteri economici sulla costruzione di un’identità collettiva. Anche le comunità cristiane risentono di queste dinamiche, manifestando una privatizzazione della fede e difficoltà nel coltivare forme autentiche di comunione. È necessario proporre un modello di unità nella diversità, che valorizzi la pluralità culturale e la ricchezza del Vangelo senza imporre uniformità, ispirandosi al Sinodo e all’immagine del poliedro. Le comunità cristiane possono così diventare un riferimento di coesione nella diversità. Di questo si occupa il dossier Pluralità delle culture e comunità proposto da “Dialoghi” curato da Giacomo Canobbio e Francesco Miano con contributi di Piero Pisarra, Giuseppe Lorizio, Vito Mignozzi, Simona Segoloni Ruta, Luigi Alici, Gennaro Ferrara, Barbara Ghiringhelli, Raffaella Iafrate. Oltre al dossier il trimestrale culturale promosso dall’Azione cattolica italiana, edito dall’Editrice Ave e diretto da Pina De Simone (della quale anticipiamo qui l’editoriale), offre contributi di Gianni Borsa, Claudio Giuliodori, Paolo Cavana, Stella Morra.

Itaca

Se ti metti in viaggio per Itaca
augurati che sia lunga la via,
piena di conoscenze e d’avventure.
Non temere Lestrigoni e Ciclopi
o Posidone incollerito:
nulla di questo troverai per via
se tieni alto il pensiero, se un’emozione
eletta ti tocca l’anima e il corpo.
Non incontrerai Lestrigoni e Ciclopi,
e neppure il feroce Posidone,
se non li porti dentro, in cuore,
se non è il cuore a alzarteli davanti.
Augurati che sia lunga la via.
Che siano molte le mattine estive
in cui felice e con soddisfazione
entri in porti mai visti prima;
fa’ scalo negli empori dei Fenici
e acquista belle mercanzie,
coralli e madreperle, ebani e ambre,
e ogni sorta d’aromi voluttuosi,
quanti più aromi voluttuosi puoi;
e va’ in molte città d’Egitto,
a imparare, imparare dai sapienti.
Tienila sempre in mente, Itaca.
La tua meta è approdare là.
Ma non far fretta al tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni;
e che ormai vecchio attracchi all’isola,
ricco di ciò che guadagnasti per la via,
senza aspettarti da Itaca ricchezze.
Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza lei.
Nulla di più ha da darti.
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
e avrai capito che vuol dire Itaca.

Konstantinos Kavafis

Non pretendiamo di dare un commento letterario della celebre poesia di Konstantinos Kavafis; non proveremo neppure a darne una esegesi fondata sulla dettagliata conoscenza della vita e delle opere del suo autore. Lasceremo piuttosto che questi versi ispirino la nostra riflessione sul viaggio che è la vita stessa e sugli incontri che ne segnano l’andare.

Nel tempo del turismo di massa, del consumo dei luoghi e delle tradizioni, secondo la logica del mordi e fuggi, vorremmo riproporre il valore del viaggio come incontro.

C’è una forza di apertura, una potenza di coinvolgimento nel viaggiare. Metafora della vita è il viaggio. E anche in questo nostro tempo attraversato più che dal disorientamento, da un senso di profondo straniamento, il viaggio, il come del nostro viaggiare, esprime quello che siamo, la percezione del reale e dell’umano che ci portiamo addosso, il nostro modo di rapportarci alle cose e agli altri, il senso che abbiamo di noi stessi.

È difficile trovare qualcuno che non abbia mai viaggiato. Si viaggia per turismo o per affari, per lavoro o per studio. Ci si sposta da un luogo all’altro per vacanza, per scoprire luoghi diversi da quello in cui si vive e goderne le bellezze. Oppure ci si sposta in altri luoghi per poter condurre la propria esistenza negli impegni che la declinano e che contribuiscono a darle forma. C’è chi viaggia anche tutti i giorni, come i tanti pendolari che incontro nella stazione dei treni ad alta velocità sul fare del giorno, quando albeggia e il cielo all’orizzonte si tinge di vividi colori. Si viaggia; e ciascuno porta con sé la propria storia, gli affetti e le ansie, i desideri e le angosce.

Potremmo chiederci, però, quanto questo viaggiare ci trasformi, quanto l’immagine dell’homo viator si addica ancora all’homo turisticus o al pendolare del nostro tempo. I luoghi che si attraversano ogni giorno o quelli a cui approdiamo nella nostra ricerca di distensione, quelli in cui trascorriamo le ore talvolta frenetiche del lavoro rischiano di essere uno scenario anonimo che non entra realmente nelle nostre vite senza luogo, senza più un luogo che dia ad esse radici, e incapaci di stare in luoghi altri se non come ospiti distratti.

Il video terribile, che è rimbalzato sui social, di una Gaza trasformata in riviera turistica di alto lusso ci restituisce l’immagine sconvolgente di quello che può diventare non solo il potere illimitato del denaro, ma una modalità di relazione ai luoghi totalmente determinata dalla logica del consumo. Nessuna capacità di lasciarsi toccare dai luoghi; nessuna volontà di ascoltarne la storia, di avvertirne il dolore, il dramma e la speranza; nessuna disponibilità a saper riconoscere quanto essi hanno di proprio, la fragilità e la forza, le ferite e le potenzialità di bene. Vale il principio di riscrivere la realtà, di riconfigurare i luoghi a partire da sé, dai propri interessi e dalla propria visione del mondo.

Certamente noi non siamo Trump e neppure uno qualsiasi dei plutocrati che lo affiancano in questa folle e pericolosa gestione del potere e delle vite degli altri. Ma possiamo chiederci quanta reale volontà di scoperta e di ascolto conduce il nostro viaggiare.

Quanto il viaggio sia metafora di una vita, la nostra, realmente aperta all’incontro con l’altro. «Augurati che sia lunga la via» non vuol dire semplicemente augurarsi che il viaggio non finisca rapidamente, ma che esso sia “via”: cammino che apre e si apre alla novità inedita e mai riducibile dell’incontro con altri e con altro. Non tutto nell’altro può essere riconosciuto come bene, ma in molti casi il pericolo che in lui vediamo è una proiezione delle nostre paure che può divenire così grande da non permetterci di percepire null’altro.

Il viaggio di per sé espone al pericolo, reca in sé il rischio che è nel muoversi e senza il quale non vi sarebbe vita ed esperienza, ma solo una difesa esasperata delle proprie sicurezze che produce stasi, rigidità, se non addirittura aggressività.

Si può viaggiare rimanendo immobili, restando attaccati spasmodicamente a sé stessi ai propri schemi mentali e culturali. E si può vivere la fecondità del viaggiare nella ordinarietà delle proprie giornate. «Le mattine estive in cui felice […] entri in porti mai visti prima» possono essere vissute lì dove siamo, se solo impariamo a guardarci intorno e ad avvertire la vita intorno a noi, a riconoscere la presenza degli altri e dell’altro. I luoghi che ogni giorno attraversiamo sono “luoghi di vita”, non mero spazio geometrico i cui punti si corrispondono in una perfetta uniformità.

Sono “luoghi” che raccontano storie. Lo spazio prende forma e si configura a partire da queste storie, nell’intreccio inscindibile con il tempo dei vissuti. Le storie sono plurali e differenti, ma sono anche inscindibilmente legate tra loro negli infiniti rimandi di una interdipendenza che è nei fatti prima ancora e oltre la consapevolezza che ne abbiamo. È dentro questo intreccio, che Paul Ricoeur chiama “intrigo”, che dobbiamo imparare a muoverci e a stare. Abitare i nostri luoghi vuol dire imparare l’arte del viaggiare attraverso i luoghi della vita, la loro complessità, saper stare nella pluralità che è la cifra delle nostre comunità ed è anche ciò senza di cui non si dà autentica vita comunitaria. Le «mercanzie» da “acquistare”, «coralli e madreperle, ebani e ambre», «aromi voluttuosi» non sono beni da saccheggiare, ma ricchezze da riconoscere e di cui godere. Quanto sarebbe liberante e quanto sarebbero più ricche le nostre esistenze se sapessimo riconoscere il dono che è nell’altro, apprezzare ciò che ha di più proprio, gioire di quanto è nelle sue capacità senza misurarlo in rapporto a noi, renderlo a noi funzionale o scimmiottarne la diversità riducendola a folklore. Accade nei viaggi in paesi lontani, nell’incontro con mondi culturali diversi dal nostro, ma accade purtroppo anche nel nostro quotidiano viaggiare in città sempre più plurali, tra luoghi sempre più in movimento. Fili che si intrecciano in disegni di vita complessi sono le nostre città, ma anche mondi separati che non comunicano, come è per tante periferie ai margini o al cuore delle città.

«Augurati che sia lunga la via» allora: perché la bolla che ci avvolge si spezzi, perché possiamo imparare dall’altro nel mutuo riconoscimento che fa essere ciascuno sé stesso e perciò dono per l’altro.

Ed è in tal senso che l’interculturalità appare come la direzione secondo cui pensare le nostre città multietniche, lasciando che tanti emergano dall’invisibilità in cui li releghiamo e contribuiscano a disegnarne il volto. Ma anche le nostre comunità ecclesiali devono potersi pensare in rapporto alla pluralità delle vocazioni, dei doni, delle culture.

È la provocazione, per tutti, a “mettersi in viaggio”, sapendo che solo così si può tornare a «Itaca». Si può comprendere sé stessi – le proprie radici, la propria cultura, la propria fede, ma anche ciò che si è e si anela ad essere – solo andando verso l’altro, arricchendosi di ciò che si è guadagnato per la via. Solo se si sa viaggiare veramente si può capire «Itaca».

Nulla ci è dato perché diventi possesso escludente o motivo di contrapposizione. È questo il segreto di un’autentica vita comunitaria e di un’esistenza che voglia dirsi umana.