Dove va la chiesa cattolica?

Dove va la chiesa cattolica? Se dal punto di vista teologico è improprio catalogare i percorsi storici di una chiesa secondo l’orientamento politico, nondimeno la visione del mondo di una chiesa dice molto della sua evoluzione – a volte dice di più della loro visione dell’aldilà.
Centrale nella storia dell’Italia, dell’Europa e dell’Occidente, il cattolicesimo nell’ultimo secolo ha battuto un percorso di sviluppo teologico, con degli evidenti riflessi sulla sua cultura politica. Da Laterza sono stati pubblicati due saggi che gettano una luce sui contorni di questo complesso fenomeno storico.
Il volume di Daniela Saresella, Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai giorni nostri (Laterza 2011, 285 pp.) 
si concentra sul caso italiano e divide in quattro capitoli la presenza del “cattolicesimo di sinistra”. Il primo inizia coi “socialisti cristiani” di fine Ottocento fino alla Resistenza, e comprende all’interno di questo cattolicesimo di sinistra il Partito popolare di Sturzo, l’antifascismo cattolico e il caso di Ernesto Buonaiuti, teologo modernista e nemico di stato sotto il fascismo. Il secondo capitolo affronta il ventennio successivo alla Liberazione, dai cattolici comunisti fino all’apertura a sinistra, passando per Mazzolari, il gruppo dossettiano, e “la Base”. Il terzo capitolo è dedicato alla svolta del Concilio Vaticano II: il dialogo tra cattolici e marxisti, la contestazione, il compromesso storico e il dibattito su divorzio e aborto.
La conclusione del terzo capitolo, col passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica, apre sul quarto capitolo, incentrato sul ruolo dei cattolici dall’Ulivo al Partito democratico. Le ultime pagine sono dedicate al ruolo dei cattolici nel dibattito in Italia su morale ed etica, specialmente nel senso della bioetica e delle questioni della protezione della vita. Ma il punto cruciale di coesione e di divisione nella cultura del cattolicesimo italiano è il riferimento al Concilio Vaticano II come ispirazione nell’azione dei cattolici italiani, specialmente quelli impegnati in politica e quelli che si ritrovano nella definizione di “cattolici democratici”, nell’Ulivo prima e nel Partito democratico poi. Il libro di Saresella è utile nel tentare di restituire unità (anche a rischio di qualche forzatura) ad un “cattolicesimo di sinistra” che è parte vitale e caratteristica peculiare del paesaggio politico italiano, rispetto ad altri sistemi politici ( come ad esempio in Francia, Germania o Stati Uniti) in cui il gauchisme cattolico non è mai esistito o si è presto riconvertito sotto altre bandiere (come il movimento ecologista).
Un necessario complemento utile a comprendere la mutazione a cui il cattolicesimo e la sua cultura politica rischiano di essere sottoposti è il volume di Giovanni Miccoli, La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma (Laterza 2011, 420 pp.). 
Come è noto, il lefebvrismo si è distinto, dal Concilio Vaticano II in poi, per il rigetto di quelle che costituiscono le “discontinuità” rispetto alla tradizione precedente al Concilio: libertà religiosa e libertà di coscienza, ecumenismo, dialogo con l’ebraismo, dialogo con le altre religioni, collegialità e corresponsabilità nel governo della chiesa. In questo libro Miccoli ricostruisce la revanche del conservatorismo reazionario dei lefebvriani partendo dall’episodio della revoca della scomunica ai vescovi consacrati da monsignor Lefebvre, revoca decisa da papa Benedetto XVI nel gennaio 2009 e i cui effetti giuridici-canonistici sono ancora tutt’altro che chiari e definiti. Il secondo lungo capitolo traccia la storia dei lefebvriani a partire dal giudizio sul Concilio dato da Lefebvre durante e immediatamente dopo, fino alla rottura degli anni Settanta e ai rapporti tra la “Fraternità Sacerdotale San Pio X” (questo il nome ufficiale dello scisma lefebvriano) e i papi Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Emerge chiaramente il crescendo nei rapporti tra Roma e Ecône in Svizzera, dove i lefebvriani hanno il loro quartier generale. Dall’intransigenza di Paolo VI (specialmente sulla questione liturgica, col rifiuto dei lefebvriani di accettare la “ messa del Vaticano II”) ai tentativi di Giovanni Paolo II di ricondurre all’ovile di Roma (a costo di compromessi teologici non senza costi per Roma) l’ala meno estremista tra i lefebvriani, fino all’attitudine compromissoria, se non di chiara benevolenza espressa da Benedetto XVI e dai suoi uomini più fidati verso l’interpretazione lefebvriana di alcune questioni della chiesa post-conciliare. Nella lunghissima “conclusione provvisoria” Miccoli offre elementi inquietanti per una riflessione sull’infiltrazione lefebvriana all’interno del cattolicesimo romano: il tentativo di fare la “riforma della riforma liturgica”, la nomina di prelati ultraconservatori all’interno della curia romana, la recentissima riedizione di pamphlet reazionari come quello di Romano Amerio, Iota Unum (con prefazione di un cardinale di curia come Darìo Castrillòn Hoyos), e gli attacchi contro Giuseppe Dossetti e il dossettismo come ricapitolazione di tutti i mali teologico-politici possibili.
In Italia e non solo, un vasto sottobosco clericaleditoriale è attivo da decenni nel tentare di riportare indietro di almeno un secolo, ovvero a prima della “teologia modernista”, la cultura del cattolicesimo: la cultura teologica come quella politica. La novità dell’ultimo decennio è la crescente tolleranza o simpatia che riscuotono (il verbo non è scelto a caso) circoli noti per le simpatie con la cultura politica del fascismo (italiano, francese e spagnolo specialmente) e per le pulsioni antisemite. Tutte queste miserie vengono scontate al movimento lefebvriano e ai suoi simpatizzanti all’interno della comunione cattolica, premiati perché funzionali all’esigenza della teologia ufficiale di “rileggere” il concilio Vaticano II in senso tradizionalista. Quello che perdono di vista sia i teologi di corte sia la classe politica abituata a pensare ai cattolici come un puro serbatoio di voti, è che sdoganare il lefebvrismo in ambito cattolico comporta una serie di conseguenze di lungo periodo dal punto di vista della sostenibilità pubblica di un cattolicesimo del genere. Il rischio è di creare un cattolicesimo-ghetto, che rigetta la propria storicità ed è convinto della possibilità di tornare ad un’età d’oro che si conclude con l’epoca tra il periodo post-Vaticano I e Pio XII: una sorta di belle époque della chiesa di Roma, al riparo non tanto dalla modernità, quanto dalla storicità stessa. I teologi non dovrebbero aver bisogno di guardare Midnight in Paris di Woody Allen per capire che le età d’oro del passato non sono altro che sogni consolatori e vani, a maggior ragione per chi predica il Vangelo e annuncia il Regno.

Massimo Faggioli
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