Sinodalità: voteremo decidendo?

di: Piero Coda in Settimana News

Il Popolo di Dio è convocato in un processo sinodale che ci vede impegnati a tutti i livelli, nella vita della Chiesa, e in tutto il mondo. Si tratta senz’altro di una grande opportunità.

Non una rottura col passato, né un’avventura incauta destinata a stravolgere l’identità e la missione della Chiesa – che è, oggi come sempre, quella di testimoniare con uno scatto di reni, con umiltà e con responsabilità, l’amore liberante e affratellante di Dio in Gesù –, ma per incentivare con fedeltà, creatività, perseveranza il cammino della fede in questo nostro sfidante oggi. Sinodalità, dunque, come “processo” e come apertura al futuro in ascolto dello Spirito.

Dal consultivo al deliberativo

In questo contesto, il piccolo, ma stimolante volumetto* che abbiamo tra le mani offre un ponderato contributo di riflessione e proposta maturato dall’esperienza, dalla meditazione e dal sentire ecclesiale del card. Francesco Coccopalmerio. La proposta – con chiarezza espositiva e saggezza pedagogica declinata in queste pagine – ha il suo focus nell’invito a transitare a ragion veduta, con coraggio e con pacata determinazione, dal riconoscimento canonico vigente del valore semplicemente consultivo degli organismi espressivi della sinodalità ecclesiale al riconoscimento della loro capacità propriamente deliberativa.

La proposta – lo dico convintamente – mi trova consenziente: a motivo sia della ragione teologica da cui promana e di cui vuol essere espressione, sia della modalità canonica e pastorale in cui concretamente viene configurata.

Tra l’altro invitandoci a prendere in considerazione – col realismo di chi ha i piedi per terra e non intende cadere nella facile, ma alla fine improduttiva e controproducente enfasi retorica – il fatto che, se è vero che la sinodalità definisce il modus vivendi et operandi che qualifica la Chiesa, essa indica però al tempo stesso una realtà specifica e un’attività precisa nella missione della Chiesa: (cito) «ricercare, conoscere, decidere in ordine al bene della Chiesa» (p. 14) attraverso le diverse strutture di sinodalità (dal Concilio ecumenico sino al Consiglio parrocchiale) recensite dal diritto canonico e presenti nella prassi ecclesiale.

La Chiesa soggetto comunionale

Ma veniamo alla ragione teologica che rende pertinente e direi oggi necessaria la messa in opera della struttura della sinodalità ecclesiale come espressione qualificante del soggetto comunionale deliberativo – ecco la dizione proposta – che esprime adeguatamente (per quanto possibile alle cose umane) l’identità e la missione del Popolo di Dio.

A partire da quello che la Tradizione della Chiesa conosce come il Concilio di Gerusalemme sino a giungere al Concilio Vaticano II, l’autocoscienza della Chiesa – pur tra mille andirivieni– è netta: la Chiesa, per grazia e con responsabilità, è chiamata a immaginarsi e prodursi come quel soggetto storico comunionale in cui, nella sequela di Gesù e in ascolto dello Spirito, accade come «germe e inizio» il Regno di Dio a servizio della famiglia umana.

Ma che cosa significa questo? significa che, nel modo di configurarsi e di camminare di questo soggetto comunionale, il regime è quello della grazia di Cristo: e cioè, in concreto, l’impegno alla sequela di Lui nel discernimento comunitario dei passi da compiere insieme.

«È parso bene [espliciterei il greco biblico, qui usato da Luca negli Atti degli Apostoliédoxen, traducendolo con: “abbiamo giudicato e deciso”] allo Spirito e a noi…» (At 15,28). Così viene comunicata la deliberazione dell’assemblea di Gerusalemme: il “noi” dice il soggetto comunionale che discerne e decide, il riferimento allo Spirito ne dice l’identità specifica nella sequela del Cristo, il quale ha promesso: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo ad essi» (Mt 18,20). Di qui due conseguenze.

La prima: come più volte e con vigore il card. Coccopalmerio sottolinea, si dà un carattere peculiare, d’incontro in Cristo tra ciò che è di Dio e ciò che è umano e storico, che qualifica l’assemblea del Popolo di Dio: non solo nella celebrazione liturgica del mistero del Signore, l’eucaristia; ma anche, in modo analogo e scaturente dalla sua stessa natura eucaristica, nell’assemblea che lo vede riunito per discernere il cammino di sequela e di missione e prendere le relative decisioni.

La seconda conseguenza: il soggetto comunionale che così è convocato e inviato dal Signore, non è un soggetto uniforme e amorfo. È – secondo la nota metafora paolina, derivata precisamente dal contesto eucaristico – un Corpo dalle molte e diverse membra. La cui radicale uguaglianza deriva dal fatto che ciascuna delle membra di questo Corpo, e pertanto ciascuno dei membri di questa assemblea, è – per dirla con Paolo – rivestito del medesimo Cristo, ha cioè la sua stessa dignità e capacità filiale (conferita dal battesimo) di fronte a Dio e di fronte ai fratelli e alle sorelle; e la cui diversità è frutto del dono di Cristo e del suo Spirito, con l’attivazione, attraverso diversi carismi e ministeri, di diverse competenze e funzioni: tutti per il bene comune e a servizio della sua promozione, che in una parola è la missione consegnata da Gesù alla sua Chiesa.

Di qui, anche, il compito di chi, in seno all’assemblea del Popolo di Dio – e non fuori o al di sopra di esso –, è chiamato e capacitato da una grazia specifica – conferita sacramentalmente – a esercitare il ministero della guida, non imperativa ma comunionale: in conformità alla natura e alla missione dell’assemblea ecclesiale, a nome e in trasparenza dell’unico Signore e Maestro.

 

“Nihil sine…”

Questa la ragione teologica per cui si deve parlare della Chiesa come soggetto comunionale e si deve riconoscere a tale soggetto comunionale la capacità (in senso canonico) della deliberazione: «È parso bene allo Spirito Santo e noi…».

Ma in quale modo? secondo quale prassi?

La legislazione canonica oggi vigente – lo sappiamo – qualifica come voto «tantum consultivum» il contributo che i membri dei vari organismi sinodali possono, anzi debbono offrire alla deliberazione che è riservata a chi tali organismi presiede. Ma con un’eccezione: quella del Concilio ecumenico, le cui decisioni sono prese in base alla maggioranza dei voti la quale deve contenere il voto concorde del vescovo di Roma, il papa, da lui liberamente espresso nella sua qualità di capo del Collegio dei vescovi, senza il quale il Collegio come tale non si dà (cf. can. 341 § 1).

Questo modello – a ben vedere, nella sua sostanza teologale, antico come la Chiesa – esprime in modo adeguato, anche sul livello della deliberazione, l’identità specifica di quel soggetto comunionale che la Chiesa appunto è nella sequela di Cristo in ascolto del suo Spirito.

Ma nel caso degli altri organismi espressivi della sinodalità non è così. Perché? Il card. Coccopalmerio formula in proposito quella che definisce una «strana idea», la quale in verità, a mio parere, tale non è (strana), ma va alla radice del problema: «[l’idea è] che il legislatore canonico senta una spontanea paura ad adottare lo schema del deliberativo [in riferimento agli organismi sinodali che non sono il Concilio ecumenico] e per tale motivo scelga di attenersi a quello del consultivo per evitare che le strutture di sinodalità procedano senza il pastore. Se, infatti, si scegliesse di adottare il voto deliberativo, sarebbe molto facile interpretarlo in modo civilistico, cioè in modo tale che, per assumere una valida decisione, sarebbe sufficiente la maggioranza dei voti anche se in questa maggioranza non fosse contenuto il voto concorde del pastore» (p. 80).

Già Cipriano di Cartagine, nel terzo secolo, invitava al rispetto della natura comunionale specifica, in Cristo, della Chiesa con un triplice “nihil sine”: «niente senza il vescovo, niente senza il consiglio dei presbiteri, niente senza il consenso del popolo» (Ep. 14,4). Dove s’infrange questa logica del “nihil sine”, s’infrange l’identità specifica e la missione della Chiesa. Infatti, è un esercizio di comunione ordinata e di esigente discernimento e orientamento comunitario quello che col triplice “nihil sine” viene richiesto come espressione di obbedienza alla grazia di Cristo.

La questione, in definitiva, è duplice: da un lato, maturare la coscienza, nel solco del Vaticano II, della soggettualità di tutti nella Chiesa nel venire a comporre un unico e articolato soggetto comunionale; dall’altro, precisare e normare la prassi di deliberazione di tale soggetto secondo una modalità che sia specifica e qualificata espressione dell’ecclesialità. Così spiega il card. Coccopalmerio: «Nel deliberativo ecclesiale, ogni fedele di un soggetto comunionale deliberante compie un atto di volontà e lo esprime attraverso un voto, si calcola la maggioranza dei voti, ma, a questo punto, perché ci sia in realtà la decisione del soggetto comunionale, non è sufficiente che ci sia la maggioranza dei voti (tale sarebbe il deliberativo civilistico), bensì risulta requisito essenziale che nella maggioranza dei voti sia contenuto il voto concorde del pastore, da lui liberamente espresso nella sua qualità di capo (tale è il deliberativo ecclesiale)». (p. 78)

Discernimento comunitario del pensiero di Cristo

Sono d’accordo nel ritenere che è giunto il momento di fare questo passo. Senza dimenticare ciò che dice papa Francesco: «Sinodo è ciò che Dio si aspetta dalla Chiesa nel terzo millennio».

Non nei prossimi due anni… ma in un cammino che è aperto sul futuro. Un cammino lungo e impegnativo, senz’altro, che occorre per questo intraprendere con fiducia e di buona lena: perché maturino questa coscienza e questa figura di Chiesa, c’è da impegnarsi in un’adeguata e rinnovata formazione di tutti, nella Chiesa, alla sequela e al discernimento comunitario del pensiero di Cristo. A cominciare da chi è chiamato a presiedere nella carità e in spirito di servizio.


* F. Coccopalmerio, Sinodalità ecclesiale “a responsabilità limitata” o dal consultivo al deliberativo? A colloquio con padre Lorenzo Prezzi e nel ricordo del cardinale Carlo Maria Martini, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2021.

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