Nagorno-Karabakh, dramma armeno «Contagiati per sfuggire alle bombe»

Gomito a gomito in scantinati poco aerati alla ricerca di un rifugio dai combattimenti, o fianco a fianco in funerali affollati, per rendere omaggio a chi ha perso la vita al fronte: se la lotta al Covid-19 è soprattutto una questione di priorità, in cima alle preoccupazioni degli armeni non c’è stato di certo il virus nei due mesi di guerra d’autunno del Nagorno- Karabakh. Nell’enclave a maggioranza cristiana riconosciuta a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian ma controllata per gli ultimi 30 anni dall’etnia armena, il 27 settembre si è riacceso il conflitto. Puntuale come un orologio, circa due settimane dopo, a metà ottobre, il virus ha alzato la testa, facendo segnare un forte incremento dei contagi. «Il conflitto ha avuto un impatto significativo in termini di diffusione del virus sia nell’enclave che in Armenia, innanzitutto perché all’avvio degli scontri una grande quantità di popolazione si è spostata», spiega da Erevan, Nune Bakunts, vicedirettrice generale del Centro nazionale per il controllo e la prevenzione delle malattie del ministero della Salute armeno.

«Non si è trattato solo di truppe militari ma anche di moltissimi civili in fuga dai combattimenti ed evacuati per precauzione verso l’Armenia, in particolare bambini, donne e anziani. A questo vanno aggiunti gli spostamenti del personale sanitario e il trasporto dei feriti». A pochi giorni dall’inizio dello scontro militare, metà dei circa 150mila abitanti della regione contesa si stimava avesse già lasciato le proprie case. Ogni consistente spostamento di persone, in una pandemia, rischia di moltiplicare le occasioni di contagio. Ma, in guerra, anche chi resta contribuisce alla diffusione. «Nel Nagorno Karabakh la popolazione ha spesso cercato posti sicuri in cui nascondersi, luoghi di fortuna, ad esempio gli scantinati delle case, dove non c’era adeguato ricambio di aria né acqua per lavarsi», prosegue la dottoressa Bakunts. «Poi si sono organizzate iniziative “patriottiche”, come la donazione di sangue per i feriti, che ha condotto molte persone a creare lunghe code. In tanti hanno voluto rendere omaggio a chi ha perduto la vita in guerra, in funerali tenuti tra la folla. Tutti eventi che hanno prodotto effetti sull’andamento del contagio».

Dal primo episodio di Covid-19 registrato in Armenia il primo marzo scorso fino ad oggi sono stati circa 133.600 i casi accertati fra i 3 milioni di abitanti totali del Paese (in percentuale, se rapportati al totale della popolazione, quasi il doppio di quelli italiani). Oltre 2.100 sono stati i morti. «Durante i combattimenti il virus e le misure per contenerlo sono diventati immediatamente questioni secondarie perché la priorità è stata data ovviamente al conflitto», afferma la dottoressa Bakunts. «Eppure, già prima del cessate il fuoco (concluso con un accordo tra Armenia e Azerbaigian mediato dalla Russia ed entrato in vigore il 10 novembre, ndr) abbiamo assistito a una stabilizzazione dei casi e ora a un calo. È accaduto perché la popolazione ha compreso che in corso c’erano due guerre, una contro il nemico in carne e ossa e una contro il coronavirus. Si è capito velocemente che non rispettare le regole contro il contagio avrebbe potuto aggravare la situazione per i feriti che provenivano dal fronte perché il sistema sanitario nazionale era travolto da due diverse situazioni critiche, contemporaneamente». Intanto, mentre la dottoressa Bakunts conferma che pochi giorni fa alcuni campioni del vaccino Sputnik V, inviato dalla Federazione Russa, sono arrivati in Armenia (ma rispetto al suo utilizzo e all’ipotetica sperimentazione sarebbe tutto «ancora in discussione»), resta l’incognita di chi sta lasciando ora le proprie case, a seguito dei termini dell’intesa di cessate il fuoco, che ha sancito la sconfitta militare armena.

L’Azerbaigian manterrà il territorio che è riuscito a conquistare, inclusa la seconda città più grande dell’enclave, Shusha (Shushi per gli armeni). Diversi distretti sono già passati o passeranno sotto controllo azero, così la popolazione armena è costretta ad andare via. «Sin dall’inizio dei combattimenti abbiamo avuto a che fare con lo spostamento di parte della popolazione: con coloro che sono arrivati quando la guerra è scoppiata il governo locale e anche quello centrale hanno già lavorato, registrando le presenze, occupandosi degli alloggi e, attraverso il nostro sistema sanitario, pensando a profilassi e test. Con chi sta arrivando ora faremo lo stesso».

7. Continua

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LE PERIFERIE/7

Al culmine del conflitto, da fine settembre, il picco delle infezioni: «La popolazione ha cercato posti sicuri come gli scantinati, dove però non c’era adeguato ricambio di aria né acqua per lavarsi»

Pellegrini armeni nel monastero di Dadivank, nella regione di Kalbajar, in Nagorno-Karabakh / Ansa

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