Come un bimbo senza mamma

L’arrivo dei Magi «Il Vangelo secondo Matteo» (1964)

Lo struggente canto della tradizione spiritual «Sometimes I Feel Like a Motherless Child»

Osservatore

E poi c’è il giorno quando tutt’attorno si sentono cadere le foglie, una ad una, dalle piante. Sono due e poi cinque e poi nove e venti, finché scrosciano giù come pioggia, cadono come penne, impercettibili, silenziose, sulla soffice erba verde scuro, e tu ti senti l’ultima foglia sulla pianta. E se qualcosa non arriva a salvarti, cadrai nell’oscurità. E se non senti dentro quella pressione misteriosa ad alzarti e proseguire il cammino, quella spinta vivace e invisibile come elettricità, sicuro andrai nell’oscurità dell’orfanezza.

Deve aver provato una simile prostrazione, il filosofo e teologo inglese John Henry Newman, mentre era in Italia, giovanissimo: «Mi stesi sul mio letto ed iniziai a singhiozzare un poco. Il mio servo, che mi accudiva quasi fosse una balia, mi chiese se stessi bene. Io potei soltanto rispondere: “Ho del lavoro da fare in Inghilterra”». Poco dopo scrisse i versi di Lead, Kindly Light, che commossero il mondo e dipinsero nitidamente la condizione dell’orfano: «Guidami tu, Luce Gentile, attraverso il buio che mi circonda (…). La notte è buia ed io sono lontano da casa (…)».

Che cos’è l’orfanezza se non quel «sentirsi lontano da casa», dal padre, dalla madre, dai fratelli e dalla terra che, da giovani sentiamo come gabbia, e più in là riscopriamo nostra, e vicina, come il tetto e il focolare che ci hanno visti nascere? Newman prosegue: «Non mi sono mai sentito come mi sento ora, né ho pregato che fossi tu a condurmi. Amavo scegliere e scrutare il mio cammino, ma ora sii tu a condurmi (…) landa dopo landa, palude dopo palude, oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà».

Di orfani, veri e allegorici, è così pieno quel grande ritratto della famiglia umana che è la nostra letteratura. Sono orfani Pin di Calvino e Pip di Dickens. Sono tutte «orfane» le infanzie sguinzagliate di Tom Sawyer, di Heidi e di Oliver Twist. È orfano Peter Pan, divenuto simbolo di quell’infanzia che guarda con rifiuto alla vita adulta e sembra orfano di tutto anche il piccolo principe di Saint Exupéry, che andrà a cercare tra le stelle il senso intimo delle cose sulla Terra.

Pier Paolo Pasolini, in quello che è forse il più bel film sulla vita di Gesù, Il vangelo secondo Matteo, scelse come colonna sonora di due scene capitali, quali la venuta dei magi e la strage degli innocenti, un antico e straziante canto della tradizione spiritual, che è anche il più struggente profilo dell’orfanezza: Sometimes I Feel Like a Motherless Child (“A volte mi sento come un bimbo senza mamma”). Il canto sortì quasi spontaneamente sulla bocca degli schiavi d’oltreoceano, strappati ai loro genitori, e alla madre patria africana, e venduti al mercato della più crudele oppressione che si possa immaginare.

Nel XX secolo, non più servi dominati, ma star internazionali ne hanno intonato il lamento: da Harry Belafonte a Leontyne Price, sino alla magnifica Mahalia Jackson. Ancor prima, nel xix secolo, i Fisk Jubilee Singers, eccellenze del «cappella ensemble», educarono la voce su quel prezioso blues spirituale, unico nei sentimenti e nella struttura.

Pasolini conosceva bene quella canzone e, con un colpo di genio, la scelse per rendere la disperata vibrazione di uno stato d’animo universale, quello d’ogni uomo nella sua fuggevole vita sulla Terra; ma anche l’esilio dalla sua vera patria di giustizia e fratellanza. Ogni uomo sente lunga la strada prima del ritorno a casa. Ogni giorno, sulla terra, un uomo si sveglia e si sente «come un bimbo senza mamma». La moltitudine che affolla le due scene pasoliniane è la fotografia di una compagnia di orfani erranti smarriti sulla terra, sbandati e scalzi sulla polvere della storia.

Il Pontefice, col suo italiano inconsueto, da forestiero, e perciò stesso pieno di coniazioni impreviste e d’umanità, domenica 17 maggio, in una sua omelia a Santa Marta, adoperò la parola «orfanezza». Si spinse a dire che «sempre le guerre, sia le piccole guerre sia le grandi guerre, sempre hanno una dimensione di orfanezza: manca il Padre che faccia la pace». Non possiamo non pensare, ancora una volta, alla scena pasoliniana della strage degli innocenti, dove si vedono bambini in fasce fracassati contro le pietre e rimbalzati come palle, e allo splendido lamento black che l’accompagna. «Una delle conseguenze del senso d’orfanezza è l’insulto», dice ancora Francesco, «perché se non c’è il Padre, non ci sono i fratelli. Si perde la fratellanza».

C’è qualcosa, anzi molto in queste parole, che risuonano in Sometimes I feel Like a Motherless Child. Un’uguaglianza di periodo e grandezza, come direbbero i fisici, una «sintonia», come direbbero invece gli umanisti, cioè un «accordo sostanziale», il cui indicatore, stavolta, non è tanto il suono, ma il senso. Nel Salmo 101, anch’esso il lamento d’un orfano — nel senso che gli diamo oggi, in questo articolo — si legge: «Io sono come un passero sperduto sopra il tetto». Ed è questa soltanto una delle innumerevoli volte in cui l’Uomo della Bibbia si sia detto orfano di qualcuno, di qualcosa e che, in tutta risposta, abbia guardato in alto. Il bambino nato nella povertà della capanna, un giorno, divenuto adulto, a lui dirà: «Non sarai mai più orfano» (Giovanni 14, 18), ma non poté dire «non ti sentirai mai più orfano».

E così, l’emozione dell’orfanezza non solo perdura, ma sembra pervadere tutta la condizione umana. Tommaso, l’apostolo scettico, il più simile all’uomo d’oggi, si sentiva certamente orfano quando domandò al suo Maestro: «Signore, dove vai?» (Giovanni 14, 5). E non possiamo non dirci in empatia con lui, che a noi somiglia nel suo mediocre scoraggiamento; e quando domanda, ancora, «Signore, come possiamo conoscere la via?» interpreta pienamente la nostra infaticabile ricerca di idee economiche, sociali e politiche, sperimentate, spesso maldestramente, al solo scopo, desiderato o subcosciente, di «riavvicinarci a casa», dove sta la madre, il padre e i fratelli. Dove le foglie sono ancora aggrappate alla vite con robusti sarmenti. Dove ancora si sente d’appartenere a qualcosa di grande. Dove ogni nido, ogni culla, ha la sua mamma, lì, felice, al suo posto.

di Roberto Rosano

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