Il senso più profondo di un ministero. Il prete, la vertigine di una vocazione

Cosa è un prete? Chi è un uomo che coi tempi che corrono offre la sua vita per questo ministero? A queste domande rese incandescenti da vicende note (il calo molto sensibile delle vocazioni, gli scandali degli abusi, la inadeguatezza di certe strutture formate quando la vita era molto diversa) non si è sottratto il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, uno dei preti più impegnati con le vicissitudini dell’epoca.

Accettando l’invito rivoltogli dal Rettore della Facoltà teologica della Emilia Romagna, monsignor Valentino Bulgarelli, alla presenza dei vescovi della Regione e introdotto dall’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, il cardinal Parolin alla fine della scorsa settimana si è addentrato senza remore nella grave questione, ragionando sul filo del magistero di papa Francesco, e richiamando in chiusura anche Benedetto XVI e Paolo VI. Per chi non ha fede il prete è oggi la figura più ‘assurda’ della società.

Migliaia di anni e di luoghi comuni, ma anche migliaia di casi di esperienza viva di santità, di generosità, e di vicinanza alle persone contraddistiguono questo strano essere, per il quale un santo ‘rivoluzionario’ come san Francesco aveva la più grande ammirazione e rispetto in quanto portatore del Sacramento. Più volte Parolin ha messo in guardia da eccessi di narcisismo, protagonismo, clericalismo che avvelenano la testimonianza dei preti. Ma soprattutto ha indicato la natura profonda della relazione di amore che lega il sacerdote a Dio, a Gesù, e al popolo.

Ecco, da povero poeta laico, vedo in questo affondo verso le regioni più misteriose e sacre del ritratto fatto dal cardinale la faccenda più interessante. Intendo che se, da un lato, egli ha sottolineato gli aspetti di un prete sempre più ‘pastore’, autorevole per carità più che per ruolo, ‘accompagnando nel discernimento’ le persone di oggi, dall’altro, mai ha staccato un attimo gli occhi da questo abisso, da questa vocazione a un legame drammatico. «Il prete», ha detto, «è innanzitutto uno che si lascia amare da Dio e dagli uomini».

Oggi nella nostra cultura e società il tema della vocazione appare oscurato. Come se si potesse intendere la vita al di fuori di una chiamata. Infiniti sono intorno a noi i modi con cui le persone si arrabattano per capire chi essere e come dare un senso alla propria vita. Molte figure si sono sostituite al prete accompagnando tale ricerca, dagli psicoterapeuti ai coach ai cercatori di talenti, segno che il problema esiste. Il prete, invece, con la sua sola esistenza, indica una cosa vertiginosa. Una cosa ‘fuori luogo’. Ci sono chiamate speciali, come quella dei sacerdoti, dei monaci, o degli artisti o degli eroi, o sopra a tutti dei santi, che mostrano a tutti che esiste una ‘vocazione’, una voce che ci parla per segni a volte chiarissimi, su come indirizzare la nostra vita.

A questi segni occorre prestare attenzione, e fiducia, più che alle proprie congetture. Il prete vive e mostra innanzitutto questa vertigine a tutti: Dio chiama, non tace, chiama la vita di tutti a essere qualcosa di bello e di vero per il mondo. Qualsiasi sforzo di essere se stessi, e anche di essere buoni preti, sarebbe vano senza l’ascolto di tale vocazione, di tale voce che presente in molti modi chiama la nostra vita. Non a caso la letteratura e l’arte non riescono a evitare un confronto con questa figura spesso povera, ma sempre vertiginosa, come si vede da Dostoevskij a Bernanos fino a Vita e Destino di Grossman, uno dei romanzi più forti del ’900. Forse occorre ripartire da lì, da quella vertigine.

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