Gruppo San Gallo: sconfitta e riemersione

Libro:  Storia di una sconfitta. Carlo Maria Martini e la Chiesa in Europa 1986 – 1993  con sconto 5% su amazon

settimananews.it
di: Lorenzo Prezzi

Dall’indomani del concilio Vaticano II (1965) fino al primo decennio del secolo, un piccolo gruppo di vescovi si sono ritrovati in Svizzera, prima a Coira poi a San Gallo, per qualche giorno di preghiera, di scambio di pareri, di coltivazione dell’amicizia. Fra i più noti: Roger Etchegeray (Marsiglia, poi Roma), Franz König (Vienna), Ivo Fürer (vescovo di San Gallo, Svizzera), Godfried Danneels (Bruxelles), Karl Lehmann (Magonza, Germania), Audrys Juozas Bačkis (Vilnius, Lituania), Adrianus van Luyn (Rotterdam, Olanda), Walter Kasper (allora a Stoccarda, Germania), Basil Hume (Londra), Murphy O’Connors (Londra), Achille Silvestrini (Roma) e Carlo Maria Martini (Milano). Altri vescovi e cardinali hanno in anni diversi partecipato ai lavori.

Il loro ritrovarsi è diventato un crogiolo di stimoli pastorali e di sensibilità ecclesiale da cui ha preso avvio la struttura di rappresentanza dei vescovi europei (Consiglio delle Conferenze episcopali europee, CCEE) e di quelli facenti parte dell’Unione Europea (Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea, Comece).

Ma soprattutto, quello che sarà chiamato il “gruppo di San Gallo”, ha alimentato una visione di Chiesa capace di confrontarsi con la cultura del continente, di accompagnarne il cammino di unificazione, di proporre il Vangelo nel contesto della secolarizzazione. Un’ipotesi di Chiesa dialogante col moderno che ha dovuto contrapporsi ad una sensibilità ispirata dalla “neo-cristianità” espressa da Joseph Ratzinger, Giovanni Paolo II, Camillo Ruini, Angelo Sodano.

Cenacolo non lobby
La storica Francesca Perugi ha indagato lo spezzone di tempo in cui le due ipotesi si confrontavano, prima del prevalere della seconda nel volume Storia di una sconfitta. Carlo Maria Martini e la Chiesa in Europa 1986 – 1993 (ed. Carocci, Roma 2022).

Per il “gruppo di San Gallo” si doveva impostare il rapporto con la modernità con un confronto cordiale e libero, dove il cristianesimo poteva abitare la cultura secolarizzata dell’Europa. Una testimonianza di fede in grado di convincere anche l’agnostico o il “distante” ad accettare un percorso verso la verità cristiana.

Per la neo-cristianità, la secolarizzazione della modernità, esito esangue dell’abbandono della fede, doveva essere affrontata con una vigorosa asserzione della centralità del Cristo e sottoposta, a livello civile come nella legislazione, a valori etici custoditi dalla dottrina ecclesiale.

Su quelle riunioni il tradizionalismo cattolico ha imbastito una narrazione complottista e massonica.

Fallito il tentativo di eleggere Bergoglio come successore di Giovanni Paolo II (2005), con una manovra tattica per veicolare i consensi su Ratzinger e impedire l’elezione di Camillo Ruini, il gruppo di pressione convince successivamente Benedetto XVI alle dimissioni e giunge infine a eleggere papa Francesco. Il progetto pastorale di quest’ultimo sarebbe quello della «mafia di San Gallo».

La fantasiosa ricostruzione è affidata ai testi di Julia Meloni (The Sankt Gallen Mafia. Exposing the Secret Reformist Group Within the Church) che riprende le tesi già proposte ne Il papa dittatore (di Marcantonio Colonna, pseudonimo di Henzy Sire) nel 2017 e riprese, con infinite declinazioni, nei siti della destra cattolica.

Per la storica Francesca Perugi, che ha lavorato su materiali di archivio, non solo non c’è alcun complotto mafioso, ma il “cenacolo” di San Gallo è uscito sconfitto dal confronto con la curia romana.

La ripresa di alcuni suoi orientamenti nel magistero di papa Francesco è dovuta al fallimento dell’ipotesi della neo-cristianità e alla sensibilità pastorale elaborata dall’episcopato dell’America Latina, soprattutto nel testo finale di Aparecida (2007).

Secolarità o relativismo
Lo scontro fra le due visioni ecclesiali fu reale. La crisi prima e poi la fine del comunismo non aveva fatto rifiorire la Chiesa. Il relativismo del moderno si imponeva negli orientamenti delle società occidentali, ed europee in specie, diventando il problema maggiore per l’annuncio cristiano. «Dopo il crollo dei regimi comunisti, apparentemente sconfitto il nemico marxista, la Chiesa di Roma iniziò a denunciare i limiti e la crisi delle democrazie liberali, colpevoli di aver perso ogni sicuro riferimento morale in favore di un dominante relativismo» (p. 19).

Dopo i primi simposi il nascente CCEE fu affidato alla presidenza di mons. Roger Etchegeray e la sua sede divenne San Gallo, il cui vescovo, Ivo Fürer, fu eletto segretario.

L’impossibilità negli anni ’80 di coinvolgere gli episcopali dell’Est, a parte qualche presenza polacca, consigliò la nascita, a fianco del CCEE, della Comece. Né l’uno né l’altro ricevettero un potere autonomo, limitandosi ad essere luogo di confronto (il CCEE) e di dialogo con l’Unione Europea (la Comece).

Nonostante la fragilità istituzionale, la conoscenza diretta fra i vescovi, il clima di libertà e di amicizia permisero di costruire gli orientamenti condivisi: il dialogo ecumenico, il significato dell’evangelizzazione in Europa nella modernità e la ricerca della collegialità episcopale. Si aggiunse ben presto la consapevolezza delle colpe delle Chiese in alcuni passaggi della storia e nei confronti dell’unità promessa dal Signore.

Tra la fede cattolica e la società pluralista non vi era solo distanza. Molti valori di riferimento attingevano al messaggio evangelico. Fra gli elementi critici vi era anche la responsabilità della Chiesa. Se l’Europa era diventata terra di missione, era anche per alcuni errori da essa compiuti.

Il continente, che stava avviando processi di unificazione, andava alimentato dall’apporto cristiano per evitare che, reciso ogni legame con il trascendente, le “tossine” del relativismo avvelenassero l’ethos condiviso. Più che condannare bisognava valorizzare.

Dopo la presidenza Etchegaray (1971-1979) e Hume (1979-1986), toccò a Martini guidare il CCEE (1986-1993).

Cristianesimo plurale
L’impegno ecumenico non era finalizzato alla valorizzazione dell’apprezzabile tradizione orientale del cattolicesimo (in particolare polacco), ma a sottolineare l’importanza dell’ortodossia nel contesto del cristianesimo. Più che forme spettacolari si trattava di sostenere tutte le possibili relazioni, accompagnando anche l’avvicinarsi delle istituzioni politiche fra Est e Ovest.

Il millennio del battesimo della Rus’ (1988) e l’assemblea ecumenica di Basilea (1989) furono due elementi di grande significato in merito.

Il nuovo ruolo pubblico della Chiesa ortodossa russa suggeriva il sostegno dei cattolici al suo cammino in un clima di crescente libertà, anche moderando le attese delle comunità cattoliche di rito bizantino (“uniati” di Ucraina). Avvertendo anche i limiti di una Chiesa il cui popolo era per lo più di donne anziane, con un clero ridotto e una teologia molto fragile dopo i decenni della persecuzione comunista.

«Le Chiese orientali rischiavano di riproporre in una condizione nuova, schemi e modelli del passato pre-sovietico, mentre la grande sfida per la Chiesa, per tutte le Chiese cristiane, era invece quella di tener conto del cambiamento della società per evitare di rincorrere ideali impossibili o di cercare di ricostruire strutture non più attuali» (p. 53).

Da qui il compito specifico e non delegabile delle Chiese europee: «mostrare che è possibile vivere in una civiltà tecnologica e secolarizzata, non solo senza rinnegare la fede cristiana, ma sperimentandone l’importanza per la situazione contemporanea» (p. 55).

Fra le Chiese vi era già un “patrimonio comune” su cui costruire. L’assemblea ecumenica di Basilea (1989) non fu limitata ai rappresentanti ufficiali, ma si aprì alla partecipazione popolare su un tema di grande spessore «pace, giustizia, salvaguardia del creato».

Il muro di Berlino non era ancora caduto e le indicazioni furono di evitare di entrare sul piano politico. Fu Cirillo di Smolensk, attuale patriarca di Mosca, a parlare di democratizzazione di tutti gli aspetti della società in sintonia con l’operazione di trasparenza di Gorbaciov. Fra i temi discussi: la difesa della vita, il ruolo della donna e il riconoscimento delle colpe delle Chiese.

Sul piano ecumenico la differenza curia – CCEE si giocava sul riconoscimento più o meno forte del ruolo e della dignità delle diverse confessioni e sul compito comune, senza egemonie, di tutti in ordine alla testimonianza cristiana.

Più Vangelo meno norme
Molto più esplicito e riconoscibile lo scontro sul versante dell’evangelizzazione nel contesto della società secolare. Un anticipo significativo è registrabile nel convegno ecclesiale di Loreto (1985), quando l’intera presidenza della CEI fu sfiduciata e la “scelta religiosa” rimossa.

In nome di una rinnovata “presenza” pubblica della fede e di una nuova “egemonia”, Giovanni Paolo II modificò l’indirizzo pastorale dell’episcopato, per gran parte nominato da Paolo VI, e si alleò con le truppe di manovra di Comunione e liberazione assieme a figure ecclesiastiche (mons. Camillo Ruini) e culturali (Del Noce) convergenti nella critica piena alla secolarizzazione e a favore del ruolo di potere di una Chiesa, riaffermata nella sua dottrina e nella sua struttura monarchica.

Così, mentre il richiamo di Martini alle “radici” europee veniva declinato al plurale, per Wojtyla le “radici” erano cristiane e, in particolare, cattoliche.

Per il primo, il cattolicesimo poteva evangelizzare la secolarità; per il secondo, doveva sostituirla in un contesto ormai post-moderno.

Per il CCEE era compito non delegabile delle Chiese d’Occidente dimostrare la vivibilità del cattolicesimo (e del cristianesimo) in una società ormai oltre la soddisfazione dei bisogni primari.

Per Wojtyla la vittoria sul comunismo imponeva la denuncia delle derive consumistiche e anti-umane di una società che non sentiva più il bisogno di Dio.

La nuova Europa poteva nascere in accordo con la democrazia e i suoi valori o, piuttosto, con il compito di archiviare la laicità, ormai sconfitta nella sua appendice più radicale, cioè il comunismo.

Il mancato riconoscimento delle radici cristiane, poi formalizzato nel Trattato costituzionale di Lisbona (2007 – 2009), convinse Wojtyla a prendere le distanze da Bruxelles. Attorno a questa tensione si attraversarono molti temi come il nascere e il morire in Europa o l’allargamento dell’Unione Europea.

Chiese, non province
Ancora più evidente la diversità di vedute in ordine alla collegialità episcopale. A San Gallo e nel CCEE si opera su due fronti. Da un lato, si cerca il dialogo diretto e personale tra i vescovi nel confronto con le sfide pastorali del continente senza tutela romana e, dall’altro, ci si muove per un riconoscimento formale da parte del Vaticano sulla scorta degli esempi latino-americani (Celam), africani (Secam) e asiatici (Fabc).

L’azione della curia vaticana si indirizza in una sistematica censura delle teologie più originali e coraggiose, nell’utilizzo dei movimenti contro gli episcopati riottosi e nell’esclusione per le conferenze episcopali di ogni autorità in ordine alla dottrina (a meno dell’unanimità). Operazione vidimata dal motu proprio Apostolos suos, dall’enciclica Veritatis splendor e dal motu proprio Ad tuendam fidem.

La sconfitta di Martini e la fine della spinta creativa del CCEE avviene – nel racconto della storica F. Perugi – nel sinodo sull’Europa del 1991. Prima, nella non componibile diversità fra la riunione del CCEE a Santiago (Spagna, 13-17 novembre) con le discussioni preparatorie del sinodo, poi nell’intervento finale del papa in sinodo dove l’intervento di Ruini e della curia annulla il riferimento al CCEE prefigurando addirittura una diversa istituzione (Roma, 28 novembre – 14 dicembre).

Nel resoconto dell’assemblea ecumenica a Santiago fra CCEE e KEK si riafferma la lettura positiva del contesto sociale e culturale europeo e la possibilità di una testimonianza cristiana condivisa in una società altamente tecnologica e sociologicamente secolarizzata. «Questa vocazione può essere uno dei nostri contributi all’avvenire del cristianesimo nel mondo».

La partecipazione dell’ortodossia russa testimonia della credibilità del CCEE, mentre è già esclusa per il successivo sinodo a Roma. Dove, le pur commoventi testimonianze delle persecuzioni subite da parte dei vescovi dell’ex impero sovietico, finirono per alimentare la pretesa di una nuova cristianità europea, perseguita dalla curia (A. Sodano) e dal relatore del sinodo, C. Ruini. Nel discorso finale del papa scomparve ogni accenno all’opera del CCEE che era presente nel testo provvisorio distribuito ai sinodali.

Sono bastati due anni per escludere Martini dalla presidenza (1993) e avviare una stagione sempre meno propulsiva dell’organismo dei vescovi europei.

Rinnovata corrente evangelica
A 32 anni da quel sinodo, un velo di melanconia ricopre le potenzialità non esperite dalle ricerche e indicazioni del “gruppo di San Gallo” e del CCEE di allora, ma suggerisce anche alcune schematiche annotazioni. Semplici appunti su riferimenti istituzionali che meriterebbero una più ampia riflessione: il papato, le rappresentanze dei vescovi in Europa, l’ecumenismo, e due elementi di grande rilievo all’interno della Chiesa (gli abusi) e nel contesto continentale (la guerra in Ucraina).

Papa Francesco non dipende dal gruppo di San Gallo, ma piuttosto dalla tradizione pastorale e teologica dell’America Latina. E soprattutto dall’anima evangelica del Vaticano II, dove pur è presente anche la dimensione più conservativa della neo-cristianità.

Nel suo scritto fondamentale, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (26 novembre 2013), Francesco declina l’identità della missione evangelizzatrice e le riforme interne, come la collegialità, sull’onda dell’enciclica di Paolo VI Evangelii nuntiandi e della corrente a cui apparteneva il gruppo di San Gallo.

Non si tratta di ammodernare una dottrina, ma di leggere i “segni dei tempi” alla luce del Vangelo. La missione, che è l’identità della Chiesa, non ignora né la dottrina né il richiamo alla legge naturale, ma nella gerarchia delle verità, tutto è subordinato al Vangelo.

Il kerigma esprima «l’amore salvifico di Dio, previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità e una armoniosa completezza che non riduca la predicazione e poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche» (n. 165). I

l nostro tempo, pur abitato da infinite sfide, non è apocalittico e pericoloso. È piuttosto un kairos, tempo propizio per il Vangelo. Purché la Chiesa sappia rinnovarsi in tutte le sue strutture (papato ed episcopato compresi), sapendo riconoscere i suoi errori e fragilità.

L’attuale sfida del sinodo universale, che chiama alla responsabilità diretta ogni comunità cristiana, è il compimento di uno sviluppo storico. Dopo aver riscoperto la centralità del servizio petrino e la collegialità episcopale, è l’intera Chiesa ad essere investita della responsabilità del suo futuro.

Scarsa profezia
L’Europa ha perso la sua centralità numerica in ordine all’adesione confessionale e non è in grado di esporsi come cristianità. Il suo corpo episcopale sembra aver dimenticato il compito di far vivere il vangelo «in una società altamente tecnologica e sociologicamente secolarizzata».

La parabola del CCEE non è più riuscita ad anticipare le sfide comuni, favorendo certo la coscienza dell’insieme, ma limitandosi, come nel caso del terrorismo, a prendere atto di quanto succedeva. È invece cresciuto il riferimento alla Comece, costretta dal cammino dell’Unione Europea ad affrontare via via i temi più urgenti come anche le denunce non evitabili (vedi la proposta di riconoscere il “diritto” di aborto).

Il cammino ecumenico è entrato in una stagione invernale. Per fortuna, continuano gli avvenimenti di dialogo previsti e non mancano nuove interlocuzioni come verso i neopentecostali.

Dopo l’assemblea di Basilea (1989) e di Graz (1997), si è celebrata quella di Sibiu (Romania, 2007), ma la spinta si è assopita e la volontà identitaria si è rafforzata. Senza tuttavia impedire tensioni interne come fra gli anglicani. L’incomprensione degli episcopati dell’Est verso il cammino sinodale tedesco frattura il corpo episcopale.

Il caso più grave è certamente lo scisma intra-ortodosso, legato al tema dell’autocefalia riconosciuta da Costantinopoli alla Chiesa ucraina. Ramo ellenico e slavo, comprese le rispettive diaspore, sembrano inconciliabili. L’identificazione con la guerra del patriarca di Mosca è una ferita per l’insieme del cristianesimo. Il concilio ecumenico delle Chiese, il dialogo Roma-Costantinopoli e la pratica diffusa di un buon vicinato tengono in piedi la promessa evangelica di “un solo gregge”.

Abusi e guerra
Due elementi dolorosi stanno fortemente incidendo nel vissuto delle comunità cristiane del continente: l’esplosione della denuncia degli abusi del personale ecclesiale e la devastazione dell’ethos prodotta dalla guerra in Ucraina.

Sul primo elemento mi limito a citare una riflessione di Thomas Halik nell’assemblea continentale in preparazione al sinodo (Praga, febbraio 2023): «Gli abusi sessuali giocano per me un ruolo simile agli scandali legati al commercio delle indulgenze prima della Riforma. All’inizio i due fenomeni sembrano marginali. Ambedue hanno rivelato problemi sistemici molto più profondi. Nel caso del commercio delle indulgenze, si trattava della relazione fra Chiesa e denaro, Chiesa e potere, clero e laici. Nel caso degli abusi sessuali, psicologici e spirituali, si tratta della malattia sistemica che il papa ha chiamato “clericalismo”. Riguarda anzitutto gli abusi di potere e di autorità (…).

L’identità e autenticità del cristianesimo si colloca dentro la partecipazione al dramma della Pasqua, il mistero della morte e risurrezione. Molte cose nella Chiesa devono morire perché la risurrezione abbia luogo. E la risurrezione non è una “rianimazione”, un ritorno all’indietro, ma una trasformazione radicale».

L’aggressione russa all’Ucraina ha riportato la guerra in Europa. Le spese militari sono schizzate verso l’alto, una crescita che non si registrava da 30 anni, anche se, dal 2000, la corsa era ripresa. Nel mondo sono cresciute del 2,2%, in Europa del 13%. La Polonia ha raddoppiato le sue spese. In Ucraina costituiscono un terzo del Pil (44 miliardi di dollari).

Il conflitto ha rimesso a nuovo la strategia immaginata da Zbigniew Brzezinski nel 1997. Un grande scacchiere di paesi, comprendente Francia, Germania, Polonia, Ucraina, in funzione anti-sovietica. Con lo spostamento del “centro” europeo a Nord-Est. Contestualmente, il confronto fra USA e Cina si sta minacciosamente alzando. L’attesa popolare della pace, sostenuta dal magistero di Francesco e dalla maggioranza delle confessioni cristiane, sembra non avere un’interpretazione politica alla sua altezza.

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