Libretto di Verdi censurato perché parla dei preti sposati a Teatro a Parma

Bisogna vederlo, per raccontarlo. Viverlo da vicino, per capirne le ragioni. Scoprendo che il famoso “stare in piedi”, di cui si parla polemicamente da mesi, non era una trovata. Nemmeno una boutade o una provocazione, tanto per attirare interesse. No, allo Stiffelio di Verdi proposto da Graham Vick, al Teatro Farnese, per il Festival di Parma, nessuno si siede perché tutti diventiamo parte della storia. Attori. Tutti. Anche involontariamente. Sia chi plaude, sia chi protesta.

Per questo, che fu uno dei libretti più censurati (perché si parlava di divorzio e di sacerdoti sposati) il regista inglese, famoso per l’indipendenza di pensiero, osa una lettura di denuncia dei nostri estremismi religiosi. Di cui non subito ci si accorge: all’ingresso, prima di varcare la solenne gradinata che dal cortile della Pilotta porta ai fasti dell’arca lignea del Farnese, ti danno da indossare al collo un nastro rosso, con un cartellino disegnato. Stilizzata, c’è una famiglia. Mamma, papà, bimbo e bimba. Ingenuamente, tu credi che sia un’indicazione per raccomandare di tenere gli eventuali piccoli per mano (in una situazione di teatro magari pericolosa). E invece quel cartellino che tutti portiamo è un marchio. Da lì ci segnerà come gruppo, squadra, setta.

In sala, mentre entriamo è già iniziata la Sinfonia (filologicamente, così usava nell’Ottocento). Presto ci accorgeremo di far parte di una massa giudicante. In piedi, siamo come le “sentinelle” dei movimenti di estremismo cattolico, contrari a qualsiasi forma di mutazione. Ce lo confermano gli striscioni con slogan, sui gradoni del Farnese. E dei giovani dall’aria mistica, che di colpo ti vengono incontro e ti abbracciano stretti. E ancora dei sacerdoti, con il libro rosso della Bibbia in mano, che leggono assorti, severi, sfidanti. A un certo punto due di loro si baciano. Poi altri, a terra, si toccano, inquieti e rabbiosi. Siamo circondati. Immersi nel clima di una frangia fanatica, dai movimenti esatti di Ron Howell. Siamo esattamente nel clima storico ed emotivo in cui Verdi vuole la storia di Stiffelio, ministro assasveriano, e di sua moglie Lina, che lo tradisce minando la solidità di una coppia modello. Perno di una comunità violenta, repressa, capeggiata dal padre della donna. Che alla fine ucciderà l’amante della adultera, giustificando il gesto come necessario sacrificio. Verrà il perdono, a ricomporre la famiglia. E soprattutto la massa intorno: non più sbandata, accalcata a ondate intorno alle varie isole del racconto, ma ormai rassicurata, uniforme, appagata.

Si esce molto turbati, da questo Stiffelio. Innanzitutto per essere stati dalla parte della folla: come nella tragedia greca, siamo coro. Anche la struttura del teatro, a emiciclo, enfatizza la memoria. Tutto si svolge nella platea, cioè nell’orchestra, nel luogo dove ci si muove. La vera orchestra, quella del Comunale di Bologna, diretta da Guillermo Garcia Calvo, sta in fondo, dove dovrebbe essere la scena. Galleggia sopra le nostre teste fino alla fine dell’opera, quando si trasforma in un magico organo, solenne e trionfale, al quale con un colpo di genio Verdi affida la conclusione. Ma in Stiffelio l’invenzione è soprattutto nelle voci: e non è invenzione gratuita, giusto per sopravanzare Rossini, per sovvertire un modello usurato di belcanto. Verdi inventa per fare teatro. Per portare contenuti urticanti, scabrosi, attuali. E qui Vick ha assolutamente ragione: l’opera non è mai maniera, effetto, decorazione. L’opera è vita.

Con finezza storica, per una vicenda di religione, viene recuperato il teatro sacro medioevale, a stazioni. I carri di ieri diventano piattaforme mobili, leggermente più alte degli spettatori, che scivolano tra la massa, obbligandola a muoversi, a ricomporsi. Ogni spostamento crea una scena. Due letti, una croce, un tavolino, gli unici arredi, come gli abiti firmati da Mauro Tinti. Ogni scena parla, diretta, vicina. I cantanti ti guardano. Non recitano, sono. Francesco Landolfi è un padre viscido, ex-militare attaccato alla croce di guerra: vuole la figlia come una bambola, le stacca la testa. Luciano Ganci e Maria Katzarava formano una coppia di opposti: lei formosa e sensuale, eroica; lui azzimato, fragile. A Giovanni Sala basta sfilarsi la maglietta per essere seduttore. Ogni gesto diventa più impudico, ogni goccia di sudore puro dramma. Il nuovo corso del Festival Verdi parte da qui.
ilsole24ore

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