Sinodo: il non detto, i rinvii e la questione aperta dei preti sposati

“L’appuntamento già fissato per il 2024 richiede molto pensiero, molta saggezza, fiducia, per evitare che il dibattito si avviti su se stesso mentre il mondo brucia”. L’articolo sottoriportato di Alberto Melloni pubblicato dal Corriere della Sera analizza il Sinodo. Per il Movimento Internazionale dei sacerdoti sposati manca nella riunione romana ancora in corso l’amore per il Vangelo e per la sopravvivenza della Chiesa oggi. Gerarchie vaticane e rappresentanti vari a discutere spesso sul nulla con l’avallo di Bergoglio che alimenta l’immobilismo in particolare sulla riammissione al ministero dei preti sposati, tanto da essere stato preso in giro in questi giorni da Fiorello su Rai2.

A seguire l’articolo:

“Francesco ha dato al sinodo della Chiesa cattolica una forma diversa: quella di un «concilio non-generale», che riunisce una porzione del collegio episcopale, alcuni fedeli cattolici e pochi cristiani di altre Chiese. Lo ha convocato per una sessione ormai prossima alla conclusione con un documento intermedio, ed una seconda l’anno prossimo: alla vigilia di una lunga intersessione in cui il sinodo non è né sciolto né riunito non si possono tirare delle somme, ma elencare delle questioni.

Il sinodo si è avvolto di un segreto paradossale. Dei colloqui papali a braccio fatti coi gesuiti d’ogni dove, sappiamo ogni sospiro: della più grande assemblea cristiana dai tempi del Vaticano II nulla. Il divieto di comunicare è stato imposto da Francesco con la pia fraus che nei sinodi sulla famiglia e sull’Amazzonia erano stati i giornalisti a dettare l’agenda sulla comunione dei divorziati e sui preti uxorati (che sono stati ammessi da Benedetto XVI, ma solo se ex anglicani). Risultato: la comunicazione c’è stata, ma ha detto urbi et orbi che la chiesa cattolica ha fatto una scelta autoreferenziale, in una murmuratio globale svolta proprio mentre un’ alluvione di sangue bagnava la terra di Israele e quella di Gaza, aggiungendo un capitolo chiave alla terza guerra mondiale a puntate.

Nel discorso più importante del suo pontificato – perché la conciliarità è il contenuto più importante del pontificato – Francesco s’è limitato a dire che il sinodo non è un parlamento ed è fatto dallo Spirito. Principio sacrosanto: il sinodo non è «rappresentanza» di una platea, ma «rappresentazione» della Chiesa universale e riceve autorità immediatamente dal Cristo, per intuire parti di verità cristallizzate dal disuso e riscoperte man mano che alla luce della storia la comprensione del vangelo «matura» (il «maturetur» di Dei Verbum 12); e l’azione dello Spirito è dimostrata non dall’adozione di un composto galateo ecclesiastico, ma dalla capacità di parlare alle vite concrete della fede concreta. Eppure da quei principi non è disceso nulla: o almeno nulla che facesse capire che la differenza fra un vescovo e un Luca Casarini non viene da una logica di casta, ma dal fatto che la consacrazione episcopale rende il vescovo voce della communio ecclesiarum, senza la quale la policromia delle Chiese diventa federalismo degli estranei.

La preoccupazione del Papa di non sottoporre al sinodo atti precotti (come accadeva nei sinodi da Paolo VI a Benedetto XVI) ha portato la segreteria ad una ossessione «metodologica». Gli ottimisti dicono che questo ha evitato il conflitto che ci si attendeva, specie su temi collocati noiosamente sotto la cintola. I pessimisti dicono che lo ha rinviato. I realisti dicono che non dovendo discutere si è accantonato il problema dei problemi che è la prossimità fra vescovi e teologi: è grazie a quella che hanno funzionato i grandi appuntamenti conciliari della Chiesa con la storia, come il Vaticano II e il Tridentino, durante il quale i vescovi dovevano assistere alla discussione dei teologi prima di prendere la parola e di votare.

Il sistema dei tavoli tematici in cui ciascuno dice ciò che pensa e poi ciò che ha capito degli altri, ha tacitato i saperi (esegetici, storici, canonistici); ha dunque sedato la fobia romana per i vescovi «transalpini»; e ha silenziato il goffo partito dei dubia, che vorrebbe bocciare il Papa all’esame di cattolicesimo. Ma ha anche fatto sì che gli interventi plenari della durata di tre minuti abbiano prodotto un torrente di pensieri frammentati: un lungo tik-tok chiesastico, nel fluire del quale nessuno capisce dove si vada o si debba andare.

Christoph Theobald, il teologo di maggior rango al sinodo, lo aveva descritto in un libro in uscita come «un nuovo concilio che non dice il suo nome» (cioè non si definisce come concilio). Che però stiamo assistendo ad un Vaticano III di piccola taglia, capace di guarire le molte lividure che la Chiesa ha conosciuto e s’è inflitta durante gli ultimi tre pontificati, non è certo. Il sinodo, infatti, è lo strumento con cui la comunione espressa nell’atto liturgico produce decisioni con le quali la Chiesa confessa che «non è il vangelo che cambia, ma siamo noi iniziamo a comprenderlo meglio» (Roncalli). Ma ad oggi l’unica decisione presa è stata quella di posporre tutto al 2024 senza dir nulla sulla intersessione, che è il momento cruciale.

Per evitare dunque che il 2024 deliberi sul niente o precipiti posizioni che riconsegnerebbero alla Suprema Autorità il compito di dire se un orientamento è «ideologico» (quando una cosa non gli piace, Francesco dice così) o meno, serve comprendere che il sinodo si prolunga durante l’intersessione e richiede molto pensiero, molta saggezza, molta fiducia.

Non è un problema nuovo: fu così fra il primo e il secondo periodo del Vaticano II quando lavorò una commissione di coordinamento e quando Paolo VI scelse quattro «moderatori» dotati dei poteri di dirigere la discussione, aprire sessioni di voto, sottoporre quesiti, così da evitare che il dibattito si avvitasse su se stesso; ripensare quegli strumenti per l’intersessione sinodale è forse il solo modo per evitare che la Chiesa appaia, nel piissimo silenzio in cui il sinodo s’è chiuso, presa dai fatti propri, mentre il mondo brucia in attesa della Parola che salva”.

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