«L’amore cristiano, in qualunque forma sia vissuto, non fa male a nessuno. Né ai diretti interessati né a nessun altro». Ma per l’amore dei preti sposati tutto può essere messo in discussione

«L’amore cristiano, in qualunque forma sia vissuto, non fa male a nessuno. Né ai diretti interessati né a nessun altro». Ma per l'amore dei preti sposati tutto può essere messo in discussione

“Consacrati. Preti, la relazione affettiva con l’altro sesso? Passa dall’amore celibe”: il titolo di avvenire.it che distorce la questione dell’amore dei preti sposati.
Il teologo Fumagalli: con le donne né trasgressioni né inibizioni, non si può pensare il celibato per il Regno come una gabbia. La via è quella di un’«intimità spirituale casta».

Per il Movimento Internazionale dei sacerdoti sposati è una soluzione insostenibile quella proposta da Fumagalli: “l’amore verso Dio e l’amore verso una donna sono conciliabili e i preti sposati vanno riammessi al ministero”.

Di seguito l’articolo:

«L’amore cristiano, in qualunque forma sia vissuto, non fa male a nessuno. Né ai diretti interessati né a nessun altro». Sembra un’affermazione scontata. Ma quando si trasferiscono queste considerazioni all’amore di un prete per una donna sembra che tutto possa essere messo in discussione. Se un sacerdote si innamora di una donna, secondo il pensiero corrente, non ha che due soluzioni: o se ne va con lei e, come si diceva una volta, “butta via la talare”, oppure reprime eroicamente il sentimento.
Perché invece non considerare l’opportunità di «una gestione del desiderio sessuale e della sua espressione corporea corrispondente alla peculiarità dell’amore celibe»? Una soluzione umanamente più adeguata e anche più saggia per una gestione equilibrata del ministero sacerdotale che «permetterebbe al prete celibe di porsi di fronte a una donna che lo attraesse evitando gli estremi opposti della trasgressione o dell’inibizione»? Strada difficile, certo, ma a cui guardare finalmente con serenità, partendo da una situazione in cui il celibato per il Regno dei cieli non è vissuto come una gabbia in cui rinchiudersi o da cui evadere alla prima occasione, ma come un sentiero su cui incedere. Parlando dell’affettività dei preti questo percorso assomiglierà «talvolta a un percorso in cresta con una vista meravigliosa, ma con il rischio di scivolare in un amore che sia senza agape o senza eros». E questo corrisponde appunto alla doppia deprecabile deriva: trasgressione o inibizione.
Lo scrive il teologo Aristide Fumagalli, docente di teologia morale, in L’amore celibe. La relazione del prete con le donne (San Paolo, pagg. 144, euro 16). Un testo che, con la consueta chiarezza, affronta una questione delicata facendo giustizia di tanti luoghi comuni e di tanti “non detti”. Se il celibato per il Regno ha ancora senso, spiega l’autore, non va inteso come narcisismo di chi dona se stesso per «compiacere il proprio perfezionismo magari così pensando di amare perfettamente alla stregua di Dio amore», ma neppure con la sindrome dello scapolone che vive sì per il celibato ma non per il Regno. «La sua non è la “doppia vita” di chi disgiunge agape ed eros, asservendo per esempio una donna al proprio desiderio, ma la “mezza vita” di chi, in nome di agape, esclude eros. La sfida, se tale vogliamo intendere l’amore celibe, è tutta qui. Come mantenersi in equilibrio tra un celibato trasgressivo e un celibato inibito.
Due rischi, spiega Fumagalli, che avviliscono la figura del prete e inquinano la Chiesa. La strada per sfuggire a questo doppio pericolo, speculare e strettamente collegato, perché spesso sotto i panni dell’inibito c’è un trasgressivo che prima o poi deciderà di non fuggire “l’occasione prossima di peccato”, è quella di riconoscere che può esistere l’amore celibe sessuato – che esclude quindi la dimensione genitale – con una sua generatività, una sua espressione, una sua promozione reciproca di gioia e di pace. È un amore che si gioca alla luce del sole, con trasparenza e immediatezza, che non ha nulla di clandestino, che non ha paura di confrontarsi con altre persone a cui chiedere consiglio e aiuto. Per metterlo in pratica occorre esercitare la virtù della castità celibe che vuol dire rispetto e promozione dell’altrui differenza, prendendo le distanze dall’amore erotico ma aprendo le porte all’emozione sentimentale per entrare in un dialogo libero e ricco.
Ma quanto è difficile vivere questa intimità spirituale casta tra un prete e una donna? Il primo criterio per riuscirci, spiega don Fumagalli, è pensare che è «dall’intimità con il Dio amore che nascono le nostre più intime relazioni interpersonali» e quindi il riferimento è sempre all’amore di Cristo in cui si intrecciano desiderio e dono, eros e agape. Una certezza che rende possibili anche gesti di affetto interpersonali la cui adeguatezza sarà sottoposta al giudizio della coscienza personale degli interessati. «Se la cautela in questa relazione è comunque indispensabile – scrive nella prefazione l’arcivescovo di Modena-Nonantola, Erio Castellucci, vicepresidente della Cei – essa non deve mai diventare paura». E non si tratta di una teoria impossibile da tradurre nella realtà. L’ultima parte del libro è dedicata a sette storie d’amicizia tra celibi, raccontate attraverso le lettere scambiate tra i due. Si va da san Francesco con donna Jacopa dei Sette Soli fino a don Giuseppe De Luca con Romana Guarnieri e a Karol Wojtyla con Wanda Poltawska. Storie che mostrano quanto «il celibato per il regno dei cieli non è propriamente uno stato di vita da preservare, quanto una vocazione all’amore da vivere».
Lo sapeva bene il santo vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, che alla sua amata Giovanna Chantal, madre di sei figli e vedova, anche lei santa, scriveva: «Tenetemi molto strettamente legato a voi, e non datevi pensiero di sapere altro, se non che questo legame non è contrario a nessun altro, sia di voto e sia di matrimonio». Parole di un dottore della Chiesa.

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