L’inizio della fine di Giorgia Meloni è arrivato

Tre ore di conferenza stampa per Giorgia Meloni che risponde a 42 domande:  le reazioni

Ancora lei forse non se ne è resa conto, ma l’inevitabile legge dei cicli politici che logora una leadership nel giro di un paio d’anni sembra verrà rispettata anche questa volta. L’editoriale del direttore Luciano Fontana sul primo numero dell’anno del Corriere della Sera del 2024 segna un cambio di linea del giornale e certifica un’evoluzione nell’atteggiamento dell’establishment che in questi due anni è stato molto indulgente con Giorgia Meloni e le varie destre di governo.

Il Corriere cambia linea
Fontana scrive, a proposito del paese, «servirebbe una svolta ma non se ne vedono le tracce». E poi, sulla maggioranza e Meloni: «la prudenza, aver evitato danni, non può essere l’orizzonte di un governo che vuole durare cinque anni, e che deve fare i conti con un periodo elettorale in cui le tensioni dentro la maggioranza possono rappresentare la vera spina nel fianco».

In questa frase c’è il bilancio di un percorso della destra, di Fratelli d’Italia, ma anche di quello del suo alleato più rilevante, cioè il Corriere e il mondo che rappresenta: negli ultimi anni il più influente quotidiano del paese ha accompagnato l’evoluzione della destra un tempo postfascista con indulgente fiducia, un po’ come aveva fatto con il Movimento Cinque stelle (in particolare nella versione di Gianroberto Casaleggio).

Invece di denunciarne le incongruenze e stigmatizzarne le degenerazioni, il Corriere ha contribuito a legittimare la nuova destra in nome di un pragmatismo mai nascosto e sempre rivendicato, anche in questo editoriale del direttore Fontana: se forze potenzialmente antisistema e destabilizzanti intraprendono un percorso di moderazione, di accettazione delle regole del gioco democratico, il ruolo del Corriere e dell’establishment non può essere quello di denunciarne l’incoerenza rispetto alla radicalità originaria, ma piuttosto di favorire questa maturazione.

Il problema è che, come ha sempre scritto il politologo Marco Tarchi, quando le forze populiste e antisistema smettono di essere populiste e antisistema, non diventano partiti moderati e affidabili, restano l’accozzaglia di personaggi improbabili che erano ma perdono voti. E’ successo ai Cinque stelle, sta succedendo a Fratelli d’Italia.

Fontana chiede a Meloni un ultimo sforzo, in questa evoluzione, cioè fare una «scelta europeista coerente» che «non è più rinviabile». E poi far pagare le tasse invece di incentivare l’evasione, smetterla con misure bislacche come il divieto di vietare i presepi o il bando alla carne coltivata.

L’alternativa, e qui Fontana ci va giù pesante, è «precipitare in una stagione simile alla fase finale dell’ultimo governo Berlusconi, tra show, conflitti istituzionali e isolamento internazionale».

Fontana omette, ma non sfugge ai lettori, che in quella fase l’Italia è arrivata a un passo dall’insolvenza sul suo debito pubblico e soltanto la drastica cura del governo Monti ha evitato il peggio (un governo tecnico, come quelli che la riforma proposta dalla destra vorrebbe rendere incostituzionali).

Il Corriere può continuare ad aspettare questa ulteriore svolta di serietà da parte di Giorgia Meloni e dei suoi, ma se non è arrivata nel primo anno abbondante di governo senza elezioni significative e con tutte le stelle allineate, è impossibile aspettarsela a pochi mesi dalle elezioni europee quando la competizione interna alla maggioranza tra Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia spingerà i vari partiti a connotarsi con identità sempre più marcate, invece che a convergere verso il centro della moderazione.

Unfit for the Job
Nel 2023 Giorgia Meloni ha fatto di tutto per meritarsi un titolo analogo a quello celebre dell’Economist su Silvio Berlusconi nel 2001: unfit to lead Italy, inadatta a guidare l’Italia.

Negli Stati Uniti − o in qualunque altra democrazia tranne che in Francia, dove stampa e opposizione si autocensurano su queste cose − la salute di Giorgia Meloni sarebbe già un problema politico. Non si è mai visto un leader occidentale che continua a saltare impegni ufficiali adducendo ragioni di salute. Neppure l’ottantenne Joe Biden che, anzi, si sente costretto a dimostrare continuamente il suo vigore.

Giorgia Meloni passa da un’influenza all’altra, già un anno fa a dicembre prima e poi a gennaio annullava Consigli dei ministri e disertava vertici internazionali. A fine 2023 di nuovo lo stesso schema, niente saluto al Quirinale, due volte rinviata la conferenza stampa di fine anno, in mezzo la diserzione perfino dalla sua festa di partito, il 24 ottobre, questa volta per gestire la rottura con il compagno, Andrea Giambruno.

O c’è una questione sanitaria che comincia a compromettere la capacità di Meloni di esercitare le sue funzioni (contro l’influenza basterebbe vaccinarsi, ma a destra certe scelte sono poco popolari…), oppure l’Italia è guidata da una premier che usa le stesse scuse di un liceale che vuole saltare la lezione. E che da febbraio non si espone a una vera conferenza stampa, con domande non concordate.

Il continuo ricorso alla giustificazione sanitaria rafforza l’impressione di una leadership fragile, schiacciata forse da un carico di responsabilità che l’inesperta Meloni non sa gestire (è in politica da una vita ma senza aver mai amministrato nulla).

Chi ha sfidato la sua autorità, è rimasto al suo posto: la ministra del Turismo Daniela Santanché ha mentito in aula sulle indagini a suo carico per bancarotta ma non si è dimessa; il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi − anche lui indagato − è stato sfiduciato dal suo ministro di riferimento, Gennaro Sangiuliano, perché gira l’Italia a pagamento tra consulenze e perizie, ma Meloni lo lascia al suo posto; il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro va a processo per rivelazione di segreto sul caso Cospito, non solo rimane in carica ma festeggia pure Capodanno con Emanuele Pozzolo, deputato di Fratelli d’Italia (ovviamente) che spara, ferisce un ragazzo e poi usa l’immunità parlamentare per ostacolare le indagini.

Meloni non caccia nessuno, non sacrifica qualche testa per dimostrare che è lei che comanda, viene travolta dagli eventi. Nelle dinamiche interne come in quelle internazionali: il ministro dell’Economia (leghista) Giancarlo Giorgetti sconfessa il nuovo Patto di stabilità e crescita che ha negoziato, Giorgia Meloni lo fa approvare mentre boccia la ratifica del trattato di modifica del fondo salva Stati MES.

Col doppio risultato di dimostrare che il ministro dell’Economia non conta nulla e che a livello europeo gestiamo i negoziati incrociati senza alcuna strategia.

E quindi?
Questo disastro porta la destra e Giorgia Meloni verso un esito scontato: entro fine anno si porrà il problema dei ritardi sul PNRR, forse tensioni sul debito pubblico, completa rinuncia al programma elettorale 2022 al momento di impostare la legge di Bilancio (a meno che non si renda necessaria una manovra correttiva in corso d’anno).

Di argomenti per cambiare timoniere non ne mancheranno. Quello che manca è una alternativa politica. O meglio, una c’è, ed è quella impersonata da Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica ha pronunciato uno strano discorso il 31 dicembre, molto vago e un po’ retorico, ma che io riassumerei così: c’è un intero paese, il paese migliore, che segue altri valori da quelli oggi rappresentati dalle destre, che vive in un altro modo l’impegno civico, che testimonia i valori della Costituzione.

Mattarella è un argine: firma anche le leggi peggiori, come quella sulla carne coltivata, ma non perdona e soprattutto non dimentica. Tutto il suo primo mandato è stato orientato a evitare l’affermarsi di una destra anti-europea, figurarsi se tollererà in modo passivo la degenerazione della maggioranza verso le sue più profonde tendenze sovraniste.

Il problema è l’opposizione, ma anche questo problema potrebbe presto risolversi. Mi spiace ammetterlo, ma Elly Schlein non è riuscita a schiodare il Pd da quota 19-20 per cento nei sondaggi e non si è imposta nel dibattito pubblico. Non è mai diventata l’anti-Meloni, non ha cambiato la natura di un partito decotto, non ha costruito una nuova prima fila di facce e idee.

In queste condizioni, non può ambire a guidare lei in prima persona un nuovo assetto dell’opposizione. Se non – come si dice nel gergo dell’area – per favorire l’arrivo di un “federatore” che tenga insieme Pd e Cinque stelle: ma perché mai due leader movimentisti come Elly Schlein e Giuseppe Conte dovrebbero allinearsi dietro un Paolo Gentiloni o un altro moderato di profilo europeo che spegnerebbe ogni entusiasmo nella base dei rispettivi partiti?

La debolezza della leadership di Elly Schlein ha reso la guida dell’opposizione contendibile: Giuseppe Conte può ambire a raggiungere e forse superare il PD con il Movimento Cinque stelle − non sarebbe certo la prima volta − e a quel punto proporsi lui come figura di riferimento o come regista di nuovo assetto e proporre un possibile volto terzo per puntare al governo.

I Cinque stelle hanno dimostrato più volte un sorprendente talento nell’annettersi figure estranee al Movimento perfino prestigiose – da Stefano Rodotà ai tempi della corsa al Quirinale nel 2015 allo stesso Conte a Pasquale Tridico, ottimo presidente dell’Inps – mentre il Pd ha esaurito le riserve da mandare in campo in caso di emergenza.

Qualunque sia il risultato, le elezioni europee di giugno permetteranno di superare lo stallo attuale a sinistra: o Elly Schlein ha un risultato a sorpresa che la legittima di nuovo dopo un anno privo di acuti, oppure crolla. O Conte raggiunge e sorpassa il Pd, Conte resiste e si afferma e l’inevitabile alleanza − convinta o meno che sia − rinasce su altre basi.

L’inizio della fine di Giorgia Meloni rende questo processo inevitabile, a prescindere dalle volontà dei protagonisti, verrebbe da dire.

Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 3 gennaio 2024
settimananews.it

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