Papa Francesco: l’idea di una Chiesa comunitaria e moderna

Un anno dopo la sua elezione papa Francesco continua a godere di un consenso altissimo, mentre una torma di avversari silenziosi si muove nell’ombra dietro le quinte. Jorge Mario Bergoglio ha rotto gli equilibri nella Chiesa cattolica. Avesse semplicemente tagliato qualche ufficio della curia e riportato un po’ di efficienza e correttezza nella banca vaticana – come gli chiedeva la base elettorale in conclave – non avrebbe dato fastidio al nucleo conservatore, che si annida negli apparati vaticani e in molte strutture ecclesiastiche sparse per il mondo.

Avesse organizzato solo meglio le riunioni dei concistori per dare modo ai cardinali dei cinque continenti di esprimersi puntualmente su alcuni problemi di interesse generale, riprendendo contemporaneamente un contatto regolare con i capi dicastero della curia per fare funzionare meglio la macchina vaticana, tutti i zucchetti porpora e viola sarebbero stati tranquilli.

Invece il papa argentino ha messo in moto una rivoluzione. Sta rimodellando la Chiesa cattolica, spogliandola della mitologia e delle pratiche di un papato imperiale in cui il pontefice è sovrano assoluto e vescovi, preti, suore e fedeli sono semplicemente sudditi. Non è questo ciò che indicava il concilio Vaticano II, ma nei fatti nell’ultimo mezzo secolo nessuno aveva messo mano per smontare la struttura assolutista ereditata dal concilio di Trento.

L’insistenza, con cui in varie occasioni il papa cita elogiandolo il concetto di “sinodalità” della Chiesa ortodossa, significa che Francesco ha in mente un obiettivo preciso: una Chiesa cattolica più comunitaria in cui il governo centrale funziona con la partecipazione dei vescovi. In altre parole Bergoglio – senza nulla togliere al potere decisionale finale dei pontefici – ritiene essere sano per la Chiesa che il papa romano governi “con” i vescovi dell’orbe cattolico. Contemporaneamente papa Francesco sta reimpostando il rapporto tra Chiesa e società contemporanea. A partire dal dialogo con i non credenti, non più considerati come mutilati (a cui “manca” qualcosa) ma trattati come portatori di valori da rispettare senza ambiguità, perché in ultima analisi ciò che caratterizza ogni essere umano è la posizione che la sua coscienza prende di fronte al problema del bene e del male.

Guardando la contemporaneità con occhio sgombro da ideologismi dottrinari, in un anno ha spazzato dal tavolo l’equivoco diktat dei “valori non negoziabili”– confessando di non capire che cosa il motto potesse, al fondo, significare – e ha reimpostato radicalmente secondo una visione pastorale tutta la tematica della relazionalità sessuale e affettiva: dal divorzio (è il primo papa che serenamente usa la parola “secondo matrimonio”), alla contraccezione, all’omosessualità, alle unioni civili, all’esistenza di nuclei di convivenza in cui i bambini si trovano insieme ad adulti dello stesso sesso.

Di questo nuovo approccio fa parte la consapevolezza che la Chiesa cattolica non può andare avanti senza fare concretamente spazio alle donne. Francesco, sul piano programmatico, ha fatto un enorme balzo in avanti rispetto alle tradizionali belle parole sul “genio femminile”, che hanno avuto corso per decenni negli ambienti ecclesiastici. Ha detto che le donne nella Chiesa devono stare nei posti dove si “decide” e dove si “esercita autorità”. Sul piano pratico ha sostenuto una vigorosa opera di pulizia nella banca vaticana, ha messo in piedi procedure per la cooperazione con altri stati (fra cui l’Italia) nel campo delle indagini finanziarie, ha creato un comitato per il contrasto al riciclaggio di denaro sporco e ha istituito un dicastero per controllare la politica degli appalti e degli acquisti in Vaticano: operazioni da sempre fonte di torbidi affari.

Sul piano del governo la creazione del “consiglio della corona” di otto cardinali provenienti dai cinque continenti costituisce il rodaggio di un organismo consultivo permanente inedito in tempi moderni. Ma la cosa più interessante è la trasformazione del sinodo dei vescovi in un piccolo concilio, convocato a scadenze regolari, a cui il papa affida il compito di fare proposte pastorali precise. Non sarà lui – e non vuole esserlo – ad affacciarsi alla finestra dicendo, ad esempio, che i divorziati risposati potranno fare la comunione.

La rivoluzione di Francesco consiste nel fatto di avere organizzato un sondaggio universale su ciò che pensano i fedeli (sabotato peraltro in moltissime diocesi) e di affidare ai sinodi del 2014 e l 2015 la responsabilità di sciogliere a viso aperto i nodi dell’ossessione di controllo della sessualità, in cui le gerarchie cattoliche si sono impigliate dopo secoli di una esasperata casistica. L’opposizione dei settori più tradizionalisti (o semplicemente “disorientati”) della Chiesa è attiva su ciascuno dei punti, che Francesco ha enucleato i questo anno. Etichette manichee non hanno senso.

In curia esistono riformatori e frenatori. E così negli episcopati del mondo. C’è chi è contro la comunione ai divorziati risposati ed è favorevole all’indulgenza per i gay. Chi agita la bandiera delle marce contro l’aborto e chi vede come fumo negli occhi una presenza femminile nelle stanze dei bottoni vaticani. I conservatori temono specialmente la fine dell’assolutismo papale. Su Internet i falchi si sfogano nella maniera più aggressiva, tacitamente sostenuti da quei prelati costretti ufficialmente all’ossequio verso il pontefice.

L’enorme popolarità di Francesco, dentro e fuori la Chiesa – dovuta al fatto che non sembra parlare al “recinto” cattolico, ma all’umanità contemporanea – è lo scudo che ne protegge il cammino riformatore. Ma la battaglia diventerà sempre più aspra nel momento in cui saranno in agenda le specifiche innovazioni. La strategia del papa consiste precisamente nel voler portare alla luce dibattiti e conflitti in quel parlamento rappresentato dai “sinodi”. Così lo scontro sarà visibile a tutti come ai tempi di Giovanni XXIII e Paolo VI durante il concilio.

di Marco Politi – Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2014

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