Prospettive. Smetto quando voglio: se il lavoro è (anche) questione di senso

Digitale e lockdown hanno scardinato il modo precedente di vivere il lavoro, a favore di significati più profondi e di una maggiore cura dei propri affetti
Smetto quando voglio: se il lavoro è (anche) questione di senso
avvenire.it

Era il 1987, l’Italia si era ormai congedata dai turbolenti anni Settanta, la fabbrica aveva smarrito definitivamente la sua vocazione di laboratorio politico e la penna affilata di Giorgio Bocca scavava dentro «un presente meteorico che ingoia il futuro» per arrendersi all’evidenza di qualcosa di non più aggirabile: la vertiginosa accelerazione imposta dall’automazione nel mondo del lavoro. Bocca catturava, a suo modo, la condizione di incertezza e smarrimento di chi si trova(va) affacciato sul «mare ribollente, cangiante, minaccioso della rivoluzione tecnologica». Dopo decenni, altri sommovimenti hanno elettrizzato, sconvolto e interamente ridisegnato l’universo lavorativo. Qual è oggi il suo volto? Quali forze ne stanno modellando il profilo?

Paolo Iacci, docente di Gestione delle risorse umane all’Università Statale di Milano e presidente di Eca Italia, nel suo Smetto quando voglio. Il lavoro nel nuovo millennio tra quiet quitting e silenzio organizzativo (Egea), parte da un paradosso. Del lavoro, in Italia, si parla poco. Più il suo spazio è debordante, più esso evapora dal discorso pubblico. Più, per dirla con il filosofo francese Jean Baudrillard, «il lavoro è ovunque» – basti pensare alla paradossale cattura del tempo libero totalmente impiegato negli ingranaggi produttivi –, più il “dossier” lavoro dilegua. Eppure «in Italia non si è mai lavorato così tanto come oggi», annota Iacci. Anche la narrazione della fuga dal lavoro, della cosiddetta “Grande dismissione”, innescata dalla pandemia e dal “fermo” forzoso imposto alla libera circolazione, va ridisegnata: più che di fuga, per il Bel Paese è opportuno parlare di “migrazione”. Chi ha lasciato il lavoro, chiarisce l’autore, lo ha fatto per abbracciarne un altro, spinto da una molla essenziale: il desiderio di migliorare la propria condizione lavorativa ed esistenziale.

Indagando le dinamiche che lo attraversano, Iacci coglie il motivo di fondo, la trama che innerva la grande trasformazione dell’universo lavoro, dopo che l’assalto del digitale prima e del lockdown dopo «hanno scardinato l’organizzazione aziendale basata sulla contemporaneità di tempo e sull’identità di luogo»: la ricerca di senso. «La gente è meno disposta a vivere una vita professionale non soddisfacente», scrive. Il lavoro è stato in qualche modo detronizzato, spogliato dalle sue pretese totalizzanti, relativizzato. Accanto al lavoro, altre dimensioni della vita, la cura degli affetti in primis, reclamano il loro posto. La quarta rivoluzione industriale, in questo senso, ha aperto squarci imprevisti e improvvisi (con annesse difficoltà): l’affermarsi del digitale ha modificato «profondamente l’assetto base dell’impresa per come l’abbiamo conosciuta nel secolo passato: l’unitarietà di tempo e spazio. Oggi si può fare impresa lavorando ovunque e in qualsiasi momento». Resta la tensione tra due poli: a una estremità, il ventaglio di possibilità offerte da una più libera gestione del tempo personale (e quindi familiare); all’altra, il rischio della indistinzione tra spazio domestico e lavorativo, con fagocitazione del primo ad opera del secondo. In questa “partita”, tra questi due poli, si gioca il futuro del lavoro. E tuttavia una costante sembra mediare i rapporti degli italiani con le realtà aziendali e produttive: la disaffezione, un atteggiamento apatico verso il lavoro, una certa tonalità di scoramento. È quella che Iacci chiama inquietudine: «Se potesse, il 46,7 per cento degli occupati italiani lascerebbe l’attuale lavoro. Quali sono le ragioni dell’inquietudine che avvolge il rapporto con il proprio lavoro?».

«Quasi un terzo dei dipendenti – scrive ancora l’autore – va al lavoro percependo i propri bisogni come insoddisfatti, con il risultato di sentirsi frustrato e provare ostilità nei confronti dell’azienda per cui lavora. Questo è il punto veramente preoccupante. Il dato è molto significativo e fa riflettere su alcune frettolose diagnosi sulle grandi dimissioni interpretate come rifiuto del lavoro o sul quiet quitting come consapevole sciopero bianco contro una cultura egemone che vede il lavoro come eccessivamente centrale nell’economia della vita delle persone. Queste, in larga parte, continuano a scorgere nell’attività professionale la possibilità di espressione di sé e come fondamentale legame sociale e possibilità di costruire una vita degna di essere vissuta». Quella che sembra essersi oscurata è, insomma, la fiducia, intesa come misura reale della possibilità di operare (in meglio) all’interno delle strutture aziendali.

Come uscirne? Come invertire la rotta? Come rivitalizzare vite lavorative spente o appassite? Iacci è ben consapevole che non esistono ricette facili, né scorciatoie. La soluzione, oltre che meramente “aziendale”, è culturale e investe il sistema Italia nella sua interezza e complessità. Da tutti i punti di vista. Compreso quello demografico che spinge i giovani italiani a lasciare il Paese e a cercare fortuna altrove. In ballo c’è la costruzione di un senso, individuale e comunitario allo stesso tempo. «Oggi il focus – scrive Iacci – è sul binomio vita-lavoro. I temi dell’occupazione, della stabilità e della giusta remunerazione rimangono, ma sono integrati dalla necessità di poter agire un lavoro che possa avere un suo significato intrinseco. Assistiamo a un’urgenza di senso per ciò che riguarda l’esperienza lavorativa».

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