Quei “bastardi” in uniforme. Con “ACAB”, esordio al cinema, Sollima firma un film documento

«So’ incazzato»: sono queste le prime parole che escono dalla bocca del poliziotto del reparto mobile Cobra (l’ottimo Pierfrancesco Favino) in ACAB, esordio alla regia cinematografica di Stefano Sollima (il regista del Romanzo criminale televisivo) basato sul best seller omonimo di Carlo Bonini. E ACAB, l’acronimo che sta per All cops are bastards, il richiamo universale della guerriglia urbana, racconta tre “celerini bastardi” come spugne pagate (1400 euro al mese) «per assorbire tutto l’odio della società in cui viviamo, in cui siamo immersi nella nostra quotidianità», dice Sollima. Cobra, Negro (Filippo Nigro) e Mazinga (Marco Giallini, straordinariamente misurato) vengono raccontati non come carnefici, benché sia resa assai manifesta la loro carica di violenza (e la loro matrice ideologica, almeno nel caso di Cobra che ha in casa un ritratto del Duce e una collezione di katane da samurai), ma come cartine di tornasole di un universo sempre più intollerante e sempre più incline a reagire con le mani invece che con la testa (per non parlar del cuore).
Alla fine del film i tre protagonisti sono inquadrati come i soldati del monumento di Washington ai veterani del Vietnam, intenti a gettare lo sguardo terrorizzato in ogni direzione, perché non sanno da quale parte arriverà il colpo letale. «C’è un rischio morale nel raccontare questa storia dal punto di vista dei “celerini”», ammette Sollima, rispondendo a chi, in conferenza stampa, ha paragonato ACAB a 300, a suo tempo definito da alcuni «un film profondamente fascista». Lo stesso Sollima definisce quel rischio come l’azzardo di «togliere la museruola al rottweiler».
In effetti le immagini in cui i celerini scatenano la loro furia su immigrati prepotenti e bulli da stadio (ma ognuno può scegliere il suo target preferito, perché in ACAB le botte le prendono un po’ tutti) sono adrenaliniche in modo preoccupante, anche grazie ad un accompagnamento musicale che spazia dai Chemical Brothers ai Clash ai Joy Division creando quell’effetto coreografato che, almeno dai tempi di Kubrick e di Scorsese, rende visivamente attraente (e glamour) la violenza.
Ma obiettivamente Sollima non traccia il ritratto di tre antieroi bensì di tre perdenti, tre figure tragiche con vite personali disastrose e destinate all’autocombustione, una volta che la rabbia compressa di cui sopra esploderà – ed è inevitabile che accada. «Il film moltiplica l’effetto emotivo del romanzo», concorda Bonini. «Quando i celerini menano i “cattivi” una parte della tua pancia dice: fanno bene. Ma è importante fare i conti anche con quella parte di noi. Il film di Sollima resta fedele allo spirito del mio libro, che aveva l’ambizione di rifiutare una lettura in bianco e nero della realtà. Se come autori non ci liberiamo dal ricatto “morale” non raccontiamo niente, o ci fermiamo a quanto è funzionale a ciò di cui siamo già convinti».
«Esiste una differenza fra morale e moralismo», chiosa Favino. «È morale raccontare la realtà così come è, è moralismo bollare alcuni personaggi come brutti e cattivi. Ed è moralista delegare solo ad alcune frange la rappresentazione della violenza nella società, per poi poterci autoperdonare».
La distanza emotiva dello spettatore è resa impossibile anche dal fatto che la regia di Sollima «ce sta in mezzo» come i celerini (e gli immigrati, e i giovani, e i comuni cittadini…) muovendosi con una camera a mano che comunica tensione e malessere, facendoci provare a livello polisensoriale la paura dietro (e davanti) lo scudo di polizia. L’unica condanna tout court è quella verso il silenzio e la connivenza della politica, dal parlamento chiuso davanti al quale Negro fa la sua filippica contro il diritto di famiglia al «pesce piccolo» che, da una sede locale del Polo delle libertà, promette ad una giovane recluta aiuto per trovare casa alla madre, e poi se ne lava allegramente le mani beccandosi un pugno che, ci scommettiamo, susciterà applausi a scena aperta.
Forse la riflessione più profonda di ACAB riguarda però il mancato passaggio di testimone fra la generazione dei padri e quella dei figli, incarnata non solo dal rapporto fra Mazinga e il figlio neonazista (Eugenio Mastrandrea), ma da tutti i maschi della storia, incapaci di assumersi le responsabilità delle proprie azioni e dunque assumere un ruolo di guida.
È in questa misura che più accuratamente ACAB fotografa l’esistente, e rischia di rivelarsi un «documento storico» più rilevante di tanti film impegnati. «L’iconografia del reparto mobile si presta al poliziesco stile anni ’70, con la sua vicinanza ad uno spirito gladiatorio», dice Sollima. «Ho provato a fare un film di genere intelligente che affrontasse con coraggio temi molto presenti nella società».

Paola Casella – europaquotidiano
Traghettilines BOMPIANI 1+1 Abbonanti ad un 2024 di divertimento - Mirabilandia Pittarello - Saldi fino al -70% Frigo vuoto e voglia di vino? Te lo consegniamo in 30 minuti alla temperatura perfetta! Duowatt - Banner generici con logo Tekworld.it Bus Terravision Aeroporto Milano Malpensa Plus Hostels Transavia 2021 Radical Storage Bus notturno Fiumicino Aruba Fibra veloce Hosting Aruba - Scopri di più