Tre aborigeni vittime di un prete pedofilo citano in giudizio Papa Francesco. E chiedono risarcimento alla Chiesa

Dopo il caso del cardinale George Pell, l’Australia è travolta da un altro scandalo che riguarda l’arcidiocesi di Melbourne. Nel mirino Michael Glennon, sacerdote condannato per abusi nel 1978 sul quale però il Vaticano non avrebbe preso alcun provvedimento
Nuovo scandalo pedofilia in Australia. Papa Francesco, l’arcivescovo di Melbourne, monsignor Peter Andrew Comensoli, e la sua stessa arcidiocesi sono stati citati in giudizio davanti alla Corte Suprema dello Stato di Victoria. A denunciarli sono stati tre uomini aborigeni che dichiarano di aver subito abusi sessuali quando erano bambini da padre Michael Glennon. Secondo l’accusa, il Vaticano sarebbe stato al corrente dei reati di pedofilia commessi dal prete australiano ma non avrebbe preso alcun provvedimento dopo la sua condanna a due anni di reclusione, avvenuta nel 1978, per abusi e violenze sessuali su quindici minori. Le tre presunte vittime, che hanno chiesto di restare anonime, sostengono di aver subito gravi ripercussioni dopo gli abusi: sono diventati tossicodipendenti e sono rimasti senza casa e senza lavoro. Per questo motivo hanno chiesto un cospicuo risarcimento da parte dei vertici della Chiesa cattolica, sia in Australia che in Vaticano. Il legale dei tre uomini, Angela Sdrinis, ha dichiarato di essere in attesa che i rappresentanti della Santa Sede in Australia accettino la notifica del mandato per conto di Bergoglio. “Si tratta – ha spiegato l’avvocato – di fare in modo che il Papa e il Vaticano accettino le proprie responsabilità. Quale possibile scusa possono avanzare per non aver ridotto padre Glennon allo stato laicale?”. Il legale ha ricordato, inoltre, che, dopo la condanna, l’arcidiocesi di Melbourne sospese il sacerdote ribandendo, però, che solo il Vaticano avrebbe potuto ridurlo allo stato laicale. Cosa che non avvenne.
Non è la prima volta che l’arcidiocesi di Melbourne si trova ad affrontare un caso di pedofilia. Il cardinale George Pell, prefetto emerito della Segreteria per l’economia, era stato accusato di aver abusato sessualmente di due ragazzi, all’epoca di 12 e 13 anni, del coro della cattedrale di Saint Patrick a Melbourne quando, nel 1996, era vescovo ausiliare proprio di quella arcidiocesi. Condannato a sei anni di reclusione in primo e secondo grado, dopo tredici mesi di isolamento in carcere l’Alta Corte australiana lo ha assolto all’unanimità. Una vicenda che aveva scosso non solo l’arcidiocesi di Melbourne e quella di Sydney, che avevano avuto Pell a capo, ma anche il Vaticano perché, con l’elezione di Bergoglio, il porporato era prima divenuto membro del Consiglio di cardinali che aiuta il Papa nella riforma della Curia romana e nel governo della Chiesa e poi prefetto della Segreteria per l’economia.
Dopo l’assoluzione, Pell sottolineò che “il mio processo non è stato un referendum sulla Chiesa cattolica, né un referendum su come le autorità della Chiesa in Australia hanno affrontato il crimine della pedofilia nella Chiesa. Il punto era se avevo commesso questi terribili crimini e non l’ho fatto”. E aggiunse: “L’unica base per la guarigione a lungo termine è la verità e l’unica base per la giustizia è la verità, perché giustizia significa verità per tutti”. Parole in perfetta sintonia con quelle di Francesco che, chiudendo il summit mondiale sulla pedofilia del clero convocato in Vaticano nel febbraio 2019, disse: “Se nella Chiesa si rilevasse anche un solo caso di abuso, che rappresenta già di per sé una mostruosità, tale caso sarà affrontato con la massima serietà”. Affermazioni alle quali sono seguiti provvedimenti storici, tra cui l’abolizione del segreto pontificio per i casi di pedofilia.
Il Fatto Quotidiano

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