Storia. Aristocratici ma antifascisti: la Resistenza sconosciuta

Un saggio di Maria Malatesta ricostruisce la storia dimenticata di molti nobili che combatterono per la liberazione, alcuni persino a capo di brigate comuniste
Da sinistra: Giambattista Lazagna, Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Paolo Caccia Dominioni

Da sinistra: Giambattista Lazagna, Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Paolo Caccia Dominioni

La Resistenza si combattè anche dai castelli. E parte del sangue versato nella lotta al nazifascismo fu sangue blu. Ma poco se ne sa. Complici diversi fattori. Innanzitutto, la ritrosia che gli stessi protagonisti ebbero a far sapere di essere stati partigiani. Poi la storiografia, che ha trascurato la nobiltĂ  in genere, non si è molto interessata a quelle vicende, considerando il ceto nobiliare come un blocco granitico nell’appoggiare il fascismo. A pesare è stata, infine, la poco gloriosa fine della monarchia sabauda, che ha gettato un’ombra anche sui nobili dissidenti. Tutto ciò fa sì che Maria Malatesta intitoli “La resistenza invisibile” un capitolo della sua Storia di un’élite, La nobiltĂ  italiana dal Risorgimento agli anni Sessanta (Einaudi, pagine 336, euro 26,00).

La storica ha preso spunto per il suo studio sul tema da conversazioni avute con Giambattista Lazagna e altri esponenti di illustri schiatte come Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo dello scrittore. E ha avuto accesso ad archivi di molte famiglie. Ne scaturisce un saggio documentatissimo (solo l’indice dei nobili e delle famiglie citate è di 15 fitte pagine).

«La nobiltà è stata un gruppo sociale di antica tradizione che nel passaggio alla contemporaneità ha perso i privilegi che le assicurarono durante l’Antico regime una posizione di dominio nella società, ma che è sopravvissuta grazie a una notevole capacità di resilienza e riconversione», spiega l’autrice nell’introduzione. Così è riuscita a superare indenne ogni cambio di assetto dello Stato: Regno unitario, fascismo, Repubblica. E a trasformarsi «in una tra le molte élite che innervano le società contemporanee».

Tranne che nella Prima guerra mondiale, i nobili italiani hanno tenuto sempre un profilo basso. Ma, anche dopo l’abolizione dei titoli nella Costituzione repubblicana, è rimasta un’aura, un retaggio culturale, testimoniato dal fatto che negli anni Cinquanta scrittori e registi, come Giuseppe Tomasi di Lampedusa per Il Gattopardo e Federico Fellini per La dolce vita, hanno attinto all’immaginario di quel mondo, sia pur decaduto.

Uno degli snodi principali presi in esame è la fine della Seconda guerra mondiale. Alcuni nomi dei partigiani con quarti di nobiltà sono noti. Come quello del conte Carlo Sforza, che subito si oppose al fascismo e, da esule in Belgio, Francia e Stati Uniti, aderì all’antifascismo socialista e liberale. Polo che attrasse molti altri titolati, come Ludovico Barbiano di Belgiojoso, futuro architetto della Torre Velasca di Milano, che aderì a Giustizia e Libertà e fu deportato a Mauthausen. Oppure il duca Tommaso Gallarati Scotti che operò nella stesse reti, pur rimanendo di fede monarchica. Il patriottismo monarchico ebbe, poi, tra i suoi esempi più fulgidi quello del conte Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, colonnello dello Stato maggiore dell’esercito e animatore del Fronte militare clandestino, ucciso alle Fosse Ardeatine.

Coinvolti nelle azioni resistenziali furono, infine, Paolo Caccia Dominioni che, tornato da El Alamein, organizzò in Lombardia un gruppo armato, e un testimone che incarnò fino in fondo tutte le contraddizioni di molti esponenti del suo ceto di fronte al regime: Edgardo Sogno, il cui cognome in realtĂ  proseguiva con “Rata del Vallino di Ponzone”. Fu combattente nella guerra di Spagna, prese le distanze dal regime dopo le leggi razziali, fu esponente liberale nel Cnlai e alla Costituente, fondatore della Brigata Franchi e autore di azioni spettacolari.

Molti nobili in nome della lotta al nazifascismo, scesero, dunque, in battaglia a fianco del “nemico” di classe. Ad esempio Giambattista Lazagna, figlio del marchese genovese Umberto, figura di spicco della Resistenza liberale, si iscrisse 19enne nel 1942 al partito comunista clandestino, si arruolò e divenne vicecomandante della divisione garibaldina “Pinan Cichero”. A fare di questa una sorta di «enclave nobiliare» furono gli ingressi di altri rampolli di casati in vista, come Cesare Crosa di Vergagni, anche lui genovese e marchese, e il conte Franco Maria Saluzzo.

Dopo l’8 settembre, inoltre, molti altri giovani nobili fecero la scelta di combattere a fianco ai “rossi”. Per il comune anelito alla libertĂ , che superava le differenze di classe e pensiero, e per la maggior organizzazione, e dunque efficacia, nel combattere i nazifascisti di quelle squadre. Alessandro Guidobono Cavalchini, di antica famiglia baronale tortonese, morì combattendo da vicecomandante di una Brigata Garibaldi, mentre Agostino Cornaggia Medici, esponente di un’altra famiglia molto coinvolta come i Lazagna nella Resistenza, combattè nella lombarda Val Staffora per la Brigata “Alliotta”. Luchino del Verme, nome di battaglia “Maino”, arrivò addirittura a comandare la brigata “Antonio Gramsci”.

Non è un caso che i nobili si trovassero ai vertici di quelle formazioni, pur tra remore e diffidenze: molti erano infatti militari di carriera ed esperti ufficiali. Cosa che, tra i mugugni della base. i vertici del Cln incentivarono. E Del Verme si guadagnò anche gli elogi di Luigi Longo, futuro segretario del Pci. Mentre quest’ultimo in nome della lotta portata avanti ruppe con la sua classe, considerata inetta, ma rifiutò offerte politiche della sinistra, ritirandosi a vita privata, Giambattista Lazagna non rivendicò la scelta fatta da nobile, bensì l’identitĂ  comunista, diventando un avvocato a difesa dei lavoratori e attivo nel “Soccorso Rosso”.

La vicenda dei Lazagna è un caso emblematico di un intero nucleo nobiliare coinvolto nella Resistenza. Donne comprese: Charlotte, moglie di Umberto e la figlia 19enne Francesca finirono imprigionate. Sorte che somiglia – nota la storica – a quella della famiglia tedesca del generale Kurt von Hammerstein, dimessosi dall’esercito subito dopo la presa del potere di Hitler e divenuto punto di riferimento della Resistenza. Due figlie divennero comuniste e furono coinvolte nello spionaggio sovietico. Mentre il figlio Franz partecipò al complotto per uccidere il FĂĽhrer e finì deportato a Buchenwald con la madre e la sorella minore.

La resistenza patriottica e nobiliare fu, infatti, un fenomeno transnazionale. Al contrario che da noi, però, i nobili resistenti in Francia attuarono una strategia di autopromozione. Mentre in Germania il fenomeno ebbe una presa ben al di là degli alti strati della società, sull’opinione pubblica e sulla storiografia, per il fatto che il tentativo più concreto di uccidere Hitler fu opera dei congiurati del 20 luglio 1944, guidati da Claus von Stauffenberg e in gran parte appartenenti all’élite militare nobiliare. A Berlino di recente si è tornato a discutere animatamente sul ruolo degli Hohenzollern nell’ascesa di Hitler. E il tema nobiltà è sempre vivo sia nella repubblicana Francia che nella monarchica Inghilterra, dove l’entusiasmo per il nazismo tra gli aristocratici non fu di poco momento. Tra i meriti del libro, dunque, c’è anche quello di puntare l’obiettivo su un capitolo di storia da noi trascurato.

Avvenire

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