Welby, suicida di seconda classe

Articolo di Marco Politi pubblicato su Il Fatto Quotidiano, il 17/04/12

Capita che un prete celebri messa sulla tomba di un suicida. Non dovrebbe, perché darsi la morte è peccato capitale. Ma una pia bugia, da decenni, ammanta il rito della presunzione che il suicida sia stato “obnubilato” nel momento supremo. Che non sapesse, insomma, cosa stesse facendo e non volesse trasgredire coscientemente un comandamento divino. Ma Antonia Pozzi, la poetessa, alla cui memoria il cardinale Gianfranco Ravasi celebra stasera una messa nella chiesa parrocchiale di Pasturo, poco distante da Lecco, sapeva bene verso dove andava. Stagione dopo stagione la giovane nata nel 1912, che si ucciderà a soli 26 anni, ha duellato con il pensiero della morte, del vuoto, di Dio e dell’assenza di Dio. “Per troppa vita che ho nel sangue tremo, nel vasto inverno”, scriveva. E quattro anni prima di morire, impigliata nel dolore di vivere, lanciava il suo grido: “Non avere un Dio, non avere una tomba, non avere nulla di fermo – ma solo cose vive che sfuggono – essere senza ieri, essere senza domani, e accecarsi nel nulla – aiuto – per la miseria che non ha fine”.

Al Corriere della Sera il cardinale ha confidato che l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei suicidi oggi “presta molta attenzione alle dimensioni interiori della tragedia”. La Chiesa, ha spiegato, non può accettare superficialità o disprezzo dei valori della vita e in quei casi non può ricordare il morto con una “celebrazione esplicita”, E tuttavia, ha soggiunto, la poetessa porta con sé la storia di una “forte personalità e di intensa ricerca interiore, travolta da una sensibilità estrema”.

Ravasi è uomo di cultura, anzi attualmente è il “ministro della Cultura” in Vaticano. Suo è il programma di dialogo internazionale tra cattolici, seguaci di altre religioni e personalità esplicitamente agnostiche. L’iniziativa chiamata Cortile dei Gentili, stimolata da un’idea di Benedetto XVI. Ma Ravasi è ancora di più: l’esponente di quella tradizione ambrosiana, nutrita del pensiero di Carlo Maria Martini e del suo successore Dionigi Tettamanzi, tradizione religiosa che ha sempre voluto che la Chiesa si misurasse con la modernità e non rimanesse impigliata nei commi aridi delle leggi ecclesiastiche.

Celebrare messa per Antonia Pozzi, che a lungo esplicitamente ha meditato e scritto di essere “entrata nella strada del morire”, è un gesto di frontiera. O meglio, il gesto delicato di un porporato, che spera di spingere la Chiesa a varcare le frontiere del passato inserendo i suicidi anche ecclesialmente nell’unica dimensione possibile: l’affetto e la misericordia.

Un gesto piccolo o un gesto profetico. Si vedrà. Ma dinanzi alle coscienze degli uomini e delle don- ne di oggi e – per chi crede – di fronte alla misericordia divina non possono esistere suicidi di prima e di seconda classe. La tomba di Pergiorgio Welby chiede ancora conto alla Chiesa di Roma della crudele freddezza con cui l’allora presidente della Cei e cardinal Vicario Camino Ruini negò i funerali religiosi a chi volle accettare con coraggio l’inevitabile morte, rifiutando di restare attaccato degradato ad una macchina. Anche Welby era di una “sensibilità estrema”. Dal suo letto, paralizzato progressivamente dalla Sla, scrisse al presidente Napolitano: “Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere vive funzioni biologiche”. L’eutanasia, soggiunse, “non è morte dignitosa, ma morte opportuna nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ‘ciò che spinge verso il porto’. Per Plutarco la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto”. Welby era a suo modo poeta. Ma non è questo che conta. Certamente nel suo arrovellarsi sul vivere e il morire e sul non sottomettere la propria inesorabile sofferenza al dominio anonimo della tecnologia seppe trovare accenti da filosofo.

Il destino di Antonia Pozzi e Piergiorgio Welby non possono essere artificialmente disgiunti. Cresce nelle coscienze dei fedeli e nella sensibilità contemporanea l’esigenza che la Chiesa cattolica emerga dallo stato di fossilizzazione in cui è scivolata.

Cresce nelle coscienze il rifiuto delle ipocrisie. I riti solenni per il credente omosessuale Lucio Dalla mentre continua l’accanimento vaticano nel condannare le unioni omosessuali e nel bloccare ogni legge sulle coppie di fatto etero o gay. L’ipocrisia di una gerarchia che insiste nel negare la comunione ai divorziati risposati e chiude gli occhi quando sempre più parroci ignorano apertamente il divieto. L’ipocrisia nel demonizzare la fecondazione artificiale mentre nessuna clinica cattolica seria si azzarda a usare quel “preservativo bucato”, che per il Vaticano dovrebbe essere l’unico strumento per trasferire il seme del marito alla moglie. C’è una Chiesa del quotidiano che è molto più avanti della gerarchia istituzionale. Pochi mesi dopo la morte di Welby il cinquantatreenne Giovanni Nuvoli, ex arbitro di calcio anch’egli da tempo immobilizzato per una grave forma di sclerosi laterale amiotrofica, si lasciò morire rifiutando cibo e bevande. Ad Alghero don Potito Niolu non chiuse la porta della parrocchia. Celebrò pubblicamente il giusto funerale religioso, esclamando che “Giovanni è stato schiodato dalla croce che ha portato per sette anni”. Roma attende ancora che sulla tomba di Welby un cardinale vada a pregare e celebrare messa come chiese invano la madre di Piergiorgio, cattolica di vecchio stampo, ferita gratuitamente nella sua fede.

17 Aprile 2012 ore 22:01

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