Vaticano II, 50 anni dopo: una Chiesa nuova per un mondo diverso

DOC-2412. ROMA-ADISTA. È dedicato al Concilio Vaticano II, tema obbligato nell’anno del cinquantesimo anniversario della sua apertura, il secondo numero collettivo di riviste teologiche latinoamericane, definito anche minga (parola quechua che indica il lavoro comunitario o collettivo su base volontaria) o mutirão (termine con lo stesso significato ma di origine tupi), promosso della Commissione Teologica Latinoamericana dell’Associazione ecumenica dei teologi e delle teologhe del Terzo Mondo (Asett o Eatwot) e pubblicato ora dalla storica rivista di teologia Voices con il titolo “50 anni dal Vaticano II visti dall’America Latina”. Un’iniziativa che segue quella del primo, apprezzatissimo, numero collettivo, pubblicato nel 2010 sul tema “Ecologia e Religione in questo tempo di emergenza planetaria” (v. Adista nn. 29/10 e 15/11), con cui la Commissione affida una serie di articoli sull’argomento selezionato ai teologi e alle teologhe più esperti in materia, per inviarli poi alle riviste latinoamericane aderenti – che li pubblicano, secondo i propri tempi e i propri criteri, durante l’intero anno – e stampare infine tutto il materiale prodotto in un numero di Voices, in formato digitale.

E sempre all’evento conciliare, ma con contributi raccolti anche negli altri continenti, sarà dedicato il terzo numero collettivo, a cura del teologo brasiliano Marcelo Barros, che Voices pubblicherà alla fine del 2012.

Dalla primavera ecclesiale al «ritorno alla grande disciplina»

«Mi lamento di dover morire ora, proprio adesso che iniziavo a prendere gusto all’appartenenza alla Chiesa»: così esclamava un anziano prete, citato da Celso de Queiroz nel suo intervento, esprimendo in maniera mirabile quel «clima di libertà, di apertura e di gioia» prodotto dal Concilio. Quello di una Chiesa «con le finestre aperte al mondo moderno, accogliente e desiderosa di dialogo», una Chiesa che «rinasceva in una visione del popolo di Dio» in cui trovavano posto «tutte le persone, i popoli e le nazioni amanti del Bene, della Giustizia e della Verità», una Chiesa attenta ai reali problemi dell’umanità, rispettosa dell’autonomia del mondo e della coscienza personale «come ultima istanza decisionale dinanzi a Dio», libera dalla pretesa di sapere tutto e di insegnare tutto, al servizio di ogni persona ma in particolare dei poveri, disposta a cercare nuovi modi di esprimere la fede e di celebrarla. E con tanta più forza questo vento nuovo ha soffiato in America Latina, dove, attraverso quella rilettura creativa del Vaticano II condotta dalla Conferenza di Medellín, «i semi del Concilio – ricorda Alberto Da Silva Moreira – hanno messo radici, le radici hanno generato alberi, gli alberi hanno prodotto i fiori e i fiori hanno dato frutto», dall’opzione per i poveri alle comunità ecclesiali di base fino alla teologia della liberazione.

Il seguito è noto. A quella primavera ecclesiale ha fatto ben presto seguito l’inverno, la restaurazione, il «ritorno alla grande disciplina». L’insegnamento del Concilio – sottolinea Claude Lacaille – «è stato «sistematicamente eroso dai due papi della restaurazione, Wojtyla e Ratzinger», i quali, in quello che François Houtart ha definito «un vero suicidio istituzionale», «hanno messo da parte il concetto di collegialità promosso dal Concilio», nominato vescovi «ciecamente sottomessi alle direttive vaticane», perseguitato i teologi, screditato le comunità di base, emarginato le donne, discriminato gli omosessuali, ostacolato il dialogo interreligioso «con dichiarazioni funeste». Al punto che, evidenzia ancora Moreira, quello che abbiamo di fronte oggi è «una versione riciclata di un modello anteriore allo stesso Concilio», in cui la ripetizione burocratica delle pratiche clericali tradizionali risulta tanto più assurda in un’epoca storica in cui l’umanità è alle prese con la questione della sua sopravvivenza e della sopravvivenza della vita sulla terra e «si vede coinvolta in enormi conflitti culturali, etnici, religiosi ed economici»: un disconoscimento della realtà del mondo di tali dimensioni da configurarsi come «una mancanza morale grave». Cosicché si può ben dire che «le necessità strutturali e congiunturali di un cambiamento sono oggi, nella Chiesa, estreme esattamente come lo erano alla vigilia del Concilio». E che, proprio come allora, nota Celso de Queiroz, anche oggi «chi è attento ai segni dei tempi sente che qualcosa deve accadere».

Tsunami globale

In che modo, allora, celebrare il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Vaticano II? Secondo Geraldina Céspedes, se fare memoria del Concilio non può non tradursi nell’impegno «di aprire nuovi cammini di fedeltà al Vangelo nel contesto attuale», questo ci obbliga ad andare oltre i testi conciliari per «recuperare lo spirito profondo e l’intenzione che essi esprimono». Tanto più che tali documenti, pur avendo detto molto, non hanno però «detto tutto», neppure in relazione alle domande poste dal loro tempo: basti pensare al silenzio nei confronti delle donne, «in un’epoca in cui erano già sorti movimenti femministi in molti luoghi del mondo». Così, «se il Concilio ha avuto come segno distintivo quello dell’apertura al mondo, oggi, seguendo questo stesso spirito, la Chiesa deve essere capace di realizzare questa apertura in relazione a un mondo che in questi 50 anni è drasticamente cambiato ». Non si tratta neppure, sottolinea Víctor Codina, di un mero cambiamento d’epoca, bensì di un nuovo «tempo assiale», «una specie di tsunami e di terremoto globale» che investe ogni dimensione dell’esistenza umana. Una situazione nuova in cui «non ha più molto senso continuare a discutere di riti liturgici, di curia vaticana, di diminuzione  della pratica domenicale, di controllo della natalità, di comunione ai divorziati o di coppie omosessuali», perché i problemi «sono molto più radicali e di fondo». Questioni centrali come quelle, segnalate nell’intervento di Cecilio De Lora, dell’attualizzazione dell’espressione della fede, della riforma delle strutture della Chiesa, di un suo riposizionamento nella società nuova in cui ci troviamo a vivere, dopo la fine della cristianità e l’avvento del postcristianesimo. Questioni urgenti come lo sono, secondo Geraldina Céspedes, quelle della realtà di impoverimento e di crescente violenza nel mondo, della questione ambientale, del dialogo interreligioso, delle sfide poste dalla scienza e dalla tecnologia, del primato della spiritualità sulla religione, in un tempo in cui la gente prova una crescente avversione «verso strutture che soffocano lo spirito».

Claudia Fanti – adista – 14 Febbraio 2012

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