Teologia della liberazione, Papa Francesco ricuce la ferita

«Si è sbloccata la causa di beatificazione di monsignor Romero». A dare lo storico annuncio è stato sabato scorso monsignor Vincenzo Paglia a Molfetta, nel corso della messa celebrata nella cittadina pugliese in occasione del ventennale della morte di don Tonino Bello. Dunque coincidenza non troppo casuale: entrambi i vescovi sono simbolo di impegno per la giustizia e la pace, ma certo la vicenda di Romero è fra le più complesse della Chiesa contemporanea. Paglia, che oltre a essere Presidente del Pontificio consiglio per la famiglia è anche il postulatore della causa di Romero, aveva incontrato nel corso della mattinata dello stesso giorno il Papa.

Francesco ha dato il via libera al processo di Romero bloccato da molti anni per ragioni politiche e di prudenza curiale. Prima Giovanni Paolo II e poi lo stesso Benedetto XVI avevano infatti preferito soprassedere per il timore che la figura di Romero fosse troppo divisiva all’interno della Chiesa rappresentando cioè in modo troppo evidente quella parte dell’episcopato e del clero che si era battuta contro i regimi militari in America Latina.

Romero non fu certamente un alleato della guerriglia, tuttavia nel Salvador della fine degli anni ’70 e dei primi anni ’80, l’arcivescovo fece una scelta di campo inequivocabile in favore delle fasce più povere della popolazione e dei campesinos vittime in quel periodo dei famigerati squadroni della morte impegnati in una sorta di pulizia etnica mentre infuriava il conflitto con la guerriglia che percorreva il Salvador. Romero venne assassinato nella cattedrale di San Salvador, città di cui era arcivescovo dal 1977, il 24 marzo del 1980.

I suoi contrasti con la ristretta oligarchia del Paese centroamericano sostenuta dai militari era ormai divenuta nota e le sue omelie venivano ascoltate in tutti i Paesi della regione. «Si deve mettere bene in chiaro che il conflitto è tra il governo e il popolo», affermava il 2 maggio del 1979 monsignor Romero in un’intervista su “Vida Nueva”. «Vi è conflitto con la Chiesa – aggiungeva – perché noi ci poniamo dalla parte del popolo. Insisto nel dire che la Chiesa non esiste per litigare con il governo. E, da parte mia, non voglio contese con il governo. Quando mi dicono che sono sovversivo, che mi metto in politica, dico: è falso; il cerco di definire la missione della Chiesa, che è il prolungamento di quella di Cristo». E anche: «La Chiesa – spiegava l’arcivescovo – deve salvare il popolo, accompagnarlo nelle sue rivendicazioni, e anche non lasciarlo andare sulle vie di violenze ingiuste, di odi, di vendette. In questo senso accompagniamo il popolo, questo popolo che soffre tanto. È chiaro che coloro che calpestano questo popolo debbano stare in contesa con questa Chiesa».

Romero non era un “rivoluzionario”: aveva alle spalle un passato e una formazione da conservatore e assunse determinate posizioni, peraltro sempre in favore di una lotta non violenta, venendo a contatto con le violenze e le miserie del suo Paese. Entrò così in contrasto anche con una parte della Chiesa del Salvador; alcuni esponenti dell’episcopato salvadoregno inviarono a Roma una lettera di protesta nella quale si criticava l’operato dell’arcivescovo attribuendogli posizioni favorevoli alla lotta di classe. Erano gli anni della Teologia della Liberazione in America Latina, delle dittature nelle “repubbliche delle banane” dell’area centrale del continente e dei pronunciamenti militari nei grandi Stati del cono sud. Romero si trovò vicino a quell’area liberazionista lontana dalla scelta rivoluzionaria ma ben decisa a denunciare le gravi ingiustizie e le violenze feroci che venivano perpetrate sulla popolazione inerme dagli apparati di sicurezza e dagli eserciti.

Il suo principale collaboratore, il gesuita Rutilio Grande, venne assassinato il 12 marzo del 1977 – Romero era alla guida della diocesi di San Salvador dal febbraio dello stesso anno – e dopo di lui diversi altri sacerdoti e laici impegnati furono uccisi; l’omicidio di Romero quindi fu preceduto e poi seguito da una lunga serie di omicidi che colpirono la Chiesa del piccolo paese centroamericano. Il due dicembre del 1980 vengono trucidate quattro suore missionarie americane, al 1989 – diversi anni dopo l’uccisione di Romero – risale invece il massacro di sei gesuiti nella residenza dell’università della Compagnia di Gesù, José Simeon Canas. Con i religiosi troveranno la morte una collaboratrice domestica e la giovane figlia.

È in questa lunga scia di sangue che s’inserisce la morte e il successivo processi di beatificazione di Oscar Arnulfo Romero. Tuttavia la figura di Romero è rimasta a lungo un problema per la Chiesa di Roma, sopratutto in quegli anni ’80 in cui Roma decise di reprimere con durezza la teologia della liberazione, compito che Giovanni Paolo II affidò all’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger.

Lo stesso Romero si lamentò per i rimproveri che ricevette da Giovanni Paolo II nell’incontro che ebbe con lui nel maggio del 1979, Wojtyla temeva infatti l’eccessivo impegno dell’arcivescovo nello scontro con il regime al governo in Salvador. Quando poi Giovanni Paolo II si recò nel Paese centroamericano nel 1993, pretese di vistare la tomba di Romero nonostante la contrarietà delle autorità, quindi una volta sul posto esclamò «Romero è nostro», quasi a significare la piena appartenenza al martirio della Chiesa dell’arcivescovo di San Salvador.

E tuttavia indubbiamente la Chiesa rappresentata negli anni ’80 da figure come Romero fu guardata con sospetto dal Vaticano impegnato sul fronte della guerra fredda. Il che ebbe come conseguenza una presa di distanza dai movimenti ecclesiali latinoamericani che si battevano per una maggiore giustizia sociale e soprattutto per il rispetto dei diritti umani nella sfera d’influenza degli Stati Uniti. Non a caso risalgono a quel periodo molte vicende controverse nella storia della Chiesa latinoamericana.

Vi furono arcivescovi e cardinali vicini alla teologia della liberazione come Paulo Evaristo Arns e Alois Lorschider in Brasile, o il cardinale Raul Silva Henriquez in Cile che apertamente sostenne e diede aiuto ai perseguitati dalla dittature cilena. In Argentina la Chiesa si divise fra quanti si opposero e quanti sostennero il regime militare. Da parte della Santa Sede ci furono molte ambiguità, azioni diplomatiche positive, ma anche il sostegno a regimi militari violenti. L’annuncio dato da monsignor Paglia sembra significare che Bergoglio ha intenzione di fare chiarezza e chiudere quella pagina. La beatificazione di Romero vuole restituire piena titolarità alla Chiesa che si oppose alle dittature, una Chiesa martire che lasciò decine e decine di vittime lungo il suo cammino.

linkiesta.it

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