Joseph Ratzinger. Crisi di un papato

36458. ROMA-ADISTA. È difficile, forse impossibile, guardare e immaginare il futuro per la Chiesa cattolica quando le preoccupazione prevalenti sono la difesa e la conservazione dell’esistente. Anzi, in questo caso, l’esito non è nemmeno la conservazione e l’immobilismo, ma la restaurazione e un «ritorno al passato» dettato dalla paura che genera un inevitabile riflesso identitario. È la chiave di lettura con cui Marco Politi – vaticanista del Fatto quotidiano, dopo un ventennio trascorso alla Repubblica – interpreta i primi 6 anni e mezzo di pontificato di Benedetto XVI nel suo saggio Joseph Ratzinger. Crisi di un papato, appena pubblicato da Laterza (pp. 328, euro 18). 
Volume documentato e puntuale, ma non per questo di lettura difficile o noiosa, che ricostruisce le tappe del “regno” di Benedetto XVI, dal Conclave che lo ha eletto papa nell’aprile 2005 fino agli ultimissimi atti.
Quello che sarebbe stato il pontificato di Benedetto XVI era, in parte, già scritto nelle premesse che hanno portato Ratzinger al soglio pontificio. Quando ormai la malattia di papa Wojtyla era avanzata, scrive Politi, si forma all’interno del collegio cardinalizio un gruppo pro-Ratzinger mosso da tre preoccupazioni: «Salvaguardare il centralismo romano, ristabilire in misura più forte la dottrina e la disciplina, non permettere che gesti e decisioni papali – come era successo con il mea culpa del Giubileo o le riunioni interreligiose di Assisi, volute da Giovanni Paolo II – potessero intaccare l’immagine di supremazia della Chiesa cattolica». E Ratzinger era il candidato adatto per l’obiettivo.
Nota Politi che Ratzinger viene eletto grazie a due “complicità”: il “ricatto” della Universi dominici gregi (la Costituzione apostolica emanata da Wojtyla che, dopo un certo numero di votazioni senza esito, avrebbe consentito l’elezione di un papa a maggioranza assoluta e non più con i due terzi: se così fosse avvenuto si sarebbe data l’idea di una Chiesa divisa, risultando quindi un indiretto strumento di pressione per gli indecisi) e l’assenza di candidati tanto autorevoli da occupare l’enorme spazio lasciato vacante da Giovanni Paolo II (uno ce ne sarebbe stato, il card. Martini, ma la malattia conclamata lo tagliò fuori prima ancora che se ne iniziasse a parlare seriamente). Eletto sebbene sia un papa che «polarizza», che rappresenta solo una parte di Chiesa, quella più conservatrice, così come Martini avrebbe del resto rappresentato l’ala più progressista.
I rischi sono tutti sul tavolo e di lì a poco, dopo il primo «anno di grazia» in cui Ratzinger sembra dare un’immagine diversa da quella che ci si sarebbe aspettata dal «guardiano della fede» – incontra anche il teologo ribelle Hans Küng, suo vecchio amico e compagno “riformista” ai tempi del Concilio Vaticano II, ma «l’incontro resterà una parentesi senza seguito», nota Politi –, emergono uno dopo l’altro, come “incidenti di percorso” che però rivelano una precisa idea di Dio, di Chiesa e di umanità, frutto di una teologia – ha sostenuto Vito Mancuso durante la presentazione romana del libro il 16 novembre – incapace di dialogare con il mondo e con la storia, come invece fecero, ad esempio, i teologi della Liberazione o il teologo protestante Karl Barth, con la sua espressione «la Bibbia e il giornale». Politi elenca sei elementi critici del pontificato di Ratzinger: la frattura nei rapporti con il mondo islamico, in seguito al discorso di Benedetto XVI a Regensburg in cui, citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, il papa attribuisce all’Islam cattiveria, violenza e disumanità; la definitiva sepoltura del Concilio Vaticano II – e, con esso, delle speranza di rinnovamento della Chiesa di oggi – interpretato nell’ottica della continuità della tradizione, resa evidente anche dal ripristino della messa in latino (peraltro contraddicendo il Ratzinger riformista del post-Concilio che, ricorda Politi, scriveva su Concilium che la messa tridentina era un «rito archeologico»); la frattura nei rapporti con il mondo ebraico in seguito all’auto-assoluzione per il popolo tedesco e per la Chiesa cattolica rispetto all’affermazione del nazismo (discorso ad Auschwitz nel maggio 2006), alla riproposizione della preghiera per i «perfidi ebrei» nella liturgia del Venerdì santo secondo il messale di san Pio V (poi parzialmente corretta), all’accelerazione al processo di beatificazione del “papa dei silenzi” sulla Shoah Pio XII e alla revoca della scomunica per il vescovo lefebvriano negazionista Richard Williamson, anche a causa di un pasticcio informativo-diplomatico del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone; l’affermazione, durante un volo papale verso l’Africa, che l’uso del preservativo «aumenta il problema» della diffusione dell’aids; la questione della pedofilia ecclesiastica, in cui Politi riconosce a Benedetto XVI di aver fatto molto e di essersi «impegnato in una visibile azione di contrasto degli abusi sessuali del clero», ma di non essere arrivato fino in fondo dando «un ordine chiaro alle autorità ecclesiastiche di qualsiasi parte del mondo affinché denuncino sempre i preti predatori a magistratura e polizia»; infine, l’invenzione, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, dei «principi non negoziabili» e la loro riproposizione martellante da papa come argine alla modernità e alla secolarizzazione, con evidenti ricadute politiche, soprattutto in Italia, dove sempre più frequentemente vengono agitati dalla gerarchie ecclesiastiche come clava contro i cattolici che guardano a sinistra.
Circostanze che sono indizi di un’idea di Chiesa-«cittadella assediata» che richiama Pio IX – di cui, forse non a caso, Benedetto XVI ha ripristinato alcuni paramenti liturgici dall’evidente significato simbolico: la mitria e il pastorale – e spia di una sempre maggiore assenza di collegialità e di un progressivo rafforzamento del «centralismo curiale» e dell’«assolutismo papale». Il risultato è che «su tutti i grandi temi che richiederebbero una riforma (dalla carenza del clero al ruolo della donna nella Chiesa, dalla collegialità alle questioni della sessualità, della scienza e della bioetica) si è prodotta una stagnazione» e, nel frattempo, «si approfondisce all’interno della comunità cattolica la frattura fra due grandi tendenze: coloro che si arroccano nella riaffermazione dell’identità cattolica e coloro che si aspettano una Chiesa capace di misurarsi con le tematiche nuove, secondo l’antico detto Ecclesia semper reformanda». Forse, si chiede Politi, «bisogna cominciare a porsi la domanda se il modello di monarchia assoluta, nato dal Concilio di Trento cinquecento anni fa, sia ancora in grado di funzionare». (luca kocci)

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