Fede digitale. «Si può evangelizzare via social senza travestirsi da influencer»

«Si può evangelizzare via social senza travestirsi da influencer»

Il coordinatore del sito francese Padre Blog: «Nel digitale il prete deve restare un prete, avere uno stile equilibrato, resistere alla tentazione del narcisismo
Il coordinatore del sito francese Padre Blog: «Nel digitale il prete deve restare un prete, avere uno stile equilibrato, resistere alla tentazione del narcisismo Ed è rischioso inseguire la logica degli algoritmi»
«Sui social, la gente ha voglia di seguire un prete che resta un prete. Non un prete divenuto uno showman, oppure un pagliaccio. A ciascuno il proprio ruolo. Il nostro principio guida è di agire per la bontà del messaggio e non per l’efficacia massima dell’esposizione mediatica». Ad assicurarlo è padre Jean-Baptiste Bienvenu, ordinato in Francia nel 2016 presso la comunità dell’Emmanuel e oggi anche coordinatore del Padre Blog, nota piattaforma di video (padreblog.fr, con il sottotitolo «Connessi a quanto è essenziale»), consultati principalmente tramite i social, che rappresenta da oltre un decennio una delle realtà più seguite dell’evangelizzazione digitale francofona, fra commenti e dialoghi, spesso con una leggera nota di humour e senza mai perdere di vista il contesto dell’attualità. All’attivo del sacerdote, pure una recente «guida pratica e spirituale per liberarsi dagli schermi » ( Ils nous bouffent, Artège), in cui si mettono in luce i rischi di un uso eccessivo degli strumenti digitali. In modo originale, l’opera propone pure un “test di autovalutazione” del posto degli schermi nella vita di ciascuno. Padre Bienvenu è anche insegnante di Teologia morale presso il Seminario di Versailles.

Lei ha preso la scia di padre Pierre-Hervé Grosjean come coordinatore del gruppo del Padre Blog, composto oggi da 5 giovani sacerdoti. In che senso si tratta di un’opera collettiva?
Seguiamo ogni contenuto assieme. Ci siamo fissati infatti la regola di non pubblicare mai nulla senza che gli altri siano al corrente. Se percepiamo un problema, ne discutiamo per apportare delle modifiche. Questa modalità collettiva conferisce pure un certo equilibrio al nostro lavoro, che riguarda solo i contenuti, dato che per gli aspetti tecnici siamo aiutati da volontari.

A suo parere, cosa giustifica un impegno nell’evangelizzazione digitale?
Certamente, il bisogno di raggiungere le persone laddove si trovano. Insomma, un principio di realtà. Siamo innanzitutto noi ad andare verso la gente e non il contrario. In questo senso, i social sono oggi come una nuova agorà.

Calarsi in uno strumento tecnico è sempre una sfida?
Una difficoltà tecnica è data dall’esistenza di un algoritmo che determina l’esposizione del messaggio. Dunque, i contenuti devono piacere all’algoritmo. Proprio per questo è importante per gli attori della nuova evangelizzazione sui social riflettere sulle regole etiche da rispettare, sul piano personale e di squadra. Non si può certamente fare qualsiasi cosa per guadagnare il diritto d’essere esposti meglio dall’algoritmo. Dunque, talvolta, occorre scegliere deliberatamente di non essere tanto esposti come sarebbe possibile, proprio perché non si vogliono superare certi steccati, in termini di linguaggio, di narcisismo e altro. Non è mai semplice e siamo consapevoli che altri si piegano molto più di noi ai criteri dell’algoritmo.

Un esempio?
Innanzitutto, cerchiamo di concentrarci sul messaggio, senza parlare di noi stessi. Inoltre, badiamo a non scadere mai in uscite burlesche da clown. Insomma, cerchiamo di restare i preti che siamo all’uscita dalla Messa, con i fedeli. Dei sacerdoti normali e accessibili. Pur su un registro piuttosto informale, utilizziamo le stesse parole impiegate in un’omelia o in un incontro dal vivo, restando fedeli al Magistero, senza lanciarci in pareri troppo personali. Siamo al servizio della propagazione di un messaggio e non delle nostre opinioni individuali. Non rincorriamo dunque delle nuove tendenze e non ci mettiamo, per così dire, a ballare. Cerchiamo di essere noi stessi. E se al social non sta bene, nessun problema.

Ci sono dei rischi, per un prete?
Il primo rischio, in particolare per un prete, è il narcisismo. Il fatto di ricercare un successo personale e di valutarlo. Lavoriamo in gruppo anche per questa ragione, in modo da conservare la semplicità e l’umiltà necessarie per una comunicazione equi-librata, senza sovraesposizioni.

Chi vi segue è giovane?
La maggioranza ha meno di 35 anni, ma c’è pure un pubblico più fedele che ci segue da anni e che può essere più avanti in età, sulla quarantina.

Un prete sui social è un influencer?
È un sacerdote che propone un messaggio che gli sembra buono, con la consapevolezza, certo, che avrà un’influenza, come avviene sempre nello spazio pubblico. Ma quest’influenza è forse nascosta o machiavellica? No. Si tratta solo di un messaggio buono pronunciato senza timore e destinato poi a percorrere la propria strada, essendo al servizio di Cristo.

È possibile connettere pastorale tradizionale e digitale?
Non sappiamo mai esattamente a chi ci rivolgiamo sui social. Ma proponiamo il Padre Blog come un complemento a una vita pastorale normale, o eventualmente come una prima tappa verso questa vita comunitaria e parrocchiale. In generale, non è possibile costruire la propria vita spirituale senza una comunità reale. Senza delle persone in carne ed ossa, le celebrazioni e i sacramenti. Ogni tanto, comunque, ci capita d’incontrare dei fedeli che ci dicono che il Padre Blog è stato per loro il primo passo.

Si tratta pure di un modo per raggiungere i non praticanti?
Sì, anche se non saprei dire qual è la proporzione. In questo senso, restiamo nella gratuità e nell’apertura a tutti.

Lei ha pubblicato un saggio sulla relazione che intratteniamo con i social. Può parlarcene?
Si tratta di una riflessione anche per dire che i social, in quanto tali, non fanno necessariamente sempre del bene all’umanità. Certamente, contribuiscono pure all’individualismo, alla mercantilizzazione della vita quotidiana, all’onnipresenza della pubblicità. Vi è indubbiamente qualcosa di negativo che rischia di “confinare” le persone. Ma al contempo, poiché questi mezzi fanno parte del nostro mondo, occorre essere presenti. Personalmente, in questo senso, cerco di non dimenticare mai che il cuore del mio ministero deve restare negli incontri reali. Mi piacerebbe immaginare un mondo senza più influencer e con soli scambi fra persone, senza le imposizioni di un algoritmo che condiziona così tante relazioni umane. In modo un po’ paradossale, dunque, cerchiamo di essere presenti sui social anche per aiutare le persone a conservare un equilibrio e una certa distanza critica verso questi strumenti.

avvenire.it

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