Chiesa e Stato, religione e scienza. La pandemia e la speranza di un nuovo inizio

Con la riapertura delle chiese si è finalmente ricomposta la controversia tra i vescovi italiani e il governo. Decisivi si sono rivelati l’intervento di Papa Francesco, che ha richiamato i prelati a maggiore saggezza, e dell’esecutivo, che ha mostrato disponibilità al dialogo. La vicenda ha riproposto l’annoso problema dei rapporti tra Chiesa e Stato, religione e scienza, nonché una riflessione sulle pratiche liturgiche rivendicate nonostante la drammatica emergenza. Nell’intento di «riprendere l’azione pastorale», il documento della CEI ha criticato aspramente il governo. L’accusa di vedere «compromessa la libertà di culto», contro i dettami della Costituzione, rappresenta un palese travisamento della realtà.

I provvedimenti restrittivi adottati su parere del Comitato Tecnico Scientifico sono partiti dal principio di salvaguardare la vita dei cittadini, senza voler attentare alle loro libertà civili e di professione religiosa. I responsabili di altre confessioni hanno invitato i fedeli a rispettare le disposizioni emanate, consapevoli che Dio ascolta la preghiera anche al di fuori dei luoghi deputati. Il vescovo Giovanni D’Ercole ha tacciato d’incompetenza il Comitato Scientifico sostenendo convintamente come in chiesa il virus non possa propagarsi (?). Per via dei numerosi contatti tra persone, le chiese rischiano di aumentare la diffusione del contagio. Il virus non rispetta la sacralità del luogo e non sarà semplice per le parrocchie garantire l’osservanza delle prescrizioni di tutela. Ricevere l’ostia dalle mani del prete espone certamente a un rischio maggiore di altre situazioni che favoriscono il mantenimento delle distanze. Medici cattolici, impegnati sul campo della terapia, hanno manifestato le loro riserve sulla riapertura dei luoghi di culto. Nel lecchese un parroco, che ha perso il papà e un collaboratore, ha riconosciuto l’imprudenza di tornare a messa prima dell’estate.

Attivi sui mezzi d’informazione, il vescovo di Ascoli Piceno e l’arcivescovo di Chieti si sono schierati apertamente contro il parere degli esperti, reclamando l’immediata riapertura. La scienza non ha dogmi e nel suo campo merita maggior credibilità dei prelati. L’uomo è stato creato a immagine di Dio, ma nessun uomo – tanto meno un religioso – può illudersi che Dio sia come lo immagina la sua mente. Nella tragedia che sta vivendo buona parte dell’umanità, la salute delle persone è un’esigenza prioritaria. Prendendo le distanze dalla dichiarazione della CEI, Papa Francesco ha invitato al «rispetto delle norme seguendo le indicazioni delle autorità civili», certo che «la prudenza e l’obbedienza alle disposizioni eviteranno che la pandemia torni ad infierire». Positivo al virus e guarito dopo l’intubazione, il vescovo di Pinerolo ha raccomandato ai confratelli di essere «prudenti e collaborativi»; messaggio che lanciano anche alcuni preti di frontiera vittime dell’epidemia. I vescovi sono consapevoli che la professione di fede e “la pastorale” del clero non si limitano all’ufficialità dei riti, ma includono un più vasto coinvolgimento nella vita della comunità. Alla samaritana il Maestro dichiarò: «l’ora viene, anzi è già venuta, che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità» (Gv 4, 23-24). Con queste parole sentenziava la fine dei culti ufficiali e sanciva la condanna a morte che gli avrebbe riservato la religione dei Padri. Una chiara lezione di laicità di Cristo non recepita dalla Chiesa, che ha fondato la propria missione sulla ritualità. Lo “spezzare il pane”, che il Maestro raccomandava di fare “in sua memoria”, si traduceva nella vita comune delle prime comunità cristiane, praticata e descritta negli Atti degli Apostoli. I credenti «erano assidui nella frazione del pane e nella preghiera… stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune». La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede «aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà ciò che gli apparteneva… nessuno infatti tra loro era bisognoso» (At, capitoli 2 e 4). Tuttavia, il messaggio chiaro della metafora di Cristo, del pane spezzato e condiviso, da testimoniare con la pratica di vita, si è poi ridotto all’astrazione filosofica “della forma e della sostanza” del pane e del vino, trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo. Il “tavolo della convivialità” vissuta è diventato l’altare del sacrificio, retaggio dei riti pagani in cui la divinità si placava col versamento del sangue. Il fedele adempiva in tal modo al proprio “dovere” senza altri obblighi. Dall’attenzione al Cristo che vive nelle sembianze del prossimo, come dice Matteo, si è passati all’adorazione dell’ostia, riducendo il gesto dello “spezzare il pane” alla teatralità di una liturgia. Tutta la predicazione di Cristo annunciava un Dio che non gradisce i sacrifici e le preghiere, ma ammonisce il suo popolo di «imparare a fare il bene, cercare la giustizia e rialzare l’oppresso», come dice il profeta Isaia.

Ultimamente Papa Francesco ha raccomandato di “declericalizzare” la Chiesa. Forse è la speranza di un inizio, non certo vicino, che riporterà la Chiesa di Cristo alle sue origini, ad una spiritualità cristiana laica. Padre Ernesto Balducci scriveva che, in tutta la sua predicazione profetica, Gesù di Nazareth escludeva l’importanza del Tempio, della Legge e del sacerdozio (definiti «regno di Satana»). Egli proclamava il Regno di Dio inteso come mondo composto dai «reietti della società, dagli stranieri, dai poveri, dai perseguitati». Davanti ai tutori delle Legge che lo interrogavano, Cristo esaltava il samaritano scismatico, lodava il pubblicano che, consapevole dei suoi limiti, si fermava in fondo al tempio, e invece biasimava la superbia del fariseo che, davanti all’altare, rinfacciava a Dio la propria onestà. Il Maestro difendeva i peccatori da una legge ingiusta e vendicativa, non apprezzava coloro che lodano Dio nelle piazze «per farsi vedere dagli uomini» e ostentano la propria religiosità (Mt 6, 5-8). Riconobbe inoltre la capacità di amare in una prostituta contro l’aridità morale di un difensore della Legge di Mosè. Sembra evidente come il Cristo dei vangeli sia stato reso irriconoscibile dalla Chiesa stessa, che afferma di parlare in suo nome. Durante le celebrazioni in alcune parrocchie, i preti non possono permettersi di predicare l’accoglienza agli immigrati perché contestati da fedeli col rosario in mano (!). Lo stesso Papa Francesco perdeva parte del consenso iniziale per aver predicato l’accoglienza. Il vero cristiano non vive per andare in chiesa ma va in chiesa per vivere i suoi impegni di credente. I riti si ripetono da secoli, le “sante messe” sono offerte a Dio da cappellani di eserciti contrapposti, ognuno dei quali ne invoca il nome a favore della sua parte.

Durante la prima fase di quarantena alcuni parroci hanno organizzato celebrazioni sui terrazzi o nelle chiese vuote (talvolta in forme spettacolari bizzarre). L’evento appariva più come il gesto di chi tiene a conservare una identità che teme di perdere. La “liturgia eucaristica” aveva inizio con la Cena del Signore, che consacrava tre anni di condivisione di vita e ideali tra il Maestro e gli Apostoli. Il “rito pasquale” era celebrato da una comitiva di persone eterogenee unite dalla vita comunitaria. Riscoprendo il significato di quell’antico evento, il Concilio Vaticano II ha riconfermato la legittimità della liturgia eucaristica nella presenza di una comunità partecipe, in preghiera. Non si organizza un banchetto senza gli invitati né si impone loro la passività e il silenzio. Tuttavia quel sentimento di comunità è venuto meno nel tempo, limitandosi al momento ufficiale delle celebrazioni e sciogliendosi alla porta della chiesa. Nata per la comunità dei vivi, la messa ha finito per configurarsi come rito di suffragio per i defunti: una pratica a cui anche il Padre della Chiesa Agostino poneva riserve. Cristo ha dato inizio a una rivoluzione spirituale, culturale e sociale che favorisce la promozione dell’uomo e della società senza legarsi ai riti del culto. Egli aveva un concetto liberatorio e propositivo della legge («Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato»). Rimase appartato per quaranta giorni nel deserto, anche lui in quarantena, lontano dalla vita pubblica e dal Tempio.

In questi due mesi, in alternativa alla celebrazione eucaristica, alcuni fedeli hanno organizzato la celebrazione della Parola, leggendo e commentando il Vangelo, così da rendere attuale e comprensibile un linguaggio biblico che a volte sa di ebraico anche in italiano. Confortante è come nelle coscienze di tante persone si sia risvegliata la consuetudine del “dividere il pane”, di cui l’ostia è essenzialmente il simbolo. Gente devota, o che non ha mai frequentato la chiesa, distribuisce il necessario a persone affette dal male endemico della povertà, agli anziani, ai bambini che risparmiano il cibo per il giorno dopo. Nei condomini, spesso agglomerati della estraneità e di accesi conflitti, l’aiuto reciproco viaggia attraverso l’ascensore, improvvisato rider della solidarietà. L’eccezionalità degli eventi ha reso possibile gesti di umanità che dovrebbero caratterizzare il nostro vivere quotidiano. In questa drammatica vicenda il clero non può rimanere con lo sguardo proteso verso il Tempio, come il sacerdote della parabola, ma deve fermarsi a soccorrere l’uomo insidiato dal male mortale. Il teologo Karl Barth esprimeva il conflitto del cristiano con l’invocazione paradossale: «Signore, liberami dalla religione e dammi la fede». Il Maestro ha detto che il mondo avrebbe riconosciuto i suoi discepoli «dai loro frutti», e l’Apostolo Giacomo proclamava che «la fede senza le opere è morta». È la sfida per la Chiesa di oggi e di sempre. Il digiuno eucaristico avrà offerto alla Chiesa e ai credenti una provvidenziale opportunità per la riscoperta dei valori smarriti in una religiosità che il vecchio Papa definiva “di routine”. Come i discepoli di Emmaus, che avevano perduto ogni speranza, riconosceranno Cristo quando torneranno a “spezzare il pane” tra di loro e con gli altri. (Lc 24). A una società che privilegia il criterio del profitto e dell’interesse personale alle perdite umane, giudicando prioritaria l’affermazione dell’individuo rispetto alla promozione della collettività, deve contrapporsi l’impegno dei cristiani per la giustizia e la salvaguardia dei valori fondamentali della vita comunitaria. Le premure dei vescovi e del clero saranno rivolte alle famiglie che lottano per la sopravvivenza, vivono nella precarietà del lavoro, nella marginalità, ai giovani senza futuro.

C’è da augurarsi che l’esternazione della Conferenza Episcopale Italiana non comporti un’involuzione nella gestione della pastorale della Chiesa. Va scongiurato il rischio che in Italia si torni a un passato in cui le libertà di laici e cattolici, nelle scelte politiche e sui diritti civili, si rivelavano nulle sotto le direttive della CEI (guidata per decenni dal cardinale Camillo Ruini). Lo Stato laico ha subìto reiterati condizionamenti e prevaricazioni da parte di un’istituzione in contrasto con la libertà che il Vangelo garantisce all’individuo. Ogni tentativo di rendere cristiana la società attraverso le leggi dello Stato denuncia il fallimento di una Chiesa incapace di annunciare il messaggio di Cristo in modo persuasivo, di attrarre le persone con la testimonianza, soprattutto. Il ricorso alla forza per annunciare il Vangelo è un segno eloquente di debolezza. In L’avventura d’un povero cristiano, Ignazio Silone fa dire a Celestino V che «la tentazione della Chiesa è la tentazione del potere». Quello sulle coscienze è il più subdolo e, per questo, più pericoloso. Adista

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