Il vero senso della sofferenza

Giobbe ha terminato i suoi discorsi. I suoi “amici” lo hanno umiliato e deluso, ma gli hanno anche consentito di trovare ragioni via via più profonde della sua innocenza. Nei momenti di discernimento profondo sulla giustizia della nostra vita e di quella del mondo, il dialogo è strumento essenziale. Riusciamo a capire le domande più profonde sulla nostra esistenza, a penetrare le profondità più buie della nostra anima, solo in compagnia, dialogando. Anche quando gli interlocutori non sono nostri amici, non ci capiscono e ci fanno male, la verità su di noi emerge dialogando con altri umani, con Dio, con la natura. Le solitudini sono buone solo quando rappresentano una pausa tra due dialoghi. Per conoscere chi siamo veramente, per raggiungere gli angoli più nascosti e veri del nostro cuore, c’è bisogno soprattutto di parlare e di ascoltare. Nelle notti della vita è meglio essere male-accompagnati che soli.

Giobbe è giunto a testa alta al termine del suo processo. Come “un principe” attende Dio, ma non sa se arriverà, e se sarà il Dio vecchio dei suoi “amici” o un Dio nuovo. E noi, ignoranti come lui, attendiamo con lui. La Bibbia è viva e vera finché è capace di sorprenderci. Se riavvertiamo qui ed ora lo stupore per il mare che si apre davanti a noi mentre siamo inseguiti dall’esercito del faraone; se assistiamo disperati alla morte di un uomo in croce e poi restiamo senza fiato quando lo sentiamo, vivo, pronunciare il nostro nome.

La prima sorpresa che giunge al termine delle parole di Giobbe, avvocato di se stesso, è l’arrivo di un nuovo personaggio: Elihu. Non si capisce se è un carattere previsto nel copione iniziale del dramma e tenuto fin qui intenzionalmente nascosto, uno spettatore che irrompe improvvisamente sulla scena, o magari il direttore del teatro che vuol far sentire la sua voce diversa. Ciò che è certo è che nessun lettore che si accosti al libro per la prima volta si aspetta a questo punto Elihu. Non c’era nel Prologo, e la tensione drammatica del testo ci aveva preparati per incontrare soltanto un ultimo personaggio: Elohim. E invece questo libro è grande anche per i suoi colpi di scena, per i continui salti che ci costringe a fare per tenere vivo il desiderio delle parole di Elohim, che tutti vorremmo grandi almeno come quelle di Giobbe.

Forse una prima stesura del libro terminava con il capitolo 31, quando Giobbe ha risposto a tutte le accuse dei suoi interlocutori e li ha fatti tacere. Il silenzio di tutti i protagonisti poteva essere la conclusione più antica del libro. Giobbe aveva portato a termine la sua prova, e il “Satan” non aveva vinto la sua scommessa. Forse non c’era bisogno né di Elihu, né delle parole di Elohim, perché – a pensarci bene – Dio aveva già detto tutto nel Prologo del libro. Ma i grandi libri, certamente i libri biblici, sono ancora vivi perché, come nelle città più antiche, i primi templi vengono trasformati in chiese, le nuove case usano le pietre delle vecchie, attorno alle prime costruzioni ne nascono altre con nuovi stili architettonici. Il poemetto di Elihu è una nuova piazza della città di Giobbe, più recente dei primi grandi fori e templi, artisticamente meno originale, e troppo larga per non disturbare l’armonia dell’antico paesaggio. Un luogo che dobbiamo comunque attraversare. Camminandoci sopra scopriremo alcuni cantucci interessanti, e arrivando in cima a qualche sua scalinata ci si apriranno prospettive nuove sulle antiche ed eterne bellezze di questa città.

«Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe, perché egli si riteneva giusto. Allora si accese lo sdegno di Elihu, figlio di Barachele, il Buzita, della tribù di Ram. Si accese di sdegno contro Giobbe, perché si considerava giusto di fronte a Dio; si accese di sdegno anche contro i suoi tre amici, perché non avevano trovato di che rispondere, sebbene avessero dichiarato Giobbe colpevole» (32,1-4).

Un primo elemento di interesse di Elihu sta nel suo nome, molto simile a quello del profeta Elia: «Egli è il mio Dio». Elihu è l’unico personaggio del libro con una chiara connotazione israelitica. Inoltre solo Elihu ha una genealogia: è della regione di Buz. Dalla Genesi (22,22-24) sappiamo che due nipoti di Abramo si chiamano Us e Buz, e Us è la regione di Giobbe. Due dati che collocano Elihu molto prossimo a Giobbe e alla cultura di Israele. Elihu ci dice che si vuole porre sullo stesso piano di Giobbe, in un dialogo alla pari fra terrestri: «Ecco, io sono come te di fronte a Dio, anch’io sono stato formato dal fango» (33,6).

I primi 31 capitoli del libro di Giobbe sono molto radicali ed estremi per ogni lettore e in ogni tempo. Se siamo onesti non possiamo non andare in crisi, perché questo canto del giusto innocente ci costringe a ripensare profondamente le nostre teologie, religioni, ideologie. Ci obbliga a metterci dalla parte delle vittime e delle loro domande che smascherano le nostre idolatrie, a guardare il mondo dal basso verso l’alto, a interrogare Dio partendo dai poveri e non viceversa (come siamo abituati dalle stesse religioni). Nel corso della lettura, quando le domande di Giobbe iniziano a farci male, può così facilmente nascere la tentazione di emendarlo, di smorzare la radicalità del suo messaggio per starci più comodi dentro. Un giorno, una generazione di intellettuali, quando il testo si trovava ancora in una fase permeabile e precedente alla redazione finale, ha forse avuto il coraggio e l’ardire di rimettere mano a quell’antico canto di un innocente sventurato, e ha introdotto nel testo originario una lunghissima digressione (capp. 32-37), per rendere meno scandalosa la sconfitta della teologia tradizionale e meno netta la vittoria di Giobbe – e magari per migliorare gli stessi discorsi di Dio: «Non venite a dire: Abbiamo trovato noi la sapienza, Dio solo può vincerlo, non un uomo!» (32,13). Gli autori di Elihu non accettano la sconfitta sul piano dell’argomentazione dialogica: vogliono tentare un’ultima arringa, mostrare che esistono altre ragioni tutte umane per confutare le “bestemmie” di Giobbe. Il risultato è comunque modesto. Di argomenti nuovi se ne trovano molto pochi, anche se non mancano alcuni versi degni delle migliori pagine di Giobbe (es. 33,15-18;27-29).

La tesi di Elihu più originale – ben nota alla tradizione sapienziale di Israele ma quasi del tutto assente nelle argomentazioni dei tre amici di Giobbe – riguarda il ruolo salvifico della sofferenza, che Dio manda per migliorare e convertire le creature: «Talvolta egli corregge l’uomo con dolori nel suo letto e con la tortura continua delle ossa» (33,19-22). Qui ritroviamo un’idea che attraversa l’intero universo ebraico-cristiano, che è affascinante perché contiene anche una verità. Una tesi, però, che pone troppi problemi in sé e che certamente non funziona per Giobbe.

Non possiamo negare che nella tradizione biblica esista una linea teologica secondo la quale Dio manda agli uomini varie forme di sofferenza per ottenere la loro conversione (basterebbe pensare alle “piaghe d’Egitto”). Quando però nelle religioni prevale una lettura salvifica della sofferenza e del dolore, appare sempre la tentazione di non fare di tutto per alleviare la sofferenza umana e dei poveri. E possono anche insinuarsi l’idea e la prassi che sia bene lasciare le persone nelle loro sofferenze perché alleviarle o eliminarle potrebbe far perdere al sofferente la possibilità di salvarsi. Giobbe, invece, sta aspettando un altro Dio, che non sia la causa della sofferenza degli uomini – e noi con lui. Un volto di Elohim che è compagno di viaggio di chi soffre, che ha compassione di lui, e se ne prende cura.

La sofferenza fa parte della condizione umana, è nostro pane quotidiano; e se Elohim è il Dio della vita lo possiamo senz’altro trovare anche in fondo alle sofferenze nostre e degli altri. Qualche volta la notte del dolore consente di vedere stelle più lontane, e di sentire “abitato” il vuoto creato dalla sofferenza. L’incontro con la sofferenza ci può far accedere a dimensioni più profonde della nostra vita, quando nella nudità dell’esistenza possiamo incontrare un io più vero che ancora non conoscevano. Altre volte, invece, la sofferenza peggiora le persone, toglie la luce del giorno e non riusciamo più a vedere neanche il sole a mezzodì. Troppi poveri sono schiacciati da sofferenze che non li fanno più umani. I primi capitoli della Genesi ci dicono che la sofferenza dell’”Adam” non era nel progetto originario di Dio, e che la sua sorgente è esterna ad Elohim. La Bibbia sa che gli dèi che si nutrono della sofferenza degli uomini si chiamano “idoli”.

Ma Elihu non può usare il suo argomento per spiegare la sofferenza di Giobbe. Giobbe è giusto e innocente, non si trovava né si trova in nessuna condizione di peccato mortale da cui uscire grazie alla sofferenza. Allora pur dovendo riconoscere il valore antropologico e spirituale che la sofferenza qualche volta può produrre, nessuna lettura umanistica e quindi vera della Bibbia può far di Dio la “causa” della sofferenza degli uomini, tanto meno degli innocenti. Quale Dio può associare alla sua azione la sofferenza dei bambini, l’annientamento dei poveri, l’urlo dei tanti Giobbe della storia? E chi lo fa costruisce religioni disumane e dèi troppo piccoli per essere all’altezza della parte migliore di noi che continua a patire quando incontra la sofferenza umana. Quale senso religioso avrebbe un mondo dove gli esseri umani migliori combattono le sofferenze che Dio stesso procurerebbe? Nessuno. I crocifissi senza resurrezione non salvano né gli uomini né Dio, e chiunque cerchi di bloccare le religioni al venerdì santo sta impedendo la fioritura degli uomini e di Dio. La solidarietà e la fraternità sono nate e rinascono dalla nostra capacità di soffrire per la sofferenza altrui, dalla nostra compassione per il dolore di ogni donna e di ogni uomo. È questo Dio solidale che Giobbe cerca: un Dio che sia il primo a soffrire per la sofferenza del mondo, il primo ad agire per ridurla riscattando i poveri e le vittime.

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